lunedì 28 gennaio 2013

Due tizi che bevono piscio a due passi dal mare.

  Una volta arrivati Peppe s’infilò una camicia bianca di raso, con degli incomprensibili riflessi viola e delle tigri in altorilievo sulla schiena. Gli chiesi se ne avesse una per me. Lui aprì il portabagagli, estrasse un cartone e me lo buttò in mano. Dentro, piegate, c’erano una dozzina di camicie. 
  «Scegli pure,» mi disse con tono amichevole. 
  Le camicie erano tutte inguardabili. Un pessimo stock. Va beh... sia come sia non dissi nulla e scelsi la meno peggio, verde-lime, con i colletti lunghi fino al capezzolo. Sulla schiena c’era il disegno di due tizi che fornicavano. 
  «Ottima scelta,» disse Peppe. «Quella è una delle mie preferite.» 
  «Quale scelta,» dissi io. E proseguimmo verso il ristorante. 
  Prendemmo un tavolo e ci sedemmo. Un cameriere scrisse l’ordinazione su un foglio e sparì nella cucina. Quando tornò aveva in mano gli antipasti e una brocca carica di vino. Riempimmo i boccali. Bevemmo per un po’. Il vino sapeva di urina. Due tizi con due strane camicie che bevono piscio a due passi dal mare. 
  Durante gli antipasti Peppe ingurgitò un certo numero di bicchieri. Gli occhi diventarono subito lucidi e alzava di continuo il tono della voce. Adesso diceva anche cose strane. 
  «Ora mi ridai la camicia.» 
  Sulle prime risi. Giocavo al suo gioco, dopotutto. E allora ordinai dell’altro vino e dell’altro pesce. Brindammo di nuovo. Il vento ci accarezzava con il suono cupo delle onde. Poi Peppe riattaccò: 
  «Non scherzo, Robin, togliti quella camicia e ridammela.» 
  «Rimarrei nudo,» replicai. 
  «Non posso aspettare molto.» 
  «Non aspetterai molto.» 
  Il cameriere fumava poggiato ad una colonna. Al tavolo d’angolo, due pescatori giocavano chiassosamente al gioco della morra. Avevano le mani nere e i calzoni legati con le funi delle barche. Sulla spalla di quello più alto era tatuata un’ancora blu. Peppe urlò qualcosa; il tizio con l’ancora ci raggiunse subito. 
  «A chi hai detto coglione,» disse poggiando i polpastrelli sulla tovaglia. 
  Non racconto il battibecco che seguì: è difficile e forse inutile. Quel che feci fu di trascinare Peppe all’interno del locale, dov’era meglio illuminato, e lontano da quel tizio. Al bancone ordinammo qualcosa di fresco. Peppe tornò alla carica con la storia della camicia, ma stavolta finì subito, perché anche il pescatore adesso reclamava qualcosa. Lo vidi che gesticolava al di là della vetrina. Sembrava un fantasma dietro quel vetro opaco; e pareva capace di cadere ad ogni secondo. Nel palmo aveva il coltello ricurvo per sgusciare i frutti di mare. 
  «Vieni fuori!» urlò il pescatore agitando la lama. «Adesso ti taglio quella camicia di merda.» 
  Aveva le pupille come il fondo di certi mari – torbido e cattivo. L’altro pescatore (quello senza l’ancora) si avvicinava anche lui. Sembrava tutto molto pericoloso. 
  Peppe mise la mano dentro l’ascella e fece alcune scoregge agitando il braccio su e giù. Che roba stronza, pensai. Ma funzionò: i due pescatori, forse intimoriti, andarono a piazzarsi qualche metro indietro, sotto la luce gialla di un lampione. Il coltello per i molluschi sparì in una tasca e ripresero a giocare alla morra. Io e Peppe finimmo i drink. 
  Com’era prevedibile, una volta risolta la faccenda con i pescatori, Peppe tornò ad occuparsi di un’altra faccenda. 
  «Tira via la camicia, adesso,» disse. 
  «Non puoi chiedermi questo.» 
  Comprai un paio di fiaschi e andammo verso il mare, sulla spiaggia fresca. Bevemmo il primo fiasco. Peppe continuava a chiedermi la camicia, ma io avevo troppo freddo e facevo finta di non ascoltarlo. Accesi una sigaretta. Il sole mandava dal mare una luce gialla e viva. Peppe prese un fiasco e lo lanciò nell’acqua. Le onde schiumose lo inghiottirono con un tonfo sordo. Poi, senza guardarmi, disse: 
  «Passami il fiasco pieno.» 
  «L’hai appena lanciato.» 
  «Davvero?» 
  «Guarda.» 
  Gli diedi il fiasco e lui lo capovolse sulla sabbia. Era vuoto, senza dubbio. Peppe aveva affondato l’ultima roba da bere. Quindi infilò due dita nella sabbia e pescò le chiavi dell’auto. C’imbarcammo nell’angusto veicolo e partimmo senza dire grosse cose.

domenica 20 gennaio 2013

Poeta maledetto.

