domenica 30 settembre 2012

Animalista, cuore di cane.

  Speculazione che è andata logorandosi nel corso degli anni, quella dell’animalismo. Gli stessi animalisti lo trascurano, forse perché sprovvisti della portentosa – ma inconfessabile – consapevolezza dell’indole demolitrice dell’uomo. Chi, mosso dal bisogno dell’animale, fa scivolare il cibo nelle ciotole, può incappare nell’errore, nella negligenza, nell’orrore dell’egoismo. Tempo fa, spinto anch’io da tale – provocatorio – bisogno, mi rivolsi ad una nota associazione di animalisti. Mi apprestavo al grande passo: il mio primo animale domestico. A questa curiosa variazione dobbiamo numerosi eventi: l’aria spigolosa delle campagne, gli spazi indomabili, la vasta metratura di un casolare, la disoccupazione, la neve farinosa, un vago senso di incompletezza, lo studio dell’improvvisazione Jazz, la solitudine. Telefonai, quindi, a questa associazione chiedendo l’affidamento di un gatto qualsiasi. (La mia ignoranza in merito favorì l’occultamento delle specifiche del felino.) Una voce vetrosa, implacabile, annunciò la castrazione come condizione indispensabile all’affidamento. Sentii il sangue addensarsi nelle vene; l’aria s’appesantì nel piombo dello spavento. Il fatto che degli animalisti – dichiarati, per giunta! – fossero capaci di un orrore simile piegò le mie ginocchia sul marmo varicoso. Quando poggiai la cornetta ebbi un senso di sollievo, e forse d’inquietudine. Quella notte presi una pastiglia di Tavor; crollai sul lettino e dormii profondamente, ma sognai d’essere un eunuco rincorso dai propri testicoli. Il mattino dopo, sollecito, spedii una lettera all’associazione. In allegato, un documento che serbavo per la stesura di un racconto sugli obbrobri dell’esercito tedesco. Tale allegato riportava la traduzione letterale del discorso di Jürgen Stroop, infimo Generale delle SS, al suo diretto superiore nell’attimo che precede la “Notte dei Cristalli”, tristemente nota per l’uso monotono della crudeltà. Ne trascrivo le righe cruciali: «Non credo che lo sterminio immediato sia la soluzione migliore, poiché potremmo adoperare i ratti (Stroop era uomo d’ingegno nell’infamia [N. d. A.]) nelle fabbriche fino allo sfinimento; propongo, quindi, la castrazione come soluzione ottimale all’estinzione della specie». Gli orrori dell’egoismo (cui credo di aver fatto cenno) possono portare anche – e soprattutto – a questo. È vero: molti gatti muoiono sbranati dalla faina famelica. È vero: molti finiscono triturati dai pneumatici impietosi; altri vengono uccisi da gente abietta per un gusto deplorevole; ma nessun danno è peggiore dell’omissione forzata della prole, poiché si nega il diritto all’esistenza delle segrete vite del futuro; un intero genoma sparisce. (Pongo quest’infelice pratica giusto un gradino al di sotto della morte.) Allargando la visuale, trovo doveroso menzionare anche gli animalisti “da strada”; quelli, cioè, che tutti conosciamo. Qui lo scenario è infernale: orde di cani eunuchi costipati in appartamenti fumosi; gatti depressi davanti ai televisori inespressivi; lacci, nodi, lettiere, spazzole per i peli e Dio sa cos’altro. Il tutto gestito da fantomatici animalisti convinti di far il bene della bestia (almeno questo è ciò che riferiscono). Io – come si capisce – dissento. La scarsa fiducia nell’uomo, vettore violento della schiavitù inconsapevole, ma non incolpevole, ne è la motivazione lucida. A mio parere, l’animale è (dovrebbe essere) autonomo, forastico, dedito al pericolo inappellabile della vita, guerriero, senza padroni né inconcepibili cappottini o guinzagli e agile nello scatto. In una parola: romantico. Alcuni “animalisti” adducono alla propria bestia alcune peculiarità dell’uomo, come l’affetto o l’uso della parola. Se ciò fosse vero, cani, gatti, tartarughe, serpenti e criceti rivendicherebbero all’unisono la libertà dall’amore egoista dell’uomo padrone. Il loro grido sarebbe assordante.

domenica 23 settembre 2012

La setta degli invalidi.

