sabato 28 aprile 2012

Amore al metro.

  Eppure, a dirla tutta, non era bello. Una feroce calvizie gli aveva raso al suolo tre quarti del cuoio capelluto. Aveva la pelle squamosa ed era grasso. I motivi del suo successo con le donne erano per me un mistero assoluto. Tuttavia, era un buon amico. Passavamo delle buone giornate insieme. Quel pomeriggio dovevamo incontrarci per una partita a biliardo e quattro chiacchiere. Lo trovai poggiato al muro dell’università con addosso un’orribile camicia dalmata. Ci salutammo. «Ciao Robin», «Ciao Mandingo». Tirò una boccata dalla sigaretta, emise un sibilo asmatico e buttò la cicca pestandola con i mocassini in pelle d’istrice. «Partitina a biliardo?», dissi io, «Sì, ma prima devo passare da una mia amica a prendere un libro», «Non mi va di reggerti la candela», «Solo cinque minuti». Accettai, senza emozione, l’invito. 
  Lo seguii fino alle periferie. Mandingo suonò ad un citofono. «Alice? Sono Mandingo», «Oh, vieni pure Mandingo, primo piano». Il portone si aprì con uno scatto, salimmo un paio di gradini e c’infilammo nell’appartamento. Alice era al balcone che prendeva il sole. Indossava un MicroTanga ch’era come un bavaglino per neonati. Non so cosa fu con esattezza, se il suo sguardo della categoria senape-e-miele o quell’enorme Manhattan’Mix’Lemon’Funeral’Ice dal quale tirava ampie sorsate, davvero non saprei, fatto sta che divenni barzotto. 
  Alice preparò qualcosa da bere e brindammo insieme. Parlammo per un po’ del più e del meno. Poi Mandingo ritirò il suo libro di sociologia avanzata “L’uomo moderno e lo Gnu: analogie e differenze” e salutammo. Una volta fuori, a malapena celavo l’emozione, tanto mi aveva colpito quella donna. «Te la sei fatta?» chiesi al mio amico. «Ancora no, ma stai sicuro che inzupperò.» Maledizione! Uno come Mandingo era troppo per uno come me. Non avevo speranze. Al bar biliardi non mandai in buca neanche una palla. Le mani mi tremavano mentre pensavo ad Alice e al suo tanga. All’ennesimo tiro sbilenco Mandingo capì che qualcosa non andava. «Che hai?», «Senti, devo chiederti una cosa», «Spara», «Ma come fai con le donne? Voglio dire, insomma, hai un aspetto orribile», «L’aspetto conta poco. Vieni con me». Mi abbracciò come un padre e mi condusse mano nella mano al cesso. Quando mi chiusi la porta alle spalle, Mandingo s’abbassò le mutande. Fu allora che lo vidi. Moscio com’era arrivava quasi alle ginocchia. «Capisci adesso?» disse Mandingo. Riavvolse come una bobina quel suo affare nelle mutande. Se devo far qualcosa, pensai, occorre che lo faccia prima che i due s’incontrino. Si doveva agire in fretta. «Devo andare», dissi. 
  Arrivai a casa con il primo autobus. Aprii il frigo e ingurgitai ogni sorta di alcolici, credo per farmi coraggio. Poi presi un righello e andai in bagno. Ebbene, il mio era un ventitré. Non c’era paragone con il quaranta di Mandingo. Pensai a lungo ed ecco l’idea: misi un paio di pantaloni attillati e infilai due calzini nelle mutande. Un’impomatata ai capelli e via. Dopo una mezz’oretta ero di nuovo nelle periferie. Mi annunciai al solito citofono. «Sono Robin, l’amico di Mandingo», «Sali, ti apro». Feci quindi la mia apparizione nell’appartamento. Alice dimostrava un certo disagio per la visita inattesa e per un po’ ci guardammo imbarazzati. Poi mi ricordai di Mandingo. Tolsi la giacca e sfoderai il pacco-calzino. Sporgevo la pancia in avanti per metterlo in mostra il più possibile. Quella s’addolcì di colpo, come presa in una magia. Mi fece accomodare su di un divano e m’offrì da bere. Arrivai a comprendere che, a volte, il pacco ha più personalità di chi lo possiede. Quindi tagliai corto. «Andiamo in camera», dissi. C’infilammo a letto e tutto andava alla grande, ma quando la misteriosa arte del petting volse al termine, iniziarono i guai. «Togliti le mutande», disse Alice, «Non posso», «Come sarebbe a dire?». Caddi nel pallone e dissi l’indicibile: «Cerca di capire, sono timido». Alice s’alzò con uno scatto dal letto. I suoi occhi senape-e-miele mi sondavano bui. «Sparisci adesso, mollusco», urlò severa. Giudicai la situazione irrecuperabile. Mi rivestii e raggiunsi, non accompagnato, la porta. 
