lunedì 27 agosto 2012

Un attore enorme.

  Ho constatato che nella mia videoteca ci sono dieci polverosi VHS dell’agile John Holmes. Posso dirlo: sono un fruitore edonista: non ho mai permesso al mio senso del dovere di interferire in una passione così personale come l’acquisto di porno-materiale, né ho mai tentato due volte la fortuna con un attore ostico, e non ho mai acquistato VHS – meramente – a mucchi. Quella perseverata decina evidenzia, quindi, la continua visibilità di John Holmes. Solo in lui ho verificato un simile occultamento o invisibilità dello sforzo. Il semplice elogio non è illuminante, occorre qualcos’altro. Pare evidente che in John Holmes vi è qualcosa in più che non sia il semplice fanatismo meccanico: vi è un piacere disinteressato nello sdegno. Nei suoi film, oltre all’introduzione del pene, avvengono con naturalezza un’infinità di altri atti, alcuni (forse) deplorevoli. Si sommano sputi, insulti, calci, mani callose tirano i capelli, forzature, donne inguainate in reti da pesca, giocattoli inverosimili, nani, donne-uomini, uomini-donne e Dio sa cos’altro. In una parola: l’arte. Mi dispiace il fatto che in Europa come in America i suoi film siano passati in secondo piano. Molti produttori arrivano persino a negargli la primazia dell’accattivante genere. Essa, tuttavia, gli spetta.

martedì 21 agosto 2012

Issei Sagawa, il cannibale.

  L’incivile di questo paragrafo è il poliglotta Issei Sagawa, nefasto studioso che causò la morte di Reneé Hartevelt e che non accettò – disonorando la sua stirpe di Samurai – il destino di una gabbia, aiutato dal ricco industriale Akira Sagawa, suo padre. Tutti sappiamo che lo sguardo di un padre si abbatte sul figlio con candore e arbitrarietà. Eppure, alcuni, come lo storico Sagashi Hishima, sostengono che “Akira finì l’opera del figlio, poiché nulla rimane in loro dei Samurai”. Seguo la relazione dello stesso Hishima, ricalcando la minuziosa gloria del suo volume “Uomo mangia uomo”, cui la vasta diffusione tradusse in più di venti lingue. Issei Sagawa, infatuato dal grembo di alcune pellicole – serbatoio di icone plastiche prima, e poi (forse) di uomini –, ammise l’incantesimo delle ragazze occidentali. Per mesi, e forse anni, la sua attenzione librò dagli occhi nebbiosi, ai seni senza gravità, alle cosce sinusoidali e ai piedi minuti di una splendida Grace Kelly, la cui retina era sotto la perenne sorpresa di riflettori da pulpito. Nell’età che congeda l’adolescenza, sappiamo Issei Sagawa, esile nel corpo ma feroce nelle intenzioni, studioso in lingue presso l’università Sorbona. Nei languidi corridoi di Parigi già germogliava in lui l’orrore. Sinistre dichiarazioni condiscono le interviste postume al delitto: «Volevo assaggiare le ragazze occidentali». La metafora è da escludere. Issei Sagawa, al secondo anno di corso, invita nella sua tenuta la giovane e avvenente Reneé Hartevelt; la prega di interpretare alcune poesie di stile ermetico, e finisce che ben sette chili di Reneé vengono divorati dalle abominevoli fauci giapponesi. Issei Sagawa fu perfetto nel delitto, ma fallì nel nascondiglio. Il Commissario Grandét (lo stesso del caso Rumskin) gli bloccò i polsi. Al processo, una giuria compiacente allo Yen lo dichiarò incapace di intendere, quindi pazzo, quindi, seppur parzialmente, non colpevole. Gli fu detto di tornare in Giappone. Issei e Akira attraversarono l’oceano in una vertigine di felicità o sdegno. Ad Hiroshima, città che diede i natali al cannibale, Issei s’impegnò nella scrittura di racconti, saggi, biografie. Il Giappone del futuro lo acclamò come personaggio di spicco (i libri ebbero tiratura elevatissima); ma quello delle tradizioni lo ripudiò. Un mattino, Issei Sagawa ricevette una lettera che lo invitava al suicidio. Gli antichi convenevoli, la scrittura larga e sinuosa, la morbidezza della forma, fecero intuire al cannibale che quella era la penna di un Samurai. Issei lacerò la carta inchiostrata con furore o spavento. Mai il pensiero del suicidio lo attraversò, ma le preoccupazioni lo avvolsero. Sognava ventri aperti; il riflesso della finestra era quello della spada; lo sconosciuto era il giustiziere; il fruscio delle foglie era lo scivolare segreto del Samurai; egli stesso dovette considerarsi braccato, e non più carnefice. Quando morì per un colpo al cuore, Akira ne trovò il corpo sdraiato sul tappeto. La mano puntava la scrivania. Sulla scrivania, il coltello antico per l’harakiri, che il cannibale non riuscì a raggiungere.

mercoledì 8 agosto 2012

Io sono Atos.