  L’orrore metafisico del vuoto è superato da quello più reale e incombente del parcheggio. In una notte da vagabondo, nell’ora che precede l’arrivo del sole, ne constatai l’enorme difficoltà. Vagavo con disordine logico nei labirinti grigi di Alloccopolis. Feci (senza gloria) una dozzina di volte il giro dell’isolato in cerca dello spazio indispensabile. Abbassai lo sguardo e vidi che la lancetta della benzina segnava impietosamente la riserva. Il tempo mi remava contro. Fermai l’automobile; accesi la radio e tirai giù una sorsata di GinPiscio, che rimpolpò le mie speranze. Ero in situazione di stress. Riavviai il motore e feci un altro paio di circumnavigazioni del palazzo. Niente. Decisi di andare oltre, ad est. Trovai un parcheggio per i disabili e vi infilai la macchina. Stremato, abbassai il sedile e presi sonno, ma sognai d’essere l’ultimo arrivato nei cento metri para olimpici. A svegliarmi furono le nocche vetrose di un vigile. Scesi dall’automobile e mi stropicciai gli occhi. «Devo farle la multa», mi disse. «Sono d’accordo.» Compilò il verbale e me lo stese; io, meccanicamente, lo firmai. Dopo un paio di settimane, ero poggiato ad un muro e tiravo boccate da un sigaro alla fragola. Un invalido scese dalla propria vettura lasciando lo sportello aperto. Come dice Monicelli: «Il genio è intuito e velocità di esecuzione». E io fui geniale. Mi catapultai all’interno della vettura; strappai il cartellino per il parcheggio dal vetro anteriore e corsi via disperdendomi nelle vie del quartiere. Una volta a casa, guardavo con emozione il potente foglio plastificato. Da ora, mi dissi, niente più multe e niente più vagabondaggi notturni; troverò parcheggio ovunque. Provavo un senso di potere. Per rendere più verosimile il tutto acquistai da un pensionato in bolletta un paio di stampelle cromate. Furono tempi di maestosa comodità: parcheggiavo in qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualsiasi luogo. Quando scendevo, una cinquantina di metri con le stampelle eliminavano ogni sospetto. Insomma, ero felice. Ma non durò molto. («Stolto è l’uomo che si crede l’unico furbo», disse il filosofo, e io incappai – stoltamente – nell’errore di crederlo.) Una mattina, quando le macchine erano ancora avvolte di brina, mi apprestai ad occupare il solito spazio per i disabili, ma una vettura fu più lesta di me nell’infilarsi. Presi le stampelle e scesi dalla macchina. «Quello è il parcheggio per i disabili», urlai. Quando il tizio fece la sua apparizione vidi che un enorme collare ortopedico gli cingeva il collo come una sciarpa. «E io che sarei?», disse lui. Feci qualche passo in avanti e notai che anche lui aveva il permesso. Teneva nastrato al vetro quel maledetto foglio e quello rifletteva la luce del sole e mi accecava, come uno specchio. La discussione montò in un attimo. «Sono più disabile di te», dissi. «Ah sì? E chi lo dice?», «Non ho l’uso della gamba destra; credi che porti le stampelle per bellezza?», «Io ho ricevuto il colpo di frusta, e la mia gamba è di legno». Si batté il palmo sulla coscia e ne venne fuori un rumore metallico. Non rimaneva molto da fare; lo colpii alla testa con la stampella. Lui rantolò a terra come un cilindro. Gli montai sopra; strappai via quel ridicolo collare e iniziai a strozzarlo. Aveva il viso paonazzo e un moncone di lingua veniva fuori dalle labbra. Poi quello mise la mano nei pantaloni; estrasse una lastra metallica e mi colpì alla tempia. Svenni. Quando mi svegliai ero legato ad una sedia; ai polsi, delle corde spesse che mi laceravano la pelle. Il finto disabile mi tirò una secchiata d’acqua. «Hai finito di rubare parcheggi», mi disse. Tutt’intorno vidi carrozzelle, stampelle, collari, occhiali da cieco e una decina di permessi per il parcheggio. «Anche tu sei un falso», intercalai. «Sì, da anni, credi di poter venire nel mio quartiere e fare come ti pare?», mi ammonì seccamente. Capii di essere nei guai. Di lì a poco arrivò una folla di gente adibita al pestaggio. Entravano con le loro carrozzine e stampelle, e appena la porta veniva chiusa si libravano agilmente sulle proprie gambe. Era una maledetta setta di pseudo invalidi; una volta avevo letto di loro su una rivista metropolitana, ma credevo si trattasse di una leggenda. Non so per quanto tempo rimasi legato. Mi picchiarono per giorni e giorni; per non stancarsi si davano il cambio ogni ora. Quando decisero che era abbastanza mi scaricarono da una macchina in corsa a pochi metri dal pronto soccorso. Ero ridotto male e il corpo mi dava la sgradevole sensazione di essere privo delle ossa; non sentivo più né gambe né braccia. A distanza di qualche anno dall’accaduto, ho davvero bisogno delle stampelle; alla fine, il destino dell’invalido reale mi ha raggiunto. Ciò, tuttavia, non mi dispiace; ora ho il mio permesso per il parcheggio, quello vero, quello che mi spetta di diritto, e la notte ancora posso stare tranquillo quando mi appresto all’inestricabile ricerca dell’agognato spazio. Ancora una volta devo considerarmi felice, e forse quella maledetta setta non era poi così cattiva; forse hanno voluto aiutarmi in qualche modo; forse un giorno avrò modo di ringraziarli. Ad oggi, quando scendo dalla macchina e poggio i palmi sui braccetti delle stampelle, ebbene, mi sento invincibile.

