domenica 21 gennaio 2018

IL RUOTINO DI ANTONY MORATO





Milano, la bella Milano. Le gonne d’inverno, le vie intasate, gli aperitivi pieni di stuzzichi, il lavoro istantaneo. Ecco, fu l’idea del lavoro che mi spintonò nella metropoli. Ad Alloccopolis o pulisci i cessi o ti fai mantenere da una segretaria, e gli aperitivi sono unti da pochi crostini secchi. Approdai in Stazione Centrale una sera d’inverno. Neon e freddo mi provocarono una vertigine irrequieta. Presi un panino e una birra. Il barista mi scrutava con i suoi occhi stanchi e inespressivi. “Fanno 23 Euro caro”, disse senza emozione. “Per una birra calda e un panino di ieri?”, “Lo scontrino è sul banco,” disse mostrandomi alti i palmi. Inutile insistere. Sprofondai nella metro insieme ad un esercito stanco di persone. Avevo preso un monolocale in affitto sul web, lontano dal centro. Al mio arrivo un rumeno mi consegnò le chiavi accompagnandomi dentro. “Io vado,” disse. “Tutto qui?”, risposi. Non so perché mi sembrava lecito aspettarmi qualcosa. “Le buste per la differenziata sono nel tiretto della cucina”, “Ok, amico, grazie”. E sparì dileguandosi nelle scale. Fuori la finestra s’alzava a pochi metri un palazzo, nessuno aveva le tendine e li vedevo cucinare e borbottare di continuo. Li guardai per ore, un tizio vide che lo spiavo ma ributtò subito lo sguardo sulla padella. L’intimità non sembrava avere valore. Dormii un sonno pigro e senza sogni.

Il giorno dopo mi tuffai in metro all’alba. L’esercito stanco della sera prima era adesso un plotone pronto a vincere tutto, pieno di energia. Una volta in centro decisi di fare colazione. Ordinai un cornetto al banco. “Mi passa lo zucchero?” chiese un giovane. Lo guardai per un tempo imprecisato. Aveva i capelli impomatati come gli omini della Lego; una sciarpa multistrato e il riporto dei calzoni ad altezza menisco. Due mocassini rossi come il sangue chiudevano le caviglie nude. “Lo zucchero, lì, alla sua destra, mi passi una bustina”. “Ah, si, mi scusi”. Presi una bustina e la passai al giovane. “Lei non è di qui, si vede,” disse sicuro. “No, infatti, sono arrivato ieri”, “E le piace Milano?” chiese sorseggiando. “Sono arrivato ieri,” dissi di nuovo. “Oh, veda, si abituerà presto, Milano ti prende lei, non serve cambiare o affannarsi negli incontri, le piomberà tutto addosso senza che lei si dia conto”. Tirò fuori un mazzo di soldi arrotolati come un tubo e pagò la consumazione. “E’ così che funziona qui, bisogna far vedere di cosa si dispone. Le piacciono i miei mocassini?” chiese. “No, a dire il vero non molto,” risposi. “Male, ragazzo, molto male. Si vede che lei è nuovo. Sono della nuova collezione estiva di Dolce&Gabbana, costano 487 Euro”, “Ma siamo in inverno,” contestai. “Bene. Vede? Bisogna essere avanti, sempre avanti, mai indietro”, “Non ha freddo ai piedi?”, “Certo, non li sento più da almeno due ore, è come se il sangue non passasse più”. Lo guardai cercando di capire; pagai anch’io il mio caffè. Il tizio s’offrì di darmi un passaggio. Arrivammo poco dopo alla sua auto. Salimmo mentre catalogava tutti gli optional, come la verniciatura e la radio da 5000 Euro. Mi sedetti; lui spinse un pulsante luminoso e subito sentii caldo al culo. “Eh eh, le piace? Li ho fatti montare il mese scorso, 1200 Euro, se vuole alzo la temperatura,” chiese tronfio. “No, per Dio, anzi, la abbassi cortesemente”. Prendemmo a sfrecciare a velocità folle e tra caldo e paura quasi mi pisciavo sotto. Quindi prese una buca. Al tonfo sordo seguì il cigolio della cerchione sull’asfalto. “Cazzo,” urlai. “Non si preoccupi,” rispose quello, “è solo un’altra occasione per mostrare ciò di cui si dispone, proprio come le dicevo al bar”. Non capivo dove volesse andare a parare e lo guardai con occhi basiti. “Venga, le mostro”. Lo seguii fino al retro dell’auto, dove aprì il portabagagli ed estrasse uno strano ruotino viola. “Ma che cazzo…” urlai. “E’ della collezione di Antony Morato, comprato già da un mese, e adesso ho l’occasione di mostrarlo al mondo. 3000 Euro”. Montammo l’orribile ruotino, non era della grandezza giusta e ci mettemmo tutta la mattinata a metterlo su. Il tizio mi diede un paio di guanti di Roberto Cavalli per non sporcarmi le mani. 46 Euro. Ero sfinito, chiesi di riaccompagnarmi a casa e lui si mostrò gentile. Andava piano, credo per far vedere il ruotino a tutti. Sotto casa mi chiese il numero, lo recitai a voce con l’ultima cifra sbagliata. Ne avevo abbastanza di quel tizio, e forse di Milano tutta. Tornai al monolocale. Guardai per ore i tizi che cucinavano come sotto ipnosi, credo si sentissero soli.

