domenica 25 novembre 2012

La bevuta a secco.

  SuperTramp e Il Bizzo varcarono la soglia del bar. L’ora era quella dell’aperitivo. A parte la ragazza sbadigliante dietro il registratore di cassa, il locale era vuoto. Si sedettero ad un tavolo e ordinarono della birra scura. La tizia versò il liquido nei boccali e li raggiunse. Sembrava tranquilla, ma si vedeva ch’era presa da un’ansia sottile. Mentre poggiava il vassoio sul legno del tavolo la mano le tremava, e quando disse «Ecco la birra, ragazzi», lo fece con uno scricchiolio malfermo, più che con una vera e propria voce. Sicché i due abbassarono lo sguardo. La solitudine che avvolgeva i boccali svelava, anche troppo chiaramente, il mistero. «Dove sono gli stuzzichini?» chiese Il Bizzo con tono pacato. In cuor suo la compativa, poiché il bar non era di quella, ma di un tale, di nome Victor, ch’era evidentemente pigro e mai si degnava di fare la spesa per le vettovaglie da aperitivo. Quella si fece rossa in viso senza dire nulla. «Non preoccuparti, ragazza», intervenne SuperTramp. «Sappiamo come vanno le cose». 
  Congedarono quindi la barista con ampi gesti della mano. Quella tornò a trastullarsi dietro il registratore di cassa. Durante il brindisi provarono un senso d’imbarazzo, e anche di sconforto. SuperTramp, preso dall’agitazione, vagava nel bar con il disordine delle formiche, mentre formulava il potente ossimoro: «Non posso bere così, a secco». 
  E allora fece uno scatto verso la colonnina delle patatine e prese l’unica cosa che trovò: un pacchetto di TUC. Era felice, ma quando lesse la data di scadenza rimase basito. «Sono guasti da tre anni», disse nervoso. La barista scosse il capo e rispose che non era colpa sua, che Victor la costringeva a tenere lì quel pacco e non voleva saperne di toglierlo. «Dovete credermi», disse quella nell’imbarazzo. «Debbo anche sorbirmi la pena di lucidarlo ogni sera». SuperTramp e Il Bizzo giudicarono la situazione insostenibile. Bisognava parlare con Victor per chiarimenti urgentissimi. «Non preoccuparti, cara», disse SuperTramp. «Ora la risolviamo noi questa faccenda». 
  La notte stessa tornarono nel bar. Victor oziava con i gomiti poggiati sul bancone. SuperTramp andò celermente al sodo. «I TUC sono scaduti da tre anni», disse nello sdegno. Victor, senza un accenno di resistenza o astio, prese gli inopportuni salatini e li nascose nei segreti della cucina. «Dovete scusarmi, non m’ero accorto, devo proprio essermi distratto», disse supplichevole. I due sapevano che non era così, ma tanta arrendevolezza da parte di quello aveva fiaccato i loro animi irosi, sicché ritennero superfluo allungare la discussione. 
  Ordinarono così due birre scure con la sete del cammello. Ne presero delle altre e ingurgitarono anche quelle. Successe poi che Victor uscì dalla cucina con un vassoio pieno di leccornie. «Questo è per farmi perdonare», disse mentre inarcava il monociglio. I crostini erano disposti in maniera concentrica e ognuno di quelli era avvolto da una fetta di salume. Mangiavano con la fame del bulimico e neanche una mollica cadeva in terra. Alla fine rimase un solo crostino, Il Bizzo lo divise a metà con le mani e ne guardò l’interno. La modestia del mio linguaggio rende difficile descrivere l’orrore di quello quando s’accorse che, sotto l’avvenente salamino, era celato l’ignobile TUC. SuperTramp non s’avvide di nulla e arrivò a complimentarsi con Victor per l’ottimo servizio. L’inconcepibile barista venne sommerso dagli elogi. Il Bizzo non ebbe il coraggio di dire nulla. Victor, con tutta probabilità, sapeva che Il Bizzo sapeva, ma ciò non fece altro che accentuare il suo cinismo. «Non abituatevi, però», concluse secco. Capirono che replicare sarebbe stato inutile, poiché il vassoio era vuoto e le pance piene. Pagarono le spine e s’allontanarono. 