domenica 16 settembre 2012

La truffa.

  Attendevo l’arrivo del treno senza troppi fanatismi. Di tanto in tanto estraevo l’orologio dal taschino; le lancette, impietose, indicavano che la tizia sarebbe arrivata non prima di un’ora. Se qualcosa si muoveva dentro quell’orologio, be’, lo faceva con molta calma. Mi sedetti e il marmo varicoso della panchina prese ad irrigidirmi le cosce. Fu allora che lo vidi. Aveva l’aria distinta del gentleman e l’abito elegante. I capelli erano impomatati a dovere ed emanava un gradevole profumo di tasso. «Buongiorno», mi disse. Notai che il suo accento non tradiva alcun dialetto. «Buongiorno», risposi gentile. Si sedette al mio fianco; lo immaginai come una persona affabile, educata. «Aspetta qualcuno?», «Una ragazza», «Oh, è in anticipo?», «Un’oretta, su per giù», «Anch’io aspetto qualcuno, potremmo aspettare insieme, non trova?», «Sì». Mi disse di essere un importante manager; lavorava per una delle aziende che andavano per la maggiore; io, silenziosamente, lo ascoltavo. «Ho anche una barca», aggiunse. «L’ho acquistata un mese fa», «Complimenti». Raccontò di banche, speculazioni, somme enormi di denaro che migravano segrete da un continente all’altro. Insomma, ostentava – seppur dignitosamente – la sua ricchezza. Poi ebbe inizio quella che solo in un secondo momento capii essere una manovra complessa e premeditata. «Lei è un bravo giovanotto», disse elemosinandomi un buffetto sulla guancia. «Venga, mi accompagni al bar, le offro da bere.» Accettai con entusiasmo. Qualcosa di fresco è quello che ci vuole, pensai, e poi è gratis. Ci avvicinammo al bancone e un barista affabile ci chiese l’ordinazione. Io ordinai un Vodka’Gold’DeLuxe alle ghiande e il tizio fece lo stesso. Sapevo che quella era la bibita più costosa, ma non mi sentii in colpa. Dopotutto, mi dicevo, questo è milionario. Facemmo un rapido brindisi e il riccone scolò la sua bibita in un sorso. Poi disse di dover andare in bagno. Lo vedevo mentre, con fare pigro, si chiudeva la porta alle spalle. Sfogliai la gazzetta un po’ annoiato. Il tizio non faceva ritorno. Guardai l’orologio; era un quarto d’ora che era sparito al cesso. Iniziai a preoccuparmi. Forse si sente male, pensai, forse è svenuto. Passai all’azione. Mi diressi verso il bagno e bussai. Niente. Feci un secondo tentativo. Niente di niente. Chiamai il barista e gli spiegai la faccenda. Quello prese la chiave di riserva e aprì la porta. Il bagno era vuoto; sopra la tazza sventolavano le tendine di una finestra aperta. Sul muro, le impronte laide dei mocassini. La verità si svelò colpendomi come un maglio: il tizio era fuggito e ora toccava a me pagare quei maledetti Vodka’Gold’DeLuxe. Quello del miliardario era solo un camuffamento per scroccare la costosa bibita. Io e il barista tornammo al bancone. Lo guardai e gli dissi: «Doveva pagare lui», «Io non vedo nessuno, amico», «Quel tizio che era con me, il miliardario», «Qui ci sei tu», «Già», «E paghi tu», «Già, ho capito». Misi la mano in tasca; estrassi il portamonete e, anche se controvoglia, pagai la somma vertiginosa. Ero arrabbiato; ero arrabbiato per aver fatto la figura del fesso ed ero arrabbiato per non avere più un soldo in tasca. Tornai ai binari e vidi il treno che attendevo sbuffare all’orizzonte. Dopo pochissimo sentii lo scricchiolio dei freni e la mia amica scese dalla vettura. Gentilmente, mi offrii di portargli le valigie. «Robin, come stai?», mi chiese. «Benissimo», «E il lavoro, come procede?», «Alla grande. Guadagno tantissimo. Ho anche una barca», «Complimenti». Era una bella ragazza, con i capelli spessi e il viso aristocratico. «Sei carina», gli dissi. «Stai proprio bene oggi. Hai sete? Vuoi qualcosa da bere?», «Volentieri», «Bene, seguimi. Il bar è di là». Di nuovo poggiai il gomito sul bancone e misi le valigie a terra. «Cosa bevete?», chiese il barista. «Un Vodka’Gold’DeLuxe alle ghiande per me, grazie.» La mia amica prese un ponce alla banana. Scolai d’un sorso la bevanda e chiesi le chiavi del bagno. Il barista mi guardò supplichevole; lo trafissi con lo sguardo prima che potesse aprir bocca. Chiusi la porta; m’arrampicai sul cesso e uscii anch’io dalla finestrella. Non so per quanto tempo corsi, ma alla fine ero sudato come un obeso ad agosto. Come si capisce, non rividi (né volli rivedere) la mia bella amica: avevo perso una ragazza, è vero, ma quel barista non mi avrebbe mai più visto come un idiota. Fu una questione di dignità.