  Una volta in strada, misi la mano nelle mutande e gettai via i calzini. In giro non c’era anima viva e quella desolazione rifletteva la mia solitudine come uno specchio. Sicché guardai l’orologio, era presto per fare colazione e tardi per bere. Era uno di quei momenti in cui non si può far altro che star fermi. Mi sedetti su un marciapiede, accesi una sigaretta e aspettai.

giovedì 26 aprile 2012

Il Boss.

  Fu un qualcosa da niente, un qualcosa sul come si prepara il Campari, poi iniziarono a darsele e se le davano di brutto. Mi sentivo in colpa per ciò che stava accadendo. Dopotutto, l’idea di andare in quel bar era stata mia. Il primo schiaffo lo prese il mio amico. Reagì con un fendente al volto che inondò l’aria come una fucilata. Ognuno aveva avuto il suo ed ora erano entrambi tramortiti a terra. Presi un fazzoletto e lo porsi al mio amico. Dopo due minuti riattaccarono a darsele. Il tizio passò dall’altra parte del bancone e iniziò a tirare ogni sorta di bottiglia contro il muro cercando di colpire l’avversario. In breve il pavimento diventò una pozzanghera di Fernet-Borghetti-GranSasso-Ramazzotti-GinPiscio-Limoncello. Nell’aria c’era un odore di distilleria da far svenire. Un vecchio con le vene varicose in faccia scoppiò in lacrime. 
  «Tutta questa grazia di Dio,» diceva. Abbassò la testa come un gatto e leccò il pavimento con la sua lingua livida e porosa. Slap, slap, slap. «Però, non male,» concluse. 
  «Io non mischio mai i superalcolici, fa male,» gli rispose un altro vecchio. 
  I duellanti, nel frattempo, erano più agitati che mai. Ora si rotolavano a terra come due cilindri sbattendo la testa su spigoli, gambe di sedie, gambe di vecchi, slot-machine e flipper. Per una sorta di codice morale, si colpivano uno alla volta chiedendosi il permesso. 
  «Posso?» «Vai», sciaff... «Ora tocca a me, vado?» «Vai», sciaff... 
  Avevano entrambi il viso tumefatto. Distinguevo a malapena chi dei due fosse il mio amico. 
  Ora, sappiamo che ogni bar ha una personalità di spicco, un Boss al quale vengono affidate le decisioni importanti. Il Boss di quel bar stava entrando adesso dalla porta. Si guardò intorno; poggiò i pollici sulla cintola; si ficcò uno stecchino fra i denti; la mascella fece uno scatto metallico e sputò qualcosa di vischioso a terra. 
  «Che cazzo succede qui?», urlò inalberato. «E tu, vecchio, che fai con quella pezza?» 
  Il vecchio dalla faccia varicosa aveva appena finito di passare lo straccio e ora se lo strizzava in bocca. 
  «Niente Boss, niente.» 
  Si girò verso di me con aria interrogativa; io alzai le braccia e dissi: 
  «È per il Campari, ma non ho capito bene Boss.» 
  Il mio amico intervenne: 
  «Questo bastardo è convinto che nel Campari vada l’arancia.» 
  «Insisti ancora? Non ti basta?» disse l’altro. 
  Il vecchio varicoso finì di strizzare lo straccio in un secchio e sparì nel retro leccandosi le labbra. Il Boss si rivolse di nuovo a me. 
  «È vero quello che dicono?» 
  «Sì.» 
  «E vi sembra un buon motivo per distruggere il mio bar?» 
  Rispondemmo tutti e tre all’unisono: 
  «SCUSA BOSS!» 
  Il Boss sputò a terra e accese un sigaro enorme. Rimase a fissarci per un po’ e disse: 
  «Alla fine chi dei due ha ragione?» 
  Accendemmo il computer; consultammo Wikipedia. Digitai “Campari con limone” e non ne venne fuori nulla. Provai con l’arancia e scoprimmo che, alla fine dei conti, il mio amico aveva torto. Il Campari – gusti a parte – va servito con una fetta d’arancia. Il Boss ci bandì dal bar. Bastò il suo sguardo grigio e assente a ghiacciarci il sangue nelle vene. Mentre uscivamo, il vecchio varicoso spuntò barcollante dal retro con lo straccio che gli penzolava dalle mani. 