giovedì 2 maggio 2013

Bomba atomica.

  Era il primo giorno di occupazione al Liceo. Io, Testa di Gomito e Il Riccio decidemmo di non partecipare alla riunione studentesca in palestra, ritenendo superflue – e forse anche noiose – le urla impegnate dei rappresentanti d’istituto. (Megafoni e slogan non erano nelle nostre corde, diciamo). E allora andammo al Todis e, acquistati due fiaschi di whiskey, prendemmo posto nel prato adiacente al Liceo. Ricordo che dimezzammo i recipienti a velocità supersonica. Com’era prevedibile, perdemmo ogni sorta di freno. Eravamo giovani, troppo giovani – mai prima di allora avevamo ingurgitato così tanto alcol in così poco tempo. 
Il primo ad impazzire fu Il Riccio. Gli occhi rossi e gonfi, i capelli pieni di fili d’erba, puntò le mani a terra e s’alzò con uno scatto; poi si rivolse a noi, tutto minaccioso: 
«Dove avete messo la mia borsa? Ladri!» disse. 
«Hey Riccio, guarda che ti pende dalle spalle» dissi io. E giuro che era la verità. 
«Robin, non prendermi per il culo, dimmi subito dov’è nascosta.» 
«Oh, ma vai a cagare, rincoglionito» disse Testa di Gomito. 
«LADRI!» urlò Il Riccio, e prese a correre veloce. Riuscii a seguirlo con lo sguardo fino alla stradina che portava al parco dell’asilo. Borsa a tracolla, correva zigzagando fra i pini altissimi. Sicché mi trovai solo con Testa di Gomito; e adesso anche lui, preso dal demone del whiskey di terz’ordine (due bottiglie le pagammo Lire 12.000), dava segni di follia. 
«Andiamo all’assemblea» disse. 
«Non mi pare una buona cosa». 
«Non preoccuparti Robin, stiamo benissimo» rispose Testa di Gomito, sorridendo. «Nessuno si accorgerà di nulla». 
Acconsentii. Ma quando ci alzammo fu tutto più difficoltoso, e dovemmo appoggiarci l’uno all’altro per arrivare alla palestra del Liceo, dove i rappresentanti d’istituto infuriavano in discorsi impegnati e incomprensibili. Li ascoltammo per un po’. 
«Che cazzate!» disse Testa di Gomito. 
Io tirai fuori il whiskey avanzato e chiesi al mio amico se ne voleva. 
«Dai qua!». 
Afferrò la bottiglia con il palmo e ingurgitò tutto fino all’ultima goccia. 
Quel che accadde dopo fu storico e inevitabile. Testa di Gomito iniziò ad emettere strani grugniti e rutti; girava su se stesso come una trottola sbilenca; di tanto in tanto accennava dei disgustosi conati di vomito. 
«Stai bene?» chiesi preoccupato. 
«Benissimo Robin». E cadde al suolo come un sacco. 
Gli sfilai la cartella e lo accovacciai sul muretto della scuola, dove, gli occhi socchiusi e ombrosi, cominciò ad urlare articolatissime bestemmie. Provai a fermarlo, tappandogli la bocca con la mano, ma accennò un altro conato e la ritrassi all’istante. Quella manovra aveva attirato l’attenzione di tutti i presenti, e soprattutto dei rappresentanti d’istituto, che (maledetti loro!) non tardarono ad avvertire i docenti. 