  Ma come si può pensare di cambiare le cose così facilmente, bisogna essere pazzi. Il rischio è enorme. Come quella domenica, quando la titolare del bar, Elena, incurante di alcune radicate tradizioni, si mise in testa di “alzare il tono del locale”, organizzando un reading di poesie proprio durante l’ora delle partite di calcio, senza considerare che da anni, io e gli altri, schedina alla mano, ingurgitiamo galloni di GinPiscio trastullandoci con l’insipido campionato – e così facevano i nostri padri, i nonni, i trisavoli e così via. 
Quella domenica mancavano pochi minuti al fischio d’inizio. L’atmosfera era festosa e (per via delle ingenti somme che elargiamo alle agenzie di scommesse) anche un po’ tesa. Elena fece la sua apparizione nel bar accompagnata da uno strano tizio con l’ampia barba rettangolare e una pila di scartoffie sottobraccio. Quello posizionò un leggio nell’angolo lontano e aprì dei fogli dattiloscritti inarcando il monociglio. Non ci piacque da subito: aveva un fare spocchioso e saccente e l’espressione ebete. Ci sorrise mostrando dei disgustosi denti ingialliti, in tono con l’orribile camicia di velluto. Nessuno si sentì di ricambiare il saluto. 
Elena posizionò degli sgabelli a semicerchio, edificando così un piccolo anfiteatro. Quindi vennero delle altre persone. Ognuno di quelli (Dio, perdonali!) ordinò un tè e prese posto. Guardammo la scena con sconforto, ma anche con indifferenza, poiché il tizio della TV aveva annunciato l’inizio delle partite. Fu una questione di priorità. 
SuperTramp prese il telecomando e alzò il volume. Allora iniziarono le incomprensioni. Elena disse: 
«Devi togliere l’audio. Ora leggiamo delle poesie.» 
Strabuzzammo gli occhi. Ci fu un silenzio pesante. Il poeta, che adesso era in posa petto-in-fuori, ci parve ancora più odioso. I fans sorseggiavano il tè dalla tazza che fumava. 
Lo Hobbit s’accarezzò i capelli imbalsamati di gelatina e, con un certo astio, disse: 
«Elena, ascolta, oggi è domenica.» 
«Non cambia nulla che giorno è, ho deciso che oggi leggiamo le poesie e non deve volare una mosca. Basta con questa storia delle partite. Bisogna alzare il tono del locale.» 
«Elena, ti prego, cerca di capire,» ribatté Lo Hobbit, «ho giocato un collasso di soldi sullo zero a zero secco della Fiorentina. Insomma, proprio si deve? Proprio oggi?» 
«Anche la tua giocata non cambia nulla. Dovete abituarvi: cambierò l’intera situazione. Ormai è deciso!» 
Lo Hobbit non replicò e tornò a sedersi sullo sgabello. SuperTramp pigiò il tasto MUTE. Il poeta inopportuno diede un colpo di tosse, di quelli che sanciscono l’inizio di un qualcosa di importante e invitano al silenzio. L’atmosfera era irreale: da una parte un manipolo di tizi che beveva litri di GinPiscio e guardava una televisione muta; dall’altra, dei coglioni che bevevano tè con l’aria dotta, di superiorità, mentre il loro pupillo s’accingeva a recitare i primi versi. 
Il poeta, tronfio, attaccò con le sue amenità: «Il giglio splendeva sulla montagna, bagnato dal sole pavido di...» ma non finì il verso che la Fiorentina prese gol. Il resto è storia. 
Lo Hobbit tirò fuori un urlo disumano, che risuonò nel bar come una fucilata; poi prese la schedina e iniziò a divorarla come un ossesso. Un vento ingiurioso, composto in parte di bestemmie, in parte di gorgoglii incomprensibili, gli usciva dalla bocca rimbombando per tutto il paese. Sembrava lo stessero scannando. Rotolava a terra come un cilindro e si dava i cazzotti in faccia da solo. 