  «C’è bisogno di una ripassata?» chiese.  
  Una volta fuori portai il mio amico a sciacquarsi quella che una volta era una faccia alla fontanella del parco. Il rospo non gli era andato affatto giù. 
  «Mi vendicherò!» urlava a denti stretti. «Lo distruggo quel bastardo.» 
  «Smettila!» dissi io. «Non hai sentito il Boss? Meglio lasciar perdere.» 
  «Ora la vediamo.» 
  S’alzò di scatto. Uno sguardo fiero di vendetta lo animava mentre – con passo lento ma implacabile – si dirigeva verso casa. Dopo un paio di minuti lo vidi uscire dal portone del palazzo; si diresse di nuovo al bar. Io rimasi lì dov’ero. Non avevo voglia di immischiarmi di nuovo in quella faccenda. Passò un quarto d’ora e il mio amico fece ritorno. Aveva uno strano ghigno. 
  «Ah ah. Gli ho dato il fatto suo.» 
  «Che cazzo hai combinato ancora?» chiesi. 
  «Guarda!» Estrasse dalla tasca un enorme coltello da cucina. Per un attimo pensai al peggio. Poi disse: «Gli ho squarciato le ruote della macchina a quel bastardo, ah ah, ora tornerà a casa a piedi, ah ah.» 
  «Che cosa idiota,» dissi io. 
  «Idiota? È stato fortunato che è venuto il Boss a separarci, altrimenti lo avrei steso.» 
  «Come sai che quella era la sua macchina?» 
  «Era parcheggiata lì davanti.» 
  «Uhm...» 
  «Be’, festeggiamo adesso.» 
  Tirò fuori una bottiglia di grappa e bevemmo a gargarozzo per un’oretta. Il mio amico era davvero felice per la sua impresa. Si sentiva un duro e nulla avrebbe potuto cambiargli l’umore. 
  Nulla, sì, a parte quello che vedemmo sulla strada. 
  Il tizio del Campari ci sfrecciò davanti a 130km/h. Dalla macchina veniva un’orribile musica da discoteca. Quando sparì dietro una curva rimasi basito a guardare la carreggiata vuota. La bottiglia cadde dalle mani del mio amico spargendo vetri tutt’intorno. 
  «Dimmi un po’,» dissi, «com’è che il nostro amico ci è sfrecciato davanti con la macchina?» 
  «ODDIO!» disse lui. 
  «Non avrai mica... no eh?» 
  «Oddio. No, spero di no.» 
  Mi si appoggiò ad una spalla piangendo. Piansi anch’io per la disperazione. Quel coglione aveva sbagliato auto, e quella a cui aveva forato le ruote era – con tutta probabilità – quella del Boss. Il dubbio divenne certezza quando vedemmo il Boss spuntare da un angolo con una grossa mazza seguito dal vecchio varicoso. Veniva verso di noi, senza dubbio era verso di noi che veniva. Agitava la sua mazza in aria e urlava incazzato nero. Di lì a poco avremmo provato la sua ira funesta. Il Boss ci ridusse a poltiglia mentre il vecchio gridava: «Così, così, dai Boss.» Dio, alla fine del trattamento avevamo le facce come due capolavori dadaisti. Da quel giorno bevvi solo Campari lisci.

mercoledì 18 aprile 2012

Racconto criminale.

  Il seminterrato dove vivevamo io e Peppe fu l’epicentro dell’attuale crisi finanziaria. Tutto ebbe inizio una mattina di Marzo. Peppe, come al solito, mi svegliò con la sua musica infernale. Aprì di soppiatto la porta e si avvicinò furtivo al mio letto. Era impossibile sentirlo arrivare, poiché le sue pantofole, modificate per l’occasione, erano munite di un consistente strato di lanetta sotto la suola che rendeva i passi del mio amico impercettibili. Poi, con cautela, mi incollava alle orecchie due enormi cuffie della Sony, premeva Play e mi sparava nei timpani quell’orribile Tecno’Vulgar’Beat ad un volume impressionante. 
  Dopo cinque minuti di convulsioni capii quello che aveva da dirmi. Era arrivata una bolletta-conguaglio. L’importo presentava un insieme vertiginoso di zeri. Un vero dramma. Inoltre, quello era un periodo davvero difficile. Io e Peppe avevamo già contratto dei debiti – debiti onerosi – con un feroce clan di strozzini: Equitalia. Adesso quella bolletta faceva sprofondare definitivamente il P.I.L. della casa. 
