giovedì 2 agosto 2012

Il genio inesperto.

  C’è un concetto che mortifica e corrompe tutti gli altri. Non parlo dell’infinito, i cui limiti sono quelli della dialettica; parlo delle donne. Più di una volta ho desiderato – senza successo – di capirne le dinamiche. Eppure, la vista di una donna, anche di quella più insignificante o laida, equivale a quella della Gorgone (mostro con capelli di serpente dall’urlo pauroso) incontrata nei corridoi nebbiosi dell’incubo. Cercai altresì aiuto nel metodo empirico: munito di taccuino e matita, annotai con zelo ogni compiacenza o disappunto. Il mio proposito era quello di registrare certe reincarnazioni di un’antica leggenda, che non omette il simbolismo. Sarò breve: un uomo trova una lampada; la sfrega e, in un turbinio di vapori, spunta un genio persiano. Il primo desiderio, quello d’esser ricco, gli viene esaudito; il secondo, quello d’essere bellissimo, anche; per il terzo vi è qualche difficoltà. L’uomo chiede al genio di edificare una strada senza principio né fine che colleghi, in una vertigine di ragnatele, tutti i luoghi del globo. Il genio (evidentemente era un genio di primo pelo) chiede all’uomo di esprimere un desiderio meno laborioso, poiché per quello della strada infinita occorre, dice, un’esperienza millenaria. L’uomo, giudicando incolpevole l’impreparazione, formula il desiderio di riserva: quello di voler capire le donne. Il genio, atterrito, prende compasso e squadra e inizia il progetto dell’edificazione astrusa; quello, cioè, dell’iperbolica strada infinita. Nulla, dunque, gli pare più complesso. Il problema, come si vede, è sempre lo stesso. Alcuni dicono che al genio non basterebbe un praticantato di milioni di anni per esaudire tale desiderio. A me piace pensarla diversamente. Mi convinco che lo sbroglio del paradosso sia proprio nella sua semplicità. A mio parere, la ridondanza di taluni epiteti (sei una donna-amazzone, sei una femmina-sogno eccetera), oppure di taluni climax (ti voglio, ti voglio, ti voglio) basterebbero per chiudere, seppur parzialmente, le fauci femminili. A volte basta la cinica ripetizione del . (Per far prima, taluni lo pronunziano con eccessiva solerzia. «Caro, potresti...», «Sì», oppure, «Caro, non è che..», «Sì», o ancor peggio, «Caro, oggi sono stata da Mandingo...», «Sì, cara, va bene»). Analogo, ma ancora più allarmante, è il caso dell’uomo che, come direbbe il metempirico Kafka, si vive accanto. Questa condizione segna una metamorfosi: quella da uomo a – definizione che tanto piace ad alcuni registi di Hollywood – Yesman. Costoro vivono (o meglio, non vivono) nell’incubo, permettendosi di essere solo nel tempo che spazia le loro affermazioni (tempo, fra le altre cose, brevissimo). «La donna più grande», scrive l’attento Novalis «è quella che si rende invisibile, pur dimostrando la propria autonomia». Di nuovo, dissento. Io la donna l’immagino resistente, misteriosa, visibile e stabile nel tempo; pur ammettendo nella sua architettura tenui ed assidui interstizi di assurdità.

Nessun commento:

Posta un commento