martedì 21 agosto 2012

Issei Sagawa, il cannibale.

  L’incivile di questo paragrafo è il poliglotta Issei Sagawa, nefasto studioso che causò la morte di Reneé Hartevelt e che non accettò – disonorando la sua stirpe di Samurai – il destino di una gabbia, aiutato dal ricco industriale Akira Sagawa, suo padre. Tutti sappiamo che lo sguardo di un padre si abbatte sul figlio con candore e arbitrarietà. Eppure, alcuni, come lo storico Sagashi Hishima, sostengono che “Akira finì l’opera del figlio, poiché nulla rimane in loro dei Samurai”. Seguo la relazione dello stesso Hishima, ricalcando la minuziosa gloria del suo volume “Uomo mangia uomo”, cui la vasta diffusione tradusse in più di venti lingue. Issei Sagawa, infatuato dal grembo di alcune pellicole – serbatoio di icone plastiche prima, e poi (forse) di uomini –, ammise l’incantesimo delle ragazze occidentali. Per mesi, e forse anni, la sua attenzione librò dagli occhi nebbiosi, ai seni senza gravità, alle cosce sinusoidali e ai piedi minuti di una splendida Grace Kelly, la cui retina era sotto la perenne sorpresa di riflettori da pulpito. Nell’età che congeda l’adolescenza, sappiamo Issei Sagawa, esile nel corpo ma feroce nelle intenzioni, studioso in lingue presso l’università Sorbona. Nei languidi corridoi di Parigi già germogliava in lui l’orrore. Sinistre dichiarazioni condiscono le interviste postume al delitto: «Volevo assaggiare le ragazze occidentali». La metafora è da escludere. Issei Sagawa, al secondo anno di corso, invita nella sua tenuta la giovane e avvenente Reneé Hartevelt; la prega di interpretare alcune poesie di stile ermetico, e finisce che ben sette chili di Reneé vengono divorati dalle abominevoli fauci giapponesi. Issei Sagawa fu perfetto nel delitto, ma fallì nel nascondiglio. Il Commissario Grandét (lo stesso del caso Rumskin) gli bloccò i polsi. Al processo, una giuria compiacente allo Yen lo dichiarò incapace di intendere, quindi pazzo, quindi, seppur parzialmente, non colpevole. Gli fu detto di tornare in Giappone. Issei e Akira attraversarono l’oceano in una vertigine di felicità o sdegno. Ad Hiroshima, città che diede i natali al cannibale, Issei s’impegnò nella scrittura di racconti, saggi, biografie. Il Giappone del futuro lo acclamò come personaggio di spicco (i libri ebbero tiratura elevatissima); ma quello delle tradizioni lo ripudiò. Un mattino, Issei Sagawa ricevette una lettera che lo invitava al suicidio. Gli antichi convenevoli, la scrittura larga e sinuosa, la morbidezza della forma, fecero intuire al cannibale che quella era la penna di un Samurai. Issei lacerò la carta inchiostrata con furore o spavento. Mai il pensiero del suicidio lo attraversò, ma le preoccupazioni lo avvolsero. Sognava ventri aperti; il riflesso della finestra era quello della spada; lo sconosciuto era il giustiziere; il fruscio delle foglie era lo scivolare segreto del Samurai; egli stesso dovette considerarsi braccato, e non più carnefice. Quando morì per un colpo al cuore, Akira ne trovò il corpo sdraiato sul tappeto. La mano puntava la scrivania. Sulla scrivania, il coltello antico per l’harakiri, che il cannibale non riuscì a raggiungere.

1 commento:

  1. Questa volta non mi hai fatto ridere...non c'era il mio mito per eccellenza:NONNA GILDA...ma questo personaggio crudo e macabro, le varie descrizioni, per esempio quella sulla passione per GRACE KELLY,hanno reso (secondo me)questo pezzo molto bello!!! grande Roby!!

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