Venne il prof. di matematica. Era un omone alto, canuto, dall’aspetto stranamente giovanile. Le braccia gonfie facevano intuire l’immane forza dell’uomo. Si dimostrò subito comprensivo. 
«Come va, ragazzo» disse il prof., dolcemente. 
«CAZZO PROF., UNA BOMBA ATOMICA, UN COLLASSO, SONO IN UNA BOTTE DI FERRO.» 
«Ci sei caduto nella botte, ragazzo» rispose il prof.. 
Intervenni. 
«Ha mangiato qualcosa che gli ha fatto male» dissi. «Dev’essere stata la maionese, forse era guasta». 
«Capisco» rispose il prof., «anche tu hai mangiato lo stesso panino?» 
Abbassai vergognoso lo sguardo. 
«Sì». 
Il prof. afferrò di peso Testa di Gomito e se lo caricò sulle spalle, sicché prese la strada dell’ospedale, che era poco più su, dopo una ripida salita. Mentre lo trasportava (apparentemente senza fatica), io continuavo con la storia della maionese, ma lui scuoteva solo il capo come un sordo. 
Arrivammo così all’imbocco dell’ospedale. Il prof. fece un cenno con la mano ad un’ambulanza di passaggio. Gli addetti scesero lesti dalla vettura, montarono una barella e la posero dinanzi a noi. Il prof. abbassò la schiena e lanciò Testa di Gomito sul lettino. Ma qualcosa andò per il verso sbagliato, perché il mio amico – che poteva anche essere morto, tanto dormiva profondamente – fece una capriola su se stesso e cadde sbattendo il naso sull’asfalto duro e bollente. Svegliatosi di soprassalto, un fiume di sangue torbido dal naso, iniziò a bestemmiare e piangere. Gli addetti gli misero una flebo, lo caricarono sulla vettura e si diressero a sirene spiegate verso il pronto soccorso. Io e il prof. li seguimmo a piedi. 
Mi sedetti nella sala d’aspetto, che era pulita ed illuminata bene. Stavo quasi per prendere sonno, quando sentii una mano sulla fronte. Era il medico. 
«Hey ragazzo, vuoi anche tu una flebo?» 
«No, grazie» risposi, «sono a stomaco vuoto». 
Mentre ero impegnato in tali discorsi, entrò un’altra barella. E indovinate chi c’era sopra? 
«Hey Robin» urlò Il Riccio. Aveva metà testa fasciata con le bende. Sul viso, alcune chiazze di sangue raggrumato. 
«Amico, ma che fine avevi fatto?» 
Non ebbi risposta, perché gli infermieri lo inabissarono in uno stanzino azzurro, chiudendosi la porta alle spalle. Il medico mi spiegò che Il Riccio aveva battuto la testa su di un palo ed era svenuto. Alcuni bambini dell’asilo, durante l’ora della ricreazione, l’avevano trovato a ridosso di una siepe piena di spine, sicché erano corsi ad avvertire le rispettive maestre. 
«Sicuro che avete solo bevuto?» chiese il medico. 
«Sì». 
«E cosa? Plutonio?» 
«Whiskey da 6.000 Lire». 
«Mmmh, capisco... be’, siete davvero scarsi» disse il dottore, e sparì nei budelli interminabili del pronto soccorso. 