  L’arroganza della calura incollava la camicia all’epidermide; ad Alloccopolis il mercurio stazionava impietosamente intorno ai trentotto gradi. Ero indeciso se ingurgitare un GinPiscio (saporito, ma acido e tiepido) o un GastroRum alla banana (ghiacciato, ma insipido). Il barista attendeva ticchettando il polpastrello del pollice sul gomito e ci scambiavamo sguardi da scimmia. Ero in quella magia quando l’Animalista mi salutò mostrando il palmo inespressivo. Lo guardai; aveva un aspetto quasi antico, e il fisico dava la sgradevole sensazione di essere privo dello scheletro. Mentre ci accarezzavamo con vani convenevoli m’accorsi del cane che teneva al guinzaglio. Debbo l’incolpevole svista all’unione di un grumo sinistro di coincidenze: l’occhio grigio e ipnotico dell’Animalista, l’indomata barba rettangolare, l’indecisione della bibita, il caldo afoso, una macchia di sugo a forma di stella sulla camicia, gli occhiali da saldatore che indossavo. Inoltre: la stazza microscopica dell’animale. (Il fatto che si chiamasse Atos mi pareva un abuso ludico dell’arte combinatoria.) L’Animalista – ad un certo punto era inevitabile – iniziò a tessere le lodi di Atos. Lo dipinse con tratti di inestricabile maestosità. In quei minuti un’enorme ragnatela di aggettivi mi avvolse, affliggendomi. Calmo, educato, ubbidiente, amorevole, quasi umano ne sono solo alcuni esempi. Poi il cane si voltò con uno scatto verso la vetrina; fu in quel momento che lo scoprii eunuco. L’Animalista, in un impeto d’amore, aveva privato Atos della prole segreta del futuro. Ebbi un principio di febbre; ordinai una gassosa; pagai con una banconota ed ebbi in cambio pochi centesimi (i bar di Alloccopolis sono ingiustificatamente dispendiosi, il povero Robin cercò di dipanarne il mistero con la stesura di diversi saggi [N. d. E.].) Salutai l’Animalista con una tenace distrazione, simile allo sdegno. Oltrepassato l’uscio provai la strada che conduce alla biblioteca, ma un’onda di calore mi naufragò nell’unico quadrato d’ombra che vidi. Lì, sotto la frescura, il vento mi gonfiò la camicia come una vela. Atos, pensai, non è calmo, né educato, e nemmeno ubbidiente; Atos mi somiglia: è un depresso.

giovedì 2 agosto 2012

Il genio inesperto.

  C’è un concetto che mortifica e corrompe tutti gli altri. Non parlo dell’infinito, i cui limiti sono quelli della dialettica; parlo delle donne. Più di una volta ho desiderato – senza successo – di capirne le dinamiche. Eppure, la vista di una donna, anche di quella più insignificante o laida, equivale a quella della Gorgone (mostro con capelli di serpente dall’urlo pauroso) incontrata nei corridoi nebbiosi dell’incubo. Cercai altresì aiuto nel metodo empirico: munito di taccuino e matita, annotai con zelo ogni compiacenza o disappunto. Il mio proposito era quello di registrare certe reincarnazioni di un’antica leggenda, che non omette il simbolismo. Sarò breve: un uomo trova una lampada; la sfrega e, in un turbinio di vapori, spunta un genio persiano. Il primo desiderio, quello d’esser ricco, gli viene esaudito; il secondo, quello d’essere bellissimo, anche; per il terzo vi è qualche difficoltà. L’uomo chiede al genio di edificare una strada senza principio né fine che colleghi, in una vertigine di ragnatele, tutti i luoghi del globo. Il genio (evidentemente era un genio di primo pelo) chiede all’uomo di esprimere un desiderio meno laborioso, poiché per quello della strada infinita occorre, dice, un’esperienza millenaria. L’uomo, giudicando incolpevole l’impreparazione, formula il desiderio di riserva: quello di voler capire le donne. Il genio, atterrito, prende compasso e squadra e inizia il progetto dell’edificazione astrusa; quello, cioè, dell’iperbolica strada infinita. Nulla, dunque, gli pare più complesso. Il problema, come si vede, è sempre lo stesso. Alcuni dicono che al genio non basterebbe un praticantato di milioni di anni per esaudire tale desiderio. A me piace pensarla diversamente. Mi convinco che lo sbroglio del paradosso sia proprio nella sua semplicità. A mio parere, la ridondanza di taluni epiteti (sei una donna-amazzone, sei una femmina-sogno eccetera), oppure di taluni climax (ti voglio, ti voglio, ti voglio) basterebbero per chiudere, seppur parzialmente, le fauci femminili. A volte basta la cinica ripetizione del . (Per far prima, taluni lo pronunziano con eccessiva solerzia. «Caro, potresti...», «Sì», oppure, «Caro, non è che..», «Sì», o ancor peggio, «Caro, oggi sono stata da Mandingo...», «Sì, cara, va bene»). Analogo, ma ancora più allarmante, è il caso dell’uomo che, come direbbe il metempirico Kafka, si vive accanto. Questa condizione segna una metamorfosi: quella da uomo a – definizione che tanto piace ad alcuni registi di Hollywood – Yesman. Costoro vivono (o meglio, non vivono) nell’incubo, permettendosi di essere solo nel tempo che spazia le loro affermazioni (tempo, fra le altre cose, brevissimo). «La donna più grande», scrive l’attento Novalis «è quella che si rende invisibile, pur dimostrando la propria autonomia». Di nuovo, dissento. Io la donna l’immagino resistente, misteriosa, visibile e stabile nel tempo; pur ammettendo nella sua architettura tenui ed assidui interstizi di assurdità.