  Poscritto del novembre 2012: Al giorno d’oggi, nel tempo in cui scrivo, capita che Il Bizzo incontri SuperTramp mentre passeggia per le vie. E allora sempre gli parla dell’avvenimento insolito e sempre – lui stesso lo ammette – subisce la vergogna del bugiardo. A volte la tentazione di dire tutta la verità lo tocca, ma non vuole rovinare i ricordi al suo amico, e allora lo ascolta mentre quello parla fino a notte profonda del benedetto vassoio, e pure lui dice che è vero, sì, è vero che quel giorno (quello in cui Victor portò un mare di stuzzichini) fu un giorno glorioso e irripetibile.

domenica 18 novembre 2012

Il Campanilista ha appeso le foto.

  Quando feci la mia apparizione nel tugurio il Campanilista poggiava i gomiti su di un tavolo. Era vestito in gran pompa, di un ricco abito di velluto a coste larghe, e portava sulla testa un cappello da pittore, di quelli con la visiera quadrata che impedisce lo sguardo. Al collo aveva una sciarpa del colore della merda, increspata e avvolta in una vertigine di nodi. Fu lui ad accogliermi. «Robin, che piacere averti qui nel mio bar», mi disse. «Vieni al bancone, ti offro da bere». Senza entusiasmo, mi vidi costretto ad accettare la consumazione. Ci dirigemmo verso il delegato delle bibite e bastò un gesto del Campanilista affinché quello ci servisse da bere. Tirai una sorsata dal bicchiere alto e presi a guardarmi intorno. Uno strano fremito animava quel tugurio. Un tizio s’appese con gli arti alle spalle decadenti del Campanilista e disse: «Davvero un buon lavoro, la tua arte è insuperabile, complimenti di nuovo». M’accorsi, quindi, che sul muro, incorniciati con il legno, v’erano esposte due foto enormi. Erano immagini in bianco e nero. In una di queste figuravano i labirinti di una scala a chiocciola vista dal basso; in un’altra ecco che spuntava un balcone. In un abbeveratoio come quello, le foto mi parvero di cattivo gusto, e lo sfondo lilla del muro che le sosteneva mi sembrò un abuso dell’arte combinatoria. Arrivò quindi un altro tizio; anche questo sommerse di elogi il Campanilista e le sue opere; poi un altro e un altro ancora, tutti supini alla logica Campanilista. Giudicai costoro come una sorta di cerchia chiusa, composta da tante comari che si danno ragione l’un l’altro su tutto. Non so perché, ma pensai alla masturbazione. 
  Io non dicevo nulla, poiché le illusioni del Campanilismo non hanno fine e possono distorcere o inventare dal nulla. Fichte diceva che essere coraggiosi e essere tedeschi è, evidentemente, la stessa cosa. Così, credo, le comari elogiavano adesso le opere insignificanti del Campanilista. Ma quello era il suo bar, il suo Campanile, e a me stava bene così. (Dopotutto avevo la mia consumazione gratis). 
  Presi allora anch’io a tessere le lodi delle orribili foto, e più parlavo più quelli mi offrivano da bere. «Sono splendide queste immagini», dicevo ad alta voce. «Così cariche di significato, così glamour». E tutti che chinavano il capo consenzienti e offrivano le consumazioni. Sicché, preso come in un sogno, bevvi di tutto, bevevo e poi elogiavo. E lo feci con una foga tale che loro – come mi parve di capire – mi considerarono pari al rango di comari. 
  Quando mi giudicai ubriaco e neanche un bicchierino entrava più nel mio stomaco, allora salutai e dissi: «Questo bar fa schifo, ed anche quelle foto fanno schifo». Calò un silenzio da cimitero. Tutti mi guardarono ebeti. La SciarpaMerda del Campanilista teneva segrete le vene gonfie del collo. Le comari mi accerchiarono minacciose e il barista ritrasse la consumazione che stava per pormi con uno scatto olimpionico. «Andate tutti a cagare», dissi. E sparii sciogliendomi nella notte.

domenica 11 novembre 2012

Un caffè molto ristretto.