  La situazione ci parve disperata. Peppe s’attaccò ad una bottiglia di GinPiscio avanzata dalla sera prima. Camminava frenetico con le sue pantofole silenziate, mentre agitava la bolletta in aria come una bandiera. Bestemmiava in tutte le lingue. Di tanto in tanto pronunciava frasi sconnesse e di difficile comprensione. 
  «E adesso, Robin?... guarda che ci doveva succedere... non ne verremo fuori, adesso... non abbiamo più una lira... lo Spread, lo Spread... è tutto finito Robin... il P.I.L.... è tutto finito... quelli di Equitalia ci faranno la pelle...» 
  «Dai non esagerare Peppe,» dissi io. 
  «Violenteranno le nostre madri... ci tortureranno... è tutto finito Robin...» 
  Maledizione! In una cosa Peppe aveva ragione: la situazione era disperata. Sicché bevvi anch’io e piangemmo insieme per delle ore interminabili. 
  Dopo la sbronza decidemmo di affrontare la situazione. Abbozzammo un piano. Tutto era affidato all’accattonaggio, il riutilizzo e, ovviamente, al rubare ovunque tutto ciò che era possibile rubare. Ne venne fuori un’interessante manovra economica. Prima di buttare un tubetto di dentifricio, lo si strizzava con il matterello. Il Corriere, una volta letto, veniva adibito a carta igienica (io, personalmente, preferivo le pagine politiche, Peppe lo sport. «Il Milan mi fa cagare,» diceva uscendo dal bagno). I piatti non venivano lavati per evitare il consumo dei detersivi. Scaricavamo l’acqua del cesso una volta a settimana. Facevamo – con un certo imbarazzo – la doccia insieme. Ci scambiavamo lo spazzolino. Frequentavamo a turno la stessa ragazza e riducemmo drasticamente le derrate alimentari. 
  «Per i carboidrati basta la birra,» ci dicevamo. 
  Solo nei giorni festivi Peppe preparava uno stufato di patate e fagioli. Dopo un mese di quella vita eravamo secchi come degli ossi, con delle barbe incolte che ci rendevano irriconoscibili, gli occhi fuori dalle orbite. 
  Passarono altri magri giorni e venne il momento di fare i conti. Be’, nonostante i nostri sforzi, lo Spread continuava a salire ed eravamo sommersi dai debiti. Insomma, eravamo punto a capo. Decidemmo così di passare ai furti nei supermercati. È vero che le nostre coscienze ci mordevano il collo, ma non avevamo scelta. 
  «Robin, solo le cose indispensabili alla sopravvivenza però,» disse Peppe. 
  «Mi sembra giusto,» risposi. 
  Il primo furto fu una cassa di birra. La feci scivolare a terra di nascosto spingendola con i piedi, mentre porgevo alla cassiera un pacchetto di Vigorsol. Un colpaccio. Mi scoprii davvero abile in quella nobile arte. Viceversa, Peppe, aveva qualche sfortuna. Fu lui ad organizzare il colpo al negozio di liquori. 
  Andò così: entrammo e chiedemmo al tizio di riempirci una bottiglia di vino sfuso, e quando questo sparì nel retro, Peppe afferrò un fusto di birra, lo posò fuori il negozio a pochi metri dalla porta e rientrò fischiettando. Il tizio fece ritorno con il vino. 
  «Fanno due Euri,» disse. 
  Peppe si sentiva sicuro e disse: «Dovresti abbassare i prezzi, tatì. Due Euri per stà sporcizia?» 
  «Aò,» rispose lui, «lo voi o no sto vino.» 
  «Solo per questa volta, nonnetto.» rispose Peppe. Poi, mentre uscivamo, aggiunse: «Ti tengo d’occhio, tatì.» 
  «Ma vattela a pià ’nder culo va,» urlò il vecchio. 
  Quindi uscimmo. Eravamo felici per il colpo, ma all’uscita ecco la sorpresa: un tizio stava scappando con il fusto di Peppe sottobraccio. Gli corremmo appresso e riuscimmo ad acciuffarlo dopo un inseguimento sfrenato. Peppe lo placò buttandoglisi addosso. Ci fu una violenta colluttazione e noi avemmo la meglio. Lo picchiammo all’americana. Peppe lo teneva e io lo colpivo. 