domenica 17 febbraio 2013

Dal Lemonissimo alla galera.

  Il Vichingo non è sempre stato così, grosso e violento. Anche lui conobbe gli agi dell’infanzia; anche lui fu un bambino come tutti gli altri, indifeso e docile. Quand’era piccolo veniva al bar e si sedeva sullo sgabello, dove rimaneva ore a guardare i cartoni animati e la gente che giocava a briscola. Tutti gli volevano bene; era un anche un bel ragazzino, dicono. 
Le cose iniziarono a cambiare quando il Vichingo, un giorno, aprì il frigo dei gelati e tirò fuori per la prima volta un Lemonissimo. Quindi aprì l’avvenente involucro giallo e ingurgitò il gelato in un solo boccone. Poi buttò di nuovo le mani nel frigo, prese un altro Lemonissimo e ingurgitò anche quello. Finì che ne divorò una dozzina in pochi minuti. Nel bar gli avventori giudicarono quel comportamento del tutto normale. Dopotutto, era pur sempre un bambino, ed ai bambini piacciono i gelati. 
Purtroppo, nei tempi successivi, il Vichingo venne preso da una specie di malattia che lo costringeva a divorare dai venti ai quaranta Lemonissimo al giorno. Una roba impressionante, mai vista. Quando il titolare del bar, Victor, apriva la serranda all’alba, ebbene, il Vichingo era già lì, pronto a dare inizio all’assurdo rito zuccheroso. Victor fu costretto a raddoppiare le chiamate al fornitore dei gelati. Il Vichingo arrivava a spendere anche quarantamila lire al giorno pur di satollarsi con il freddo manicaretto. Tutti, nel bar, s’aspettavano che il giovane, prima o dopo, stramazzasse al suolo inerme. 
Ma non andò così, anzi: i Lemonissimo ebbero un effetto stranissimo sul giovane, che prese a crescere incredibilmente di un palmo al giorno. Le braccia si gonfiarono come due canotti. Le gambe, prima esili e sinuose, divennero in poco tempo due colonne di cemento armato, dritte e forzute. La voce s’incupì e s’alzò di volume. Le sue grida improvvise provocarono un paio di infarti tra gli anziani giocatori di carte. Il corpo si coprì di una pelliccia fitta fitta di peli carnosi, dello stesso colore della birra. L’ampio petto divenne inespugnabile e villoso. 
Insomma, la faccenda era questa: più Lemonissimo ingurgitava, più diventava grosso e minaccioso, e ben presto diventò minaccioso anche negli atteggiamenti. 
«Dammi il mio Lemonissimo, idiota,» urlava rivolgendosi a Victor. «O vuoi che ti infili quella testa di cazzo nel frigo?» 
Victor, tutto pauroso, eseguiva gli ordini con zelo. 
Nel bar non lo riconoscevano più. Il bambino grazioso, a cui tutti volevano bene, appariva adesso irrimediabilmente perduto. Unico nodo con il passato, la passione incontrollabile per il Lemonissimo. Gli avventori del locale cominciarono presto a temerlo, giacché il Vichingo, una leccata dopo l’altra, diventava sempre più violento e, per via dell’ormai incredibile massa muscolare, sempre più pericoloso. Come si capisce, dal Lemonissimo alla galera il passo fu breve, e forse inevitabile. 
Il tutto avvenne una sera calda e apparentemente noiosa. Il Vichingo giocava a scopa con la Faina, suo vecchio e fedele amico. A terra, una piccola montagna composta in parte di involucri di Lemonissimo, in parte di pacchetti di sigarette vuoti. 
La Faina fece scopa e gli animi presero subito fuoco. 
«Non è scopa,» disse il Vichingo. 
«Sì che è scopa,» rispose la Faina, «quattro e tre fa sette.» 
«No.» 
«No, cosa?» 
«Quattro e tre fanno undici,» disse il Vichingo convinto. «Se hai l’undici metti scopa, altrimenti hai perso e ti tocca pagare tutti i Lemonissimo di oggi. Fanno centomila.» 
«Non c’è l’ho l’undici,» ribattè la Faina. «Ma non ti pago un cazzo lo stesso.» 
Il Vichingo lo guardò in cagnesco. I suoi occhi sembravano capaci di far tremare i muri. Poi s’alzò dal tavolo e raggiunse il bancone, dove disse a Victor che i numerosi gelati sarebbero stati pagati comunque a breve. Quindi chiese un passaggio a casa ad un altro tizio. Dopo una decina di minuti fece la sua apparizione nel bar. Scartò un Lemonissimo, lo infilò intero intero in bocca e si diresse dritto verso la Faina, che, ignaro del pericolo, guardava una trasmissione sportiva controllando la schedina. Quando gli fu alle spalle, estrasse una frusta dalla giacca e prese a colpirlo sulla schiena. Era un frusta medievale, fatta con un nervo di qualche animale e con delle palline di ferro sulla punta. Una roba da film. La Faina cercò di scappare, ma si fermò abbracciato al VideoPoker nell’angolo lontano del locale. Il Vichingo lo frustava con una cattiveria disumana deturpandogli la schiena. Gli schiocchi delle frustate erano terribili, sembravano tanti colpi di pistola. 
Tutti guardavano la scena increduli. Un qualcosa di quasi sacro stava avvenendo; un’eco biblica si sparse per il locale. Il Vichingo era il centurione, la Faina Gesù Cristo e il VideoPoker la croce. Andarono avanti così per un po’, finché Victor fu costretto a chiamare le forze dell’ordine. Ci vollero sei agenti per immobilizzare l’improvvisato centurione. Alla fine lo caricarono sulla volante e lo scortarono fino al carcere più vicino, dove tutt’ora risiede. 
Al giorno d’oggi, nei tempi in cui scrivo, la Faina sempre si reca in carcere per trovare il suo voluminoso amico. Nelle mani, un cartone stracolmo di Lemonissimo. 







lunedì 28 gennaio 2013

Due tizi che bevono piscio a due passi dal mare.