  Il barista, ch’era di padre rumeno e madre polacca, mi chiese l’ordinazione. Aveva l’ampia barba rettangolare e gli occhi lucidi d’alcol. Presi la Gazzetta Sportiva da sopra il frigo, l’infilai sottobraccio e raggiunsi il bancone. «Un caffè molto ristretto», dissi. «Caffè molto ristretto in arrivo, amico.» Caricò la macchina, mise la tazzina sotto il beccuccio e raggiunse un manipolo di tizi (anch’essi rumeni) appollaiati nell’angolo lontano del bar. Mentre mi trastullavo con l’inutile Gazzetta del venerdì, il caffè raggiunse il bordo della tazzina; ma io non dissi nulla, poiché il barista s’era incendiato in alcuni discorsi incomprensibili con un altro tizio. Capivo solo le bestemmie. 
  Tempo di leggere un trafiletto e la macchina sibilò sbuffando un vapore leggero. Il barista, dopo un’effimera corsa di alcuni metri, abbassò la leva metallica e la spense. Poi osservò mesto la tazzina ricolma. Ora ne fa un altro, pensai, butta quello e ne fa un altro daccapo. (Capisco adesso, mentre scrivo, che il mio era un abbondare nella fiducia, senza dubbio.) Sicché quello versò il liquido in eccesso sulla griglia della macchina e, come nulla fosse, servì l’orribile consumazione. «Avevo chiesto un caffè ristretto», dissi. «Caffè ristretto, amico», rispose. «È quello che hai chiesto ed è quello che hai davanti.» Iniziò allora un indecifrabile battibecco e giunse un secondo rumeno, ch’era grande il doppio del primo. Le spalle calanti e il naso spigoloso da pugile lo vestivano di un’aria da rissa. Sulle braccia aveva tatuaggi con effigi mostruose. Un vero animale, pensai, una bestia. L’energumeno poggiò gli arti gonfi sul bancone e disse: «Ci sono problemi? Forse il caffè non è buono?». Quindi presi la tazzina e ingurgitai il liquido increscioso in un baleno. Era freddo, con uno sgradevole retrogusto di guasto e la densità acquosa. «Buonissimo», dissi docile. Per celare il disgusto esibii un sorriso appariscente, ma senza emozione. Posso dire che la mia pantomima ebbe un certo successo: la belva s’allontanò con un grugnito e raggiunse gli altri suoi connazionali; il barista prese a frizionare con la pezza lorda un bicchiere oblungo; io, senza troppi fanatismi, tornai alla Gazzetta Sportiva. La forza bruta, una volta di più, aveva preso il sopravvento.

domenica 4 novembre 2012

L’inferno analcolico.