martedì 11 settembre 2012

Vento di guerra.

  La storia di quell’estate (che qui ricalco) ha la confusione e la crudeltà delle cosmogonie belliche, e molto della loro stupidità: appostamenti in angoli oscuri, sotterfugi, complotti, bande di nemici che scorrazzano ordinati, subdoli inganni, imboscate e così via. Volendo procedere per ordine, debbo l’inizio di tutto all’unione di un uomo e della sua ostinata fobia. Il nome: l’Ipocondriaco. Era di aspetto rovinoso, ma monumentale. Il collo corto e taurino, il petto inespugnabile, le braccia gonfie di muscoli, il naso spigoloso da pugile, le gambe storte come quelle di un cavallerizzo o di un terzino di spinta. Tuttavia, tale granitico aspetto aveva l’unica funzione di celare l’enormità delle sue ossessioni. Viveva con la paurosa e perenne convinzione d’ammalarsi. 
I guai peggiori arrivarono quando fummo costretti a cambiare casa. Come ho detto, era l’inizio di un’estate calda e pigra. Il nuovo domicilio era un piccolo seminterrato, con un lento e pesante ricambio d’aria. Le finestre davano nel cortile interno del palazzo, ad altezza del pavimento. Il primo risveglio fu drammatico. Aprimmo le finestre e, a pochi passi da noi, un centinaio di piccioni roteavano vorticosamente confondendosi l’un l’altro, come un branco di zebre. Sì, un centinaio di piccioni che facevano cose da piccioni, come beccare o – cosa più schifosa ancora – spandere il loro impietoso guano su tutto il pavimento, copiosamente. La merda, una volta seccata, mutava in una polvere sottile che, spintonata dal vento, entrava in casa e quindi nelle nostre narici. 
L’Ipocondriaco chiuse la finestra con uno scatto, corse verso la scrivania e accese il PC. Dopo qualche minuto entrò nella mia stanza con una faccia da funerale e un foglietto fresco di stampa fra le mani. 
«Notizie orribili,» disse. «La merda di quei maledetti topi volanti è portatrice di oltre sessanta malattie.» 
«Davvero?» 
«Sei mortali,» concluse serio. 
Se l’Ipocondriaco voleva spaventarmi, be’, andava alla grande. Controllai il foglio verificandone la veridicità. I nomi di illustri medici a piè di pagina non lasciavano spazio al dubbio: la nostra salute era in pericolo. Decidemmo di reagire. Studiammo per giorni le arti belliche. Alla fine usammo la più monotona delle strategie: togliere i viveri al nemico – alias impedire che le tovaglie dei coinquilini sovrastanti si gonfiassero nei balconi, spargendo le loro briciole. Sicché l’Ipocondriaco puntellò in portineria un bigliettino che pregava i “gentili condomini” di evitare tali nefaste manovre del dopopranzo. Purtroppo, maleducazione e menefreghismo fecero cadere le nostre preghiere nell’abisso dell’indifferenza. Le tovaglie continuavano a sventolare come bandiere; i piccioni banchettavano felici; il vento di merda – aiutato dalla calura – acquistava quindi densità e corpo. 
