giovedì 2 maggio 2013

Bomba atomica.

  Era il primo giorno di occupazione al Liceo. Io, Testa di Gomito e Il Riccio decidemmo di non partecipare alla riunione studentesca in palestra, ritenendo superflue – e forse anche noiose – le urla impegnate dei rappresentanti d’istituto. (Megafoni e slogan non erano nelle nostre corde, diciamo). E allora andammo al Todis e, acquistati due fiaschi di whiskey, prendemmo posto nel prato adiacente al Liceo. Ricordo che dimezzammo i recipienti a velocità supersonica. Com’era prevedibile, perdemmo ogni sorta di freno. Eravamo giovani, troppo giovani – mai prima di allora avevamo ingurgitato così tanto alcol in così poco tempo. 
Il primo ad impazzire fu Il Riccio. Gli occhi rossi e gonfi, i capelli pieni di fili d’erba, puntò le mani a terra e s’alzò con uno scatto; poi si rivolse a noi, tutto minaccioso: 
«Dove avete messo la mia borsa? Ladri!» disse. 
«Hey Riccio, guarda che ti pende dalle spalle» dissi io. E giuro che era la verità. 
«Robin, non prendermi per il culo, dimmi subito dov’è nascosta.» 
«Oh, ma vai a cagare, rincoglionito» disse Testa di Gomito. 
«LADRI!» urlò Il Riccio, e prese a correre veloce. Riuscii a seguirlo con lo sguardo fino alla stradina che portava al parco dell’asilo. Borsa a tracolla, correva zigzagando fra i pini altissimi. Sicché mi trovai solo con Testa di Gomito; e adesso anche lui, preso dal demone del whiskey di terz’ordine (due bottiglie le pagammo Lire 12.000), dava segni di follia. 
«Andiamo all’assemblea» disse. 
«Non mi pare una buona cosa». 
«Non preoccuparti Robin, stiamo benissimo» rispose Testa di Gomito, sorridendo. «Nessuno si accorgerà di nulla». 
Acconsentii. Ma quando ci alzammo fu tutto più difficoltoso, e dovemmo appoggiarci l’uno all’altro per arrivare alla palestra del Liceo, dove i rappresentanti d’istituto infuriavano in discorsi impegnati e incomprensibili. Li ascoltammo per un po’. 
«Che cazzate!» disse Testa di Gomito. 
Io tirai fuori il whiskey avanzato e chiesi al mio amico se ne voleva. 
«Dai qua!». 
Afferrò la bottiglia con il palmo e ingurgitò tutto fino all’ultima goccia. 
Quel che accadde dopo fu storico e inevitabile. Testa di Gomito iniziò ad emettere strani grugniti e rutti; girava su se stesso come una trottola sbilenca; di tanto in tanto accennava dei disgustosi conati di vomito. 
«Stai bene?» chiesi preoccupato. 
«Benissimo Robin». E cadde al suolo come un sacco. 
Gli sfilai la cartella e lo accovacciai sul muretto della scuola, dove, gli occhi socchiusi e ombrosi, cominciò ad urlare articolatissime bestemmie. Provai a fermarlo, tappandogli la bocca con la mano, ma accennò un altro conato e la ritrassi all’istante. Quella manovra aveva attirato l’attenzione di tutti i presenti, e soprattutto dei rappresentanti d’istituto, che (maledetti loro!) non tardarono ad avvertire i docenti. 
Venne il prof. di matematica. Era un omone alto, canuto, dall’aspetto stranamente giovanile. Le braccia gonfie facevano intuire l’immane forza dell’uomo. Si dimostrò subito comprensivo. 
«Come va, ragazzo» disse il prof., dolcemente. 
«CAZZO PROF., UNA BOMBA ATOMICA, UN COLLASSO, SONO IN UNA BOTTE DI FERRO.» 
«Ci sei caduto nella botte, ragazzo» rispose il prof.. 
Intervenni. 
«Ha mangiato qualcosa che gli ha fatto male» dissi. «Dev’essere stata la maionese, forse era guasta». 
«Capisco» rispose il prof., «anche tu hai mangiato lo stesso panino?» 
Abbassai vergognoso lo sguardo. 
«Sì». 
Il prof. afferrò di peso Testa di Gomito e se lo caricò sulle spalle, sicché prese la strada dell’ospedale, che era poco più su, dopo una ripida salita. Mentre lo trasportava (apparentemente senza fatica), io continuavo con la storia della maionese, ma lui scuoteva solo il capo come un sordo. 
Arrivammo così all’imbocco dell’ospedale. Il prof. fece un cenno con la mano ad un’ambulanza di passaggio. Gli addetti scesero lesti dalla vettura, montarono una barella e la posero dinanzi a noi. Il prof. abbassò la schiena e lanciò Testa di Gomito sul lettino. Ma qualcosa andò per il verso sbagliato, perché il mio amico – che poteva anche essere morto, tanto dormiva profondamente – fece una capriola su se stesso e cadde sbattendo il naso sull’asfalto duro e bollente. Svegliatosi di soprassalto, un fiume di sangue torbido dal naso, iniziò a bestemmiare e piangere. Gli addetti gli misero una flebo, lo caricarono sulla vettura e si diressero a sirene spiegate verso il pronto soccorso. Io e il prof. li seguimmo a piedi. 
Mi sedetti nella sala d’aspetto, che era pulita ed illuminata bene. Stavo quasi per prendere sonno, quando sentii una mano sulla fronte. Era il medico. 
«Hey ragazzo, vuoi anche tu una flebo?» 
«No, grazie» risposi, «sono a stomaco vuoto». 
Mentre ero impegnato in tali discorsi, entrò un’altra barella. E indovinate chi c’era sopra? 
«Hey Robin» urlò Il Riccio. Aveva metà testa fasciata con le bende. Sul viso, alcune chiazze di sangue raggrumato. 
«Amico, ma che fine avevi fatto?» 
Non ebbi risposta, perché gli infermieri lo inabissarono in uno stanzino azzurro, chiudendosi la porta alle spalle. Il medico mi spiegò che Il Riccio aveva battuto la testa su di un palo ed era svenuto. Alcuni bambini dell’asilo, durante l’ora della ricreazione, l’avevano trovato a ridosso di una siepe piena di spine, sicché erano corsi ad avvertire le rispettive maestre. 
«Sicuro che avete solo bevuto?» chiese il medico. 
«Sì». 
«E cosa? Plutonio?» 
«Whiskey da 6.000 Lire». 
«Mmmh, capisco... be’, siete davvero scarsi» disse il dottore, e sparì nei budelli interminabili del pronto soccorso.