giovedì 26 gennaio 2012

Scipione l’africano.


  Poi presi casa con Sgum, che aveva difficoltà anche a vestirsi. Provò a dare il primo esame dopo due anni d’università. Un esame di storia. Per un mese, in maniera incessante, vagava per l’appartamento con l’esile volume sottobraccio. Ripeteva ad alta voce frasi imparate a memoria, a volte in modo sconnesso e casuale. A dieci giorni dall’esame, parlava solo per citazioni. Ero in bagno e sentii bussare. «Chi è?» chiesi. «Perché Scipione l’africano, nella famosa guerra di...», e troncò lì, senza aggiungere altri particolari. A volte apriva il volume a caso, puntava il dito sulla pagina e, ad occhi chiusi, gridava: «So tutto a memoria». Un attimo di pausa, poi riattaccava: «Perché Scipione l’africano, nella famosa guerra di...”, e andava avanti così tutto il giorno. «Sgum, mi passi il formaggio?», «Perché Scipione l’africano...», oppure, «Hai del dentifricio?», «Perché Scipione l’africano...», e così via. La mattina dell’esame lo vestii casual, con camicia e giacchetta di lino. Sembrava convinto di sé. Il libro gli pendeva dalle mani. Dissi: «Vai Sgum, faglielo vedere chi sei, io ti farò il tifo da casa», «Perché Scipione l’africano...». Lo guardai perplesso mentre lo vedevo allontanarsi sul pianerottolo. Presi a sedermi sul divano, ascoltai un vecchio disco fumando una sigaretta. 
  Sgum tornò prestissimo, lo sguardo ne tradiva la delusione. «Com’è andata?», chiesi. «Robin, quando il prof mi ha chiamato io subito ho preso posto sulla sedia.» Non capivo dove volesse arrivare. «E allora?», «Allora quello mi ha chiesto cosa portavo, io gli ho fatto vedere il libro e gli ho detto ‘Questo, porto questo’» «E lui?», «E lui mi ha chiesto dove fossero gli altri due volumi, ma io sapevo solo di quello su Scipione l’africano, e allora il prof mi ha indicato l’uscita con un ampio gesto della mano, sicché io mi alzo dalla sedia e saluto cordialmente tutto lo staff universitario». Aveva la giacchetta sulle ginocchia e lo sguardo pensoso. Cercai di consolarlo. «Dai Sgum, non ti preoccupare, lo rifarai la prossima sessione, non stare lì ad affliggerti.» Quello alzò gli occhi e disse: «No, ho chiuso, basta con l’università», «Perché dici questo?», «Perché Scipio...». Non gli feci finire la frase. Lo colpii ripetutamente al volto, lui cadde a terra e iniziai con i calci. 
  Sgum lasciò l’università poco dopo. Mentre faceva le valigie si ripeteva che la fortuna sarebbe arrivata, velocemente e in grandi dosi, nel mondo del lavoro. Ora lo si può incontrare la mattina presto. Solo ma allegro, Sgum guida un camioncino con una grossa cisterna a rimorchio. Il camion che lo precede carica il pattume, poi lui passa ad igienizzare con una pompa. In punta di piedi lancia i detergenti e i profumanti nell’orribile contenitore. A volte si ferma e rimane per un po’ a fissare il cassonetto dell’immondizia svuotato, igienizzato e profumato. Un sussulto automatico prende ad animarlo. Spalanca la bocca, poi urla: «Perché Scipione l’africano...».

martedì 24 gennaio 2012

Darwin e la merda di cane.

  Odio gli animalisti, più dei vegetariani. Non li sopporto, è più forte di me. L’ultimo che incontrai attaccò una lagna triste sull’ambiente e su qualche animale tropicale. Mentre quello parlava, avrei soffocato a mani nude l’ultimo panda sulla terra, solo per avere il gusto di privarlo dell’argomento