  Una volta arrivati Peppe s’infilò una camicia bianca di raso, con degli incomprensibili riflessi viola e delle tigri in altorilievo sulla schiena. Gli chiesi se ne avesse una per me. Lui aprì il portabagagli, estrasse un cartone e me lo buttò in mano. Dentro, piegate, c’erano una dozzina di camicie. 
  «Scegli pure,» mi disse con tono amichevole. 
  Le camicie erano tutte inguardabili. Un pessimo stock. Va beh... sia come sia non dissi nulla e scelsi la meno peggio, verde-lime, con i colletti lunghi fino al capezzolo. Sulla schiena c’era il disegno di due tizi che fornicavano. 
  «Ottima scelta,» disse Peppe. «Quella è una delle mie preferite.» 
  «Quale scelta,» dissi io. E proseguimmo verso il ristorante. 
  Prendemmo un tavolo e ci sedemmo. Un cameriere scrisse l’ordinazione su un foglio e sparì nella cucina. Quando tornò aveva in mano gli antipasti e una brocca carica di vino. Riempimmo i boccali. Bevemmo per un po’. Il vino sapeva di urina. Due tizi con due strane camicie che bevono piscio a due passi dal mare. 
  Durante gli antipasti Peppe ingurgitò un certo numero di bicchieri. Gli occhi diventarono subito lucidi e alzava di continuo il tono della voce. Adesso diceva anche cose strane. 
  «Ora mi ridai la camicia.» 
  Sulle prime risi. Giocavo al suo gioco, dopotutto. E allora ordinai dell’altro vino e dell’altro pesce. Brindammo di nuovo. Il vento ci accarezzava con il suono cupo delle onde. Poi Peppe riattaccò: 
  «Non scherzo, Robin, togliti quella camicia e ridammela.» 
  «Rimarrei nudo,» replicai. 
  «Non posso aspettare molto.» 
  «Non aspetterai molto.» 
  Il cameriere fumava poggiato ad una colonna. Al tavolo d’angolo, due pescatori giocavano chiassosamente al gioco della morra. Avevano le mani nere e i calzoni legati con le funi delle barche. Sulla spalla di quello più alto era tatuata un’ancora blu. Peppe urlò qualcosa; il tizio con l’ancora ci raggiunse subito. 
  «A chi hai detto coglione,» disse poggiando i polpastrelli sulla tovaglia. 
  Non racconto il battibecco che seguì: è difficile e forse inutile. Quel che feci fu di trascinare Peppe all’interno del locale, dov’era meglio illuminato, e lontano da quel tizio. Al bancone ordinammo qualcosa di fresco. Peppe tornò alla carica con la storia della camicia, ma stavolta finì subito, perché anche il pescatore adesso reclamava qualcosa. Lo vidi che gesticolava al di là della vetrina. Sembrava un fantasma dietro quel vetro opaco; e pareva capace di cadere ad ogni secondo. Nel palmo aveva il coltello ricurvo per sgusciare i frutti di mare. 
  «Vieni fuori!» urlò il pescatore agitando la lama. «Adesso ti taglio quella camicia di merda.» 
  Aveva le pupille come il fondo di certi mari – torbido e cattivo. L’altro pescatore (quello senza l’ancora) si avvicinava anche lui. Sembrava tutto molto pericoloso. 
  Peppe mise la mano dentro l’ascella e fece alcune scoregge agitando il braccio su e giù. Che roba stronza, pensai. Ma funzionò: i due pescatori, forse intimoriti, andarono a piazzarsi qualche metro indietro, sotto la luce gialla di un lampione. Il coltello per i molluschi sparì in una tasca e ripresero a giocare alla morra. Io e Peppe finimmo i drink. 
  Com’era prevedibile, una volta risolta la faccenda con i pescatori, Peppe tornò ad occuparsi di un’altra faccenda. 
  «Tira via la camicia, adesso,» disse. 
  «Non puoi chiedermi questo.» 
  Comprai un paio di fiaschi e andammo verso il mare, sulla spiaggia fresca. Bevemmo il primo fiasco. Peppe continuava a chiedermi la camicia, ma io avevo troppo freddo e facevo finta di non ascoltarlo. Accesi una sigaretta. Il sole mandava dal mare una luce gialla e viva. Peppe prese un fiasco e lo lanciò nell’acqua. Le onde schiumose lo inghiottirono con un tonfo sordo. Poi, senza guardarmi, disse: 
  «Passami il fiasco pieno.» 
  «L’hai appena lanciato.» 
  «Davvero?» 
  «Guarda.» 
  Gli diedi il fiasco e lui lo capovolse sulla sabbia. Era vuoto, senza dubbio. Peppe aveva affondato l’ultima roba da bere. Quindi infilò due dita nella sabbia e pescò le chiavi dell’auto. C’imbarcammo nell’angusto veicolo e partimmo senza dire grosse cose.

domenica 20 gennaio 2013

Poeta maledetto.