  Non ce la passavamo bene io e Testa di Gomito, un centone a notte taccheggiando la gente nel metrò e ci lavoravamo anche le borse dei pensionati. Due anni con gli scippi e neanche un soldo era nelle nostre tasche, poiché la notte giocavamo con i dadi e compravamo le bottiglie di GinPiscio da Harry’s, e in quei due anni abbiamo bevuto tanto che un granaio ne sarebbe pieno, sicché la mattina nulla rimaneva della notte e l’uno domandava all’altro cosa fosse quel livido o perché il cavallo dei pantaloni fosse strappato. Come quel giorno, quando Testa di Gomito mi disse: «Hai un occhio nero, devi esserti battuto anche ieri notte. Devi averne prese tante». Io non ci credevo e allora andai allo specchio, ma vidi quel cerchio livido spandere un grigiore triste fin sotto le guance. Era un maledetto occhio gonfio, senza dubbio lo era. Quindi ricalcammo le strade della notte e tutti dicevano che era Testa di Gomito che m’aveva colpito, e venne fuori che io (io che sono la metà di lui) ero svenuto e che Testa di Gomito m’aveva caricato sulle spalle come un sacco fin dentro il letto. «È inverosimile», diceva Testa di Gomito perplesso. «Se ti avessi colpito lo sapresti. Questa storia è davvero inverosimile.» Chiedemmo ad altri tizi, ma tutti confermarono che la notte c’eravamo azzuffati nella polvere come due cani e che io ero svenuto. «Oh, quand’è così ti chiedo scusa», disse Testa di Gomito. «Non fa niente. Era solo una curiosità. Andiamo da Harry’s», dissi io. 
  Comprammo così due galloni di GinPiscio e iniziammo a bere proprio davanti ad Harry’s fino a notte profonda. Ridevamo e lanciavamo i dadi a terra sulla luce allungata che veniva dalla vetrina. Un cane arruffato, con due occhi grigi, ci scrutava arcigno e il vento gonfiava le nostre camice. Presi a vincere in maniera monotona. Tiravo sempre i numeri più alti. Testa di Gomito iniziò ad innervosirsi. «Dadi stronzi, non è possibile che mi giri sempre male, sei un lurido baro», mi diceva tirando lunghe sorsate dalla bottiglia. Aveva la faccia rossa e gli occhi indipendenti come quelli dei camaleonti. Era su di giri e anch’io ci davo dentro con il bere. E allora lanciai di nuovo i dadi e quelli di nuovo mi fecero vincere. La situazione si faceva via via più perniciosa. «Se continua così dovremo litigare», mi disse. «Non è colpa mia, sono i dadi», «Tira dai, e stai zitto, infame», «Io tiro, ma tu non chiamarmi infame», «D’accordo, tira quei dadi, coglione». Non mi andava di litigare e sperai di perdere, sicché quando lanciavo i dadi io non lanciavo i dadi, io scacciavo la fortuna, alzavo gli occhi alle stelle invocando la malasorte; ma questa non arrivò: vinsi tutte le giocate e Testa di Gomito – com’era prevedibile – s’infuriò. «Quei maledetti dadi sono truccati», mi disse. «Non esagerare, e poi sono tuoi i dadi», «Allora sono le tue mani ad essere truccate, coglione». Mi afferrò per il collo e prese a sbattermi il grugno sul marciapiede. Poi iniziò con gli schiaffi. Alzava il braccio e, dopo una traiettoria ad arco, il suo palmo mi rimbombava sulla faccia come una fucilata. I suoi pugni mi raggiungevano in maniera invisibile, come una magia. E allora caddi e rotolai come una palla fino al muro. Mi giudicai sconfitto; chiusi gli occhi e credetti d’esser morto. Nel deliquio, vidi un enorme inferno dove i bar vendono solo succo d’ananas. Fu allora che ripresi coscienza. Alzai le palpebre e scorsi una bottiglia ch’era ancora piena. La presi e la ruppi sullo zigomo di Testa di Gomito. Quello prese a girare come una trottola e diceva parole indecifrabili. Lo colpii di nuovo e perse i sensi. Guardai per un po’ il suo corpo immobile spalmato sull’asfalto lurido. Mi sentivo il più forte; ma sapevo che quando Testa di Gomito si sarebbe svegliato allora davvero avrei raggiunto l’inferno analcolico. Bisognava inventarsi qualcosa. Presi Testa di Gomito e lo caricai in macchina. Lo portai in spalla su per le scale. Alla fine avevo la schiena a pezzi e camminavo curvo. Lo misi a letto e gli rimboccai le coperte dopo aver innaffiato d’alcol le lenzuola. Poi mi sdraiai e venni avvolto da un sonno irrequieto. 
  Il mattino dopo dissi a Testa di Gomito che aveva del sangue raggrumato sulla fronte. Lui andò allo specchio. «Chi diavolo mi ha fatto questo?» Aveva la voce rauca come quella dei travestiti. «Non saprei», risposi. «Anche a me dolgono le ossa, e parecchi lividi mi coprono la schiena.» Allora quello tornò a letto, fiutò l’alcol dalle lenzuola e disse: «Devo aver bevuto assai, senti che puzza che viene». Io annuii con un cenno del capo. Testa di Gomito prese un fazzoletto e s’asciugò il sangue. Ricordo che non riuscivo a stare in piedi e il corpo mi sembrava privo dello scheletro. «Dobbiamo scoprire chi è stato e fargliela pagare», disse austero. «Sì, gliela faremo pagare», risposi. «Lo troveremo e allora sarà la fine, lo assaliremo in due, io e te», «Io e te, sì, la pagherà, oh, se la pagherà».