  «In faccia, Robin, in faccia, sfregialo,» diceva. «Ti piace bello? Eh, con chi cazzo credevi di avere a che fare. Non abbiamo niente da perdere noi... Equitalia, ti dice nulla?» 
  A quelle parole, com’è naturale, il tizio svenne per la paura. 
  Noi lo prendemmo a calci ancora un po’ e portammo la refurtiva in casa. Quella sera fu festa, grande festa. Ci sentivamo dei duri e, gasati di brutto, iniziammo a rubare di tutto. Sicché lo spread scendeva pian piano e il P.I.L. fece una buona impennata. Ma i debiti erano sempre lì, purtroppo. Bisognava fare di più. 
  «Dobbiamo crescere,» ci ripetevamo la sera controllando la refurtiva. 
  L’idea di passare alle truffe fu mia. Una in particolare riuscì benissimo. Comprammo due giacche di plastica al mercato (pagate due Euri l’una) ed entrammo nel ristorante più costoso della città. Ci sedemmo poggiando le giacche sulle sedie. Ordinammo così i piatti più gustosi e costosi che trovammo nel menù. Avevamo un cameriere tutto per noi che ci versava dell’ottimo vino. Sicuri del fatto nostro, elargivamo complimenti a tutto lo staff. 
  «Però! Carino questo posto,» «Sì, e che servizio poi,» «Ottimi questi ravioli ai funghi porcini con panna delle Dolomiti,» «Oh, che delizia questa bistecca di bue muschiato,» «Complimenti allo chef. Questo involtino di ostriche del Pacifico è a dir poco incantevole,» e così via. Insomma, fummo serviti e riveriti. Mangiammo fino a scoppiare. 
  Poi Peppe disse: 
  «Scusi cameriere, ci porta un posacenere?» 
  «Spiacente,» rispose quello, «ma qui non si fuma, signori.» 
  «Scandaloso!» urlò Peppe alzandosi con uno scatto. «Che razza di posto è mai questo.» 
  Il cameriere inarcò le sopracciglia e disse: 
  «Spiacente signori. Se volete fumare dovete farlo fuori.» 
  Con aria interdetta ci alzammo dalle sedie. Mentre uscivamo Peppe si rivolse al cameriere dicendo: 
  «Tienici d’occhio le giacche, tatì.» 
  «Scherza? Qui nessuno tocca niente, è un posto per bene questo,» disse il cameriere. 
  Peppe lo squadrò dall’alto in basso e disse: 
  «Lo spero per te. Comunque ti tengo d’occhio, tatì.» 
  Il cameriere abbasso lo sguardo senza replicare.
  Una volta fuori iniziammo a correre più veloce della luce. Nonostante tutte le cibarie ingurgitate, raggiungemmo una velocità vorticosa in pochi secondi. Ridevamo di gusto e ci davamo delle forti pacche sulle spalle. Eravamo al culmine del successo malavitoso. 
  «Tiè, è l’economia che riparte con noi, ah ah,» urlò Peppe facendo il gesto dell’ombrello. 
  «Non ci fermeremo più,» dissi io. «Dobbiamo prenderci tutta Roma.» 
  «Sì, Roma intera, prima che lo faccia qualcun altro.»

martedì 17 aprile 2012

Il mollusco brusco.