  Ma come si può pensare di cambiare le cose così facilmente, bisogna essere pazzi. Il rischio è enorme. Come quella domenica, quando la titolare del bar, Elena, incurante di alcune radicate tradizioni, si mise in testa di “alzare il tono del locale”, organizzando un reading di poesie proprio durante l’ora delle partite di calcio, senza considerare che da anni, io e gli altri, schedina alla mano, ingurgitiamo galloni di GinPiscio trastullandoci con l’insipido campionato – e così facevano i nostri padri, i nonni, i trisavoli e così via. 
Quella domenica mancavano pochi minuti al fischio d’inizio. L’atmosfera era festosa e (per via delle ingenti somme che elargiamo alle agenzie di scommesse) anche un po’ tesa. Elena fece la sua apparizione nel bar accompagnata da uno strano tizio con l’ampia barba rettangolare e una pila di scartoffie sottobraccio. Quello posizionò un leggio nell’angolo lontano e aprì dei fogli dattiloscritti inarcando il monociglio. Non ci piacque da subito: aveva un fare spocchioso e saccente e l’espressione ebete. Ci sorrise mostrando dei disgustosi denti ingialliti, in tono con l’orribile camicia di velluto. Nessuno si sentì di ricambiare il saluto. 
Elena posizionò degli sgabelli a semicerchio, edificando così un piccolo anfiteatro. Quindi vennero delle altre persone. Ognuno di quelli (Dio, perdonali!) ordinò un tè e prese posto. Guardammo la scena con sconforto, ma anche con indifferenza, poiché il tizio della TV aveva annunciato l’inizio delle partite. Fu una questione di priorità. 
SuperTramp prese il telecomando e alzò il volume. Allora iniziarono le incomprensioni. Elena disse: 
«Devi togliere l’audio. Ora leggiamo delle poesie.» 
Strabuzzammo gli occhi. Ci fu un silenzio pesante. Il poeta, che adesso era in posa petto-in-fuori, ci parve ancora più odioso. I fans sorseggiavano il tè dalla tazza che fumava. 
Lo Hobbit s’accarezzò i capelli imbalsamati di gelatina e, con un certo astio, disse: 
«Elena, ascolta, oggi è domenica.» 
«Non cambia nulla che giorno è, ho deciso che oggi leggiamo le poesie e non deve volare una mosca. Basta con questa storia delle partite. Bisogna alzare il tono del locale.» 
«Elena, ti prego, cerca di capire,» ribatté Lo Hobbit, «ho giocato un collasso di soldi sullo zero a zero secco della Fiorentina. Insomma, proprio si deve? Proprio oggi?» 
«Anche la tua giocata non cambia nulla. Dovete abituarvi: cambierò l’intera situazione. Ormai è deciso!» 
Lo Hobbit non replicò e tornò a sedersi sullo sgabello. SuperTramp pigiò il tasto MUTE. Il poeta inopportuno diede un colpo di tosse, di quelli che sanciscono l’inizio di un qualcosa di importante e invitano al silenzio. L’atmosfera era irreale: da una parte un manipolo di tizi che beveva litri di GinPiscio e guardava una televisione muta; dall’altra, dei coglioni che bevevano tè con l’aria dotta, di superiorità, mentre il loro pupillo s’accingeva a recitare i primi versi. 
Il poeta, tronfio, attaccò con le sue amenità: «Il giglio splendeva sulla montagna, bagnato dal sole pavido di...» ma non finì il verso che la Fiorentina prese gol. Il resto è storia. 
Lo Hobbit tirò fuori un urlo disumano, che risuonò nel bar come una fucilata; poi prese la schedina e iniziò a divorarla come un ossesso. Un vento ingiurioso, composto in parte di bestemmie, in parte di gorgoglii incomprensibili, gli usciva dalla bocca rimbombando per tutto il paese. Sembrava lo stessero scannando. Rotolava a terra come un cilindro e si dava i cazzotti in faccia da solo. 