«Fai silenzio!» ordinò Elena. Ma quello continuava a rotolarsi e nessuno di noi ebbe il coraggio di richiamarlo. La smorfia di disappunto del poeta fece eco a quella dei fans. Una tazza di tè cadde a terra spargendo l’inutile liquido sul pavimento. Uno dei fans, più voluminoso e robusto degli altri, lo invitò ad uscire fuori. Lo Hobbit sputò dei coriandoli bianchi dai denti e raggiunse l’uscio senza replicare. Lo vedemmo sparire dietro un dosso mentre si rotolava giù per una discesa, credo che piangesse anche. 
Il poeta chiese ad Elena se fosse il caso di ricominciare la lettura. 
«Fai pure», disse quella. «Non accadrà più.» 
Il poeta prese fiato e cominciò di nuovo: «Il giglio splendeva sulla montagna, bagnato dal...» ma non ebbe modo di finire neanche stavolta: il gol dell’Udinese vanificò anche la schedina del Vichingo, che iniziò col prendere a testate il VideoPoker, compilando una sinistra (e a noi del bar molto gradita) antologia di volgarità. 
«Così non si può lavorare,» disse il poeta con disappunto. «Non si ha rispetto per l’arte». A quelle parole, inevitabilmente, in maniera del tutto naturale, si scatenò la rabbia degli avventori assidui. 
Fast’and’Furious salì in cattedra. «Ma di che cazzo di lavoro parli,» disse. «Rompi solo le palle, coglione». Quelle parole mi fecero godere. 
«Io sono un Poeta,» disse il poeta. «E voi non sapete neanche cos’è una poesia, brutti cafoni.» 
«E nemmeno ce ne frega un cazzo, coglione,» ribatté lesto Fast’and’Furious. 
Un applauso si levò spontaneo. Elena, rossa dalla vergogna, vedeva avvicinarsi a grandi passi il fallimento della sua manovra. Il “tono del bar” scendeva evidentemente a picco. 
«Smettetela! Basta! Vi prego, basta!» gridava disperatamente la titolare. Ma Fast’and’Furious ormai era partito, e nulla poteva più fermarlo (e noi non ci pensavamo neanche). 
«Perché non alzi i tacchi e vai a fare in culo, idiota,» disse. «E portati appresso anche quei maledetti bevitori d’acqua calda.» 
«Cazzo, sì,» disse il Vichingo. «Giustissimo. Andate a fare queste cagate da un’altra parte.» 
Elena, che quasi sveniva, accennò un singhiozzo. 
«Siete dei cafoni,» disse il poeta, e quella fu la frase che lo condannò. Il Vichingo, con uno strano slancio, lo raggiunse in un baleno, alzò il braccio e gli mollò uno schiaffo con tutta la forza che aveva in corpo. Il divertimento era alle stelle. Il poeta fece un giro su se stesso e urtò il leggio. Un numero incalcolabile di fogli si sparpagliò a mezz’aria. Lo Hobbit e tutti noi eravamo stati vendicati. Complimenti vivissimi al Vichingo! 
Il poeta, com’era prevedibile, dinanzi la forza bruta ammutolì. Abbassò lo sguardo. A terra, un vento invisibile animava i fogli in una danza quasi macabra. Elena aveva la faccia giallo-urina: il fallimento era ormai certo. I fans (anche quello più forzuto) rimasero immobili sugli sgabelli senza aprire bocca. Avevano paura adesso, i colti dei miei stivali. 
Il poeta si chinò per raccogliere i fogli, ma Fast’and’Furious gli bloccò il polso in una morsa e lo scaraventò contro il muro. 
«Quella porcheria rimane qui,» disse. 
«No, le mie opere no, ridatemele.» 
«Rimangono qui, ho detto. Le useremo come carta da culo.» 
L’ilarità s’impennò vertiginosamente. Noi del bar ridevamo e ci sentivamo più uniti del solito. Il poeta capì che non c’era molto da fare: afferrò il leggio, se lo mise sotto un’ascella e raggiunse l’uscita. Lo vedevamo allontanarsi a capo chino, tutto vergognoso. Provai anche un po’ di pena per lui. I fans lo seguirono a ruota senza batter ciglio. Elena – per discolparsi, suppongo – disse che i tè erano gratis.