  Non ho mai potuto soffrire le mode. Vedere quei ragazzi che si depilano, con le sopracciglia rifatte, fa ribrezzo. Linda apparteneva a quella tribù. Per far colpo su una tipa del genere, o si è alla moda o niente. In o Out. Quella sera, mosso dal desiderio tribale dell’accoppiamento, decisi di provarci. Per impressionarla, ordinai l’ultimo ritrovato in fatto di cocktail. «Fammi un Ice’Lemon’Rancid’Sbrokus’On The Rock, per cortesia», chiesi al tizio dietro il bancone. «È per la tua ragazza?» chiese lui. «Non ce l’ho la ragazza». Mi guardò compassionevolmente. Per preparare quel coso impiegò tanto di quel tempo che, nell’attesa, ingurgitai due spine senza neanche troppa fretta. Mi porse il bicchiere. La quantità di ombrellini, olivette, piccole composizioni floreali e Dio sa cos’altro che adornavano la bibita era impressionante. Una vera foresta. «Che cazzo, potrei essere violentato da un orango qui dentro», dissi al barista. «È quello che hai chiesto». Mi avvicinai a Linda tenendo bene in vista il cocktail. Accennai una di quelle danze epilettiche tanto in voga. «Stai bene?» chiese Linda. Mi sedetti al suo fianco. Gli porsi il bicchiere; mancò poco che le cavassi l’occhio con un ombrellino. «Ne vuoi un po’?» chiesi. «Cos’è?»,   «Ice’Lemon’Rancid’Sbrokus’On The Rock.», dissi fiero. «Oh, devi essere un mollusco per bere quella roba», «Cosa bevi, allora?», «Offrimi un B52+10=Sbronz, quello sì che è un cocktail». Tornai al bancone; il barista sembrava mi stesse aspettando. «Fammi un B52+10=Sbronz», dissi severo. «Adesso sì, amico, pensavo fossi un mollusco.» Mi innervosii. «Vedi di non metterci mezz’ora.» Dopo ventotto minuti la brodaglia era pronta. Mise il bicchiere sul bancone; estrasse un accendino dal taschino; diede fuoco a quella roba. La fiammata per poco non ci uccise entrambi. Portai a Linda il cocktail. Il barista mi munì degli appositi guanti protettivi in amianto per il trasporto. «Grazie mollusco.» Facemmo un brindisi e bevemmo qualcosa insieme. La mia bibita sembrava gasolio; mi trattenni dal vomitare. Ormai il ghiaccio era rotto; l’imbarazzo sparito; ed io, in preda all’euforia, facevo scintille. «La smetti di giocare con quell’accendino?» Parlò a fiume per un’oretta buona; facevo finta di ascoltarla annuendo con la testa di tanto in tanto. Non capii un cazzo di quello che mi disse. Raccontò la storia di due stilisti froci; tirò fuori dalla borsetta una rivista con le foto dei loro vestiti. «Non sono il massimo mollusco?», «Sì, sono il massimo». Neanche al carnevale di Venezia metterei questa roba, pensai. Arrivò un suo amico, un tizio dall’aria altezzosa con la erre moscia. «Lui è Kalvin, un retrò inglese», disse Linda. «Kalvin, questo è il mio amico Robin.» «Piacere», dissi. «Robin, abruzzese contemporaneo.» Il tizio tirò fuori i pollici dal panciotto e ci stringemmo la mano. Poggiò la bombetta sull’attaccapanni; si sedette con noi. Cercai di evitarlo, ma fu lui che mi si lanciò addosso per primo. «Dio, dove li hai comprati quei Jeans?», «Al mercato», «Ma Linda, dove l’hai preso questo?», «Senti, vedi di non esagerare ora». Linda intervenne: «Oh, Kalvin, lascialo stare, è un bravo ragazzo», «A me pare un mollusco». Uscii fuori di testa. «Io non sono un mollusco, non esagerare ti dico», «Ah no? E cosa sei?», «Un Macho», dissi in uno slancio d’orgoglio. «Un Macho Vileda», ribatté Kalvin. Risero tutti e due. Kalvin mise su un monocolo; estrasse un orologio da taschino; lo aprì con uno scatto. Poi disse: «Non è ora che il tuo amico vada a casa?» Con questo, toccò il punto di non ritorno. Tornai al bancone; ordinai un altro B52+10=Sbronz. «Non dargli fuoco», dissi al barista. Tornai dal tizio; presi un estintore e glielo misi vicino; mi guardava senza capire. Mi riempii la bocca di liquido e lo spruzzai in faccia al tipo; presi l’accendino e gli diedi fuoco. Sembrava una cometa mentre correva fuori; un tizio disse: «L’estintore presto!», «È qui», dissi io. Poi mi rivolsi a Linda. «La prossima volta che mi chiami mollusco, fai la fine del tuo amico», «Oh, Robin». Mi guardò con due occhi inumiditi. Avevo fatto colpo. Bastava essere brusco, pensai. Andammo in un albergo e ci infilammo a letto. Ero davvero felice. L’accoppiamento, di lì a poco, sarebbe avvenuto. Dissi: «Oh, Linda, sto toccando il cielo con un dito», «Non è il cielo quello lì», «Beh, se è per questo, a dirla tutta, non è neanche il dito».

sabato 14 aprile 2012

Una festa anni 70.

Quando il mio coinquilino lasciò l’università furono guai. Abbandonò casa una sera d’inverno. Le ultime sue parole furono: «Robin, mollo l’università.» 
«Sei sicuro?» chiesi. 
Studiava fisica, ma lui non la chiamava mai così. «Sicurissimo Robin. Con una laurea in Astrofica spaziale non si va più da nessuna parte al giorno d’oggi. Bisogna che faccia qualcosa ora, finché sono giovane. Vado a fare un corso di Jambé. Ti consiglio di fare la stessa cosa se non vuoi trovarti a piedi, un domani.» 