«Fai silenzio!» ordinò Elena. Ma quello continuava a rotolarsi e nessuno di noi ebbe il coraggio di richiamarlo. La smorfia di disappunto del poeta fece eco a quella dei fans. Una tazza di tè cadde a terra spargendo l’inutile liquido sul pavimento. Uno dei fans, più voluminoso e robusto degli altri, lo invitò ad uscire fuori. Lo Hobbit sputò dei coriandoli bianchi dai denti e raggiunse l’uscio senza replicare. Lo vedemmo sparire dietro un dosso mentre si rotolava giù per una discesa, credo che piangesse anche. 
Il poeta chiese ad Elena se fosse il caso di ricominciare la lettura. 
«Fai pure», disse quella. «Non accadrà più.» 
Il poeta prese fiato e cominciò di nuovo: «Il giglio splendeva sulla montagna, bagnato dal...» ma non ebbe modo di finire neanche stavolta: il gol dell’Udinese vanificò anche la schedina del Vichingo, che iniziò col prendere a testate il VideoPoker, compilando una sinistra (e a noi del bar molto gradita) antologia di volgarità. 
«Così non si può lavorare,» disse il poeta con disappunto. «Non si ha rispetto per l’arte». A quelle parole, inevitabilmente, in maniera del tutto naturale, si scatenò la rabbia degli avventori assidui. 
Fast’and’Furious salì in cattedra. «Ma di che cazzo di lavoro parli,» disse. «Rompi solo le palle, coglione». Quelle parole mi fecero godere. 
«Io sono un Poeta,» disse il poeta. «E voi non sapete neanche cos’è una poesia, brutti cafoni.» 
«E nemmeno ce ne frega un cazzo, coglione,» ribatté lesto Fast’and’Furious. 
Un applauso si levò spontaneo. Elena, rossa dalla vergogna, vedeva avvicinarsi a grandi passi il fallimento della sua manovra. Il “tono del bar” scendeva evidentemente a picco. 
«Smettetela! Basta! Vi prego, basta!» gridava disperatamente la titolare. Ma Fast’and’Furious ormai era partito, e nulla poteva più fermarlo (e noi non ci pensavamo neanche). 
«Perché non alzi i tacchi e vai a fare in culo, idiota,» disse. «E portati appresso anche quei maledetti bevitori d’acqua calda.» 
«Cazzo, sì,» disse il Vichingo. «Giustissimo. Andate a fare queste cagate da un’altra parte.» 
Elena, che quasi sveniva, accennò un singhiozzo. 
«Siete dei cafoni,» disse il poeta, e quella fu la frase che lo condannò. Il Vichingo, con uno strano slancio, lo raggiunse in un baleno, alzò il braccio e gli mollò uno schiaffo con tutta la forza che aveva in corpo. Il divertimento era alle stelle. Il poeta fece un giro su se stesso e urtò il leggio. Un numero incalcolabile di fogli si sparpagliò a mezz’aria. Lo Hobbit e tutti noi eravamo stati vendicati. Complimenti vivissimi al Vichingo! 
Il poeta, com’era prevedibile, dinanzi la forza bruta ammutolì. Abbassò lo sguardo. A terra, un vento invisibile animava i fogli in una danza quasi macabra. Elena aveva la faccia giallo-urina: il fallimento era ormai certo. I fans (anche quello più forzuto) rimasero immobili sugli sgabelli senza aprire bocca. Avevano paura adesso, i colti dei miei stivali. 
Il poeta si chinò per raccogliere i fogli, ma Fast’and’Furious gli bloccò il polso in una morsa e lo scaraventò contro il muro. 
«Quella porcheria rimane qui,» disse. 
«No, le mie opere no, ridatemele.» 
«Rimangono qui, ho detto. Le useremo come carta da culo.» 
L’ilarità s’impennò vertiginosamente. Noi del bar ridevamo e ci sentivamo più uniti del solito. Il poeta capì che non c’era molto da fare: afferrò il leggio, se lo mise sotto un’ascella e raggiunse l’uscita. Lo vedevamo allontanarsi a capo chino, tutto vergognoso. Provai anche un po’ di pena per lui. I fans lo seguirono a ruota senza batter ciglio. Elena – per discolparsi, suppongo – disse che i tè erano gratis. 















