Il secondo tentativo fu ancora più fallimentare. Impregnammo di veleno un tozzo di pane e lo tirammo nella folla di piccioni. Venimmo umiliati. I piccioni mandarono avanti il più malconcio di loro – un piumaggio misero, una sola zampa, un occhio cavo. Quello diede un paio di beccate e cadde esangue. Gli altri nemmeno si avvicinarono al tozzo avvelenato. Dopo un paio di giorni presi un sacco, tolsi la carcassa e la gettai nell’immondizia. Una roba vomitevole. 
Com’era prevedibile, l’Ipocondriaco uscì di senno. Roso dalle sue fobie, comprò un fucile ad aria compressa, intarsiò un buco nel vetro, tirò fuori la canna, aspettò il momento giusto e sparò all’impazzata sul gregge di piccioni. Ci vollero una dozzina di sacchi per tirar via tutti quei cadaveri. Ma i piccioni non diminuirono; anzi, al posto dei caduti (taluni vecchi e malmessi), se ne sostituirono dei nuovi (più giovani e in forze). 
«Che disgrazia,» imprecava l’Ipocondriaco. 
«Sono semplicemente più forti,» dissi io. 
Capimmo che era vano insistere. Bisognava accettare la sconfitta. Non rimaneva che cambiare casa. Rimpacchettammo la nostra roba per l’ennesimo trasloco. Mentre l’Ipocondriaco chiudeva l’ultimo pacco, un’idea – che mi affretto a definire diabolica – lo pervase. 
«Seguimi,» mi disse secco e duro. 
C’imbarcammo nell’ascensore e sbucammo sul tetto del palazzo. L’Ipocondriaco si sporse leggermente dal cornicione. 
«Che fai?» chiesi preoccupato. 
Senza dire nulla, si sfilò la patta, lo tirò fuori e iniziò ad urinare in testa ai piccioni. 
«GENIALE!» urlai eccitato. E feci anch’io lo stesso. Muovevo in maniera alternata il membro per ottenere lo stesso effetto degli irrigatori professionali. Li colpimmo? Chi lo sa, da lì sopra era impossibile capirlo, ma venimmo pervasi da un senso assoluto di potere. 
Dopo un paio di giorni eravamo già nella nuova casa. Questa volta scegliemmo un attico. La seconda notte l’Ipocondriaco mi svegliò con un urlo disumano. 
«HO PESTATO UNO SCARAFAGGIO!» 
Accesi la luce. Una miriade di quei cosi s’infilò disordinatamente in un buco sotto la doccia. 
“Dio, non farmi questo,” pensai. 
L’Ipocondriaco tornò con il consueto foglio stampato. Ne lesse alcune righe ad alta voce. 
«In caso di guerra nucleare, sulla terra, sopravviverebbero solo topi e scarafaggi.» 
«Questa volta sarà dura,» dissi disperato.