«Grazie. Ci penserò,» risposi pensoso. 
Quindi prese un enorme tamburo, lo percosse con la mano e accennò un sorriso languido salutando con la mano libera. Lo spiai dalla finestra mentre si allontanava con quel coso enorme a tracolla. Salì su di un autobus inscenando una strana danza tribale. Fu l’ultima volta che lo vidi. 
Io tornai sui miei passi e aprii la porta della sua stanza ormai vuota. Un sentimento di angoscia mi pervase. Bisognava trovare un nuovo coinquilino, e questo, credetemi, è un passo delicato. Non sono ammessi errori. Mettersi un coglione in casa può voler dire una vita d’inferno. Preparai i volantini e ne feci varie fotocopie che puntellai sulle bacheche di tutte le università. Fui molto chiaro: 
“AFFITTASI CAMERA SINGOLA. AMPIA E LUMINOSA. SIA UOMINI CHE DONNE. NO CANI. NO GATTI. NO CRICETI. NO SERPENTI E, PER L’AMOR DI DIO, NO COPPIETTE. GRADITI FUMATORI, BEVITORI, AMANTI DELLA MUSICA AD ALTO VOLUME”. 
Più chiaro di così! 
All’annuncio risposero in molti. Veniva gente di tutti i tipi: fighetti, punk, froci, uomini banali, un impiegato di banca, un divorziato, uno sputafuoco, un muratore albanese, due siamesi, un tizio che diceva di chiamarsi Cristo, un ventriloquo, eccetera eccetera. 
Alla fine, stremato, optai per una ragazza composta, sulla venticinque, né bella né bona, con una margherita sull’orecchio e i calzoni a zampa di elefante. 
Patti, disse di chiamarsi Patti, come la cantante. 
«È il tuo vero nome?» chiesi dubbioso. 
«È il mio nome d’arte. Pace, amico mio.» Alzò due dita formando una V. 
“Speriamo bene,” pensai. 
Dopo una settimana Patti invitò un paio di suoi amici a cena. Un’ora prima l’arrivo degli ospiti aveva già dato fuoco ad una ventina di stecche d’incenso – fragranza opium. Una roba disgustosa. 
«Non possiamo fare a meno dell’incenso?» obiettai. 
«Scherzi? Aiuta la meditazione. Inoltre è un forte empatogeno.» 
«Ma non era una cena?» 
«Appunto!» 
“Bah,” pensai, “speriamo bene.” 
Poco dopo suonarono alla porta e andai ad aprire. Vidi questi due tizi, anche loro con le zampe d’elefante, due camicioni a fiori con dei colletti enormi. 
«Pace, fratello,» dissero all’unisono. 
«Pace,» risposi. 
«Io sono Jim. E questo è il mio amico Iggy.» Iggy annuì con un cenno del capo. 
“Benissimo,” pensai, “manca Santana e siamo al completo.” 
Sedemmo tutti a tavola e a me venne da starnutire. Jim colse la palla al balzo. 
«Raffreddore?» chiese. 
«No, solo uno starnuto.» 
«Ho qui qualcosa che ti farà bene.» 
«Non ho il raffreddore, ti dico.» 
«Non bisogna lasciarlo fare il raffreddore. Prendi questo.» 
Estrasse una sacchetta di cuoio, la capovolse e ne venne fuori uno strano ammasso di foglie secche. 
«È una tisana per il raffreddore,» disse Jim. 
«Non ho il raffreddore,» risposi alzando un po’ la voce. 
«Vai tranquillo, è omeopatica.» 
«Ah, beh, allora.» 
Presi l’infuso e, dopo dieci minuti, iniziai a sentirmi male sul serio, ma per educazione non dissi nulla. La cena ebbe inizio. A tavola mancava l’acqua, sicché presi una bottiglia di Coca vuota e la riempii al rubinetto, poi tornai in sala poggiandola sulla tovaglia. Jim aggrottò la fronte. 
«Che c’è?» chiesi. 
«Come puoi far questo?» disse Jim. 
«Cosa?» 
«La Coca a tavola.» 
«È acqua,» dissi interdetto. 
«La bottiglia è della Coca Cola, ed è una multinazionale la Coca Cola, e le multinazionali sono male.» 
Presi la bottiglia e strappai l’etichetta. 
«Così va meglio?» chiesi. 
«Il tappo,» disse Jim. 