domenica 9 dicembre 2012

L’idraulico senza laurea.

  Quando mi chinai vidi che la ruggine s’era lavorata per bene il tubo di scarico del cesso. Nell’acciaio s’apriva una falla grande come l’oliva del Martini. Un’acqua nera e torbida aveva inondato per intero il pavimento del bagno e gran parte del salotto. Senza esitazione, sfogliai le pagine gialle in cerca di un idraulico. Sapevo che tale manovra avrebbe prosciugato impietosamente le mie tasche, ma non volevo affogare in un mare di merda a vent’anni. Sicché alzai la cornetta e composi il numero del pronto intervento. Una voce vetrosa, senza emozione, mi assicurò l’arrivo dell’addetto entro un’ora. Io tornai in bagno e infilai il pollice nella falla dello scarico, impedendo così la fuoriuscita copiosa dell’orribile fiumiciattolo nero. Mi sedetti sul bidet e aspettai. 
  Il tizio arrivò con un paio d’ore di ritardo. Era vestito di un bell’abito scuro, in giacca e cravatta, con le scarpe in pelle d’istrice. La sciarpa che gli cingeva il collo era un furetto sotto morfina. Nelle mani, un’elegante cassetta degli attrezzi tutta laccata d’oro, con delle iniziali diamantate in altorilievo. «Mi mostri la perdita», disse con fare frettoloso. Lo condussi in bagno e gli indicai il cesso con un gesto della mano. Lui si tolse il cappotto in pelle di elefantino, estrasse tenaglie e cacciaviti (anch’essi laccati d’oro) dalla cassetta e iniziò a manovrare frenetico il tubo di scarico. Mentre svitava o sostituiva questo con quello, io lo guardavo con inquietudine, e anche con spavento, poiché pensavo all’onerosa parcella che, di lì a poco, inevitabilmente, quel signore col vestito da sera mi avrebbe mostrato. 
  Dopo un primo momento senza parole, l’intimità del bagno ci portò alla conversazione. «Lei deve essere un universitario», mi disse. «Ha la tavoletta del cesso alzata e il sapone liquido di sottomarca». Io annuii, quasi vergognoso, con un cenno del capo. L’idraulico, ch’era evidentemente privo di tatto, continuò: «Scommetto che anche il frigo è vuoto, e che se aprissi la dispensa troverei solo scatolette», «È così», risposi triste, «ma è per questo che studio. Con la laurea sarà tutto diverso», «Se lo dice lei, sarà così, mi offra qualcosa da bere». 
  Andai in cucina per accontentarlo, ma l’unico liquido che trovai fu quello che vegetava in una polverosa bottiglia senza etichetta, da chissà quanto tempo. E allora dissi all’idraulico che non avevo nulla per placare la sua sete, senza il rischio evidente di un’intossicazione acuta. 
  Lui mi guardò compassionevolmente, con gli occhi del papà. Ficcò la mano in tasca e tirò fuori una monumentale pila di contanti. Quindi mi allungò una banconota di grosso taglio e disse: «Vai da Harry’s e compra un fiasco di champagne». Io appallottolai il potente foglio filigranato nel palmo; poi dissi: «Non so se potrò mai restituirle questo danaro», «Oh, non deve preoccuparsi», mi rispose l’idraulico mentre s’infilava un guanto di cachemire da lavoro, «me li restituirà dopo essersi laureato, quando sarà ricco e berrà lo champagne tutti i giorni». Non so perché, ma da quel momento un sorriso sinistro apparve sul viso di quello, e non andò più via. 








domenica 2 dicembre 2012

Il FacSimile.

  Anch’io andai al concerto di Capa’e’minchia. Anch’io, con in mano il potente biglietto prepagato, presi posto nella scoraggiante fila all’entrata. Un enorme serpente di persone partiva dai miei piedi per poi sparire, ininterrotto, dietro un pilone dello stadio. Un vero esodo. Proseguivo con la velocità del morto; quando raggiunsi le transenne era già buio. 
  Avanti a me, ad un paio di metri, scorsi un tizio che era uguale a Capa’e’minchia. Aveva gli stessi capelli, erti e gonfi sino allo spasimo. Gli chiesi se lui e il famoso cantante fossero, come mi pareva, la stessa persona. «No», rispose quello, «ma anch’io canto in una band, e suono benissimo la chitarra», «Impressionante», risposi con tono spento. 
  Il concerto ebbe inizio. I musicisti fecero la loro apparizione sul palco, sommersi da imponenti luci di circostanza. Il FacSimile estrasse l’IPhone dalla giacca e pigiò con il polpastrello dell’indice un quadratino luminoso. L’inconcepibile apparecchio emise un bip discreto, quasi intimo. Poi quello alzò le braccia verso il cielo, disegnando un ampio e immobile cerchio muscoloso. In alto, i palmi stringevano l’IPhone come in una morsa. Rimase non so per quanto tempo in quella posizione. Uno sforzo sovrumano, intollerabile anche solo alla vista. Di tanto in tanto si voltava verso di me, con un certo sorriso smargiasso, e diceva: «Guarda come registra bene». 
  Lo show si protraeva blandamente. Capa’e’minchia (quello vero, suppongo) si esibì in numerosi cambi d’abito, credo con l’intenzione di distrarre i fan dall’insipida voce. Si travestì da califfo, da papa, da re. Indossò la divisa dei poliziotti e quella del Ku klux klan. Correva su e giù per il palco come un demonio, incastonato in una coreografia oscena di negri snodabili e forzuti. Il FacSimile registrava, come imbalsamato, ogni secondo. «Dovresti seguirlo mentre corre, così rischi di perderlo», gli dissi. Lui, quasi con affetto, dichiarò l’infondatezza delle mie preoccupazioni. «Sono in modalità grandangolo», rispose fiero. 
  Il concerto si chiuse con Capa’e’minchia che imitava un certo santo, di cui non seppi mai il nome. Le luci s’abbassarono d’intensità. Qualcuno mise un vecchio disco, anch’esso di circostanza. Il monumentale evento era quindi finito, e già sapeva di anacronismo triste. Il FacSimile spense l’IPhone, lo nascose in una tasca e sparì nella folla.