Svitai il tappo ficcandomelo in tasca. 
“Ora capisco perché questi tizi vanno in giro in coppia,” pensai fra me. 
«Possiamo mangiare, ora?» chiesi. 
Jim, Iggy e Patti annuirono. Mangiammo. Patti aveva preparato una cena stile macrobiotico, di quelle che non sanno di niente e men che meno ti saziano. Quando i tizi andarono via, mangiai di nascosto un panino con la porchetta avanzato dal pomeriggio. Stappai anche una lattina di Coca e la bevvi in un sorso. 
Passarono alcuni giorni e venni invitato da Patti ad una festa “frikettona”. Convinto che non tutti gli amici di Patti fossero come quei due coglioni della cena accettai l’invito. Ovviamente, mi sbagliavo. La festa era all’aperto, su di un terrazzo privato. Tutti – e dico tutti – erano vestiti con zampe d’elefante e camicie a fiori. Ero l’unico con felpa e jeans. Iniziai col sentirmi a disagio. Tutti mi guardavano in cagnesco, chiedendosi chi mai fosse quel “multinazionalista” e cosa ci faceva in un posto come quello. Jim e Iggy erano seduti a terra con una stecca d’incenso che gli fumava davanti. Decisi di stare buono in un angolo. Ma il destino, come sappiamo, sa essere beffardo e non manca di senso comico. Successe questo: alla festa c’erano molti cani liberi, uno di questi, preso non so da cosa, iniziò a mordermi il cavallo dei pantaloni. Ora, io non sono un grande scopatore, ma al mio pisello ci tengo lo stesso. Quindi, preso dallo spavento, iniziai a dar calci al cane, che emise qualche sbuffo di dolore e scappò via. Quando alzai lo sguardo notai che tutti gli occhi erano puntati su di me. Un tizio, abbastanza in forze, mi si avvicinò e disse: 
«Che cazzo fai? Come ti permetti?» 
«E tu chi sei?» chiesi. 
«Sono Freddy, e quello che hai preso a calci è il mio cane, sporco anti-animalista.» 
«Cosa? No, no. Ti sbagli. Il tuo cane voleva ridurmi ad eunuco.» 
«Sei un anti-animalista. Tu odi gli animali,» ricalcò. 
«Senti, o Freddy Mercury, o come cazzo ti chiami, vedi dove devi andare,» urlai inalberato. 
Mi ritrovai tutti contro. Non sentivano ragioni. Una frangia di quei coglioni minacciava addirittura di picchiarmi. 
“È così?” pensai, “ora vediamo.” 
Attaccai a bere di brutto. Uno alla volta, mi passai tutti gli invitati dicendo sproloqui e, se possibile, ruttandogli in faccia – a qualcuno è andata anche peggio. Insomma, misi tutto me stesso nel rovinare la festa. Ma il tocco di classe fu quando, al cesso, vidi una ragazza, evidentemente ubriaca, spalmata a terra. 
«Stai bene?» chiesi. 
«Acqua, ti prego, portami un po’ d’acqua,» diceva quella in tono supplichevole. 
Ed ecco il genio: presi un bicchiere, lo riempii di grappa assoluta e lo porsi alla povera inferma. Questa, senza alzare le palpebre, tirò giù un’enorme sorsata. La tizia fece una smorfia di dolore, raggiunse la finestra e vomitò pure l’anima sulla strada. In quel mentre, entrarono Jim e Iggy. 
«Come stai?» chiese Jim. 
«È stato lui» disse la tizia gorgogliando come un lavandino tappato. «Lui mi ha fatto bere.» E risvenne sul pavimento. 
Jim, incazzato nero, disse: 
«Ora vai via.» 
«Ma andate a cagare, va,» dissi io. 
Scesi le scale. La puzza d’incenso arrivava fin lì. Accesi una sigaretta e vidi il contatore della luce. Fu un attimo: tirai giù l’interruttore, estrassi un coltello che avevo in tasca e tagliai i fili. Le urla che venivano dal terrazzo mi fecero godere come un caimano. 
“Merda per me, merda per tutti,” pensai. 
Aprii il portone mentre una gloriosa soddisfazione mi scivolava nelle vene. Ma – come dicevamo – il destino non manca di senso dell’umorismo. Dopo pochi passi, inciampai nel vomito della tizia cadendoci sopra. Era una poltiglia rossastra e puzzolente. Fui costretto a farmi mezza Roma in quelle condizioni. 
“Domani,” pensai, “vado ad iscrivermi al corso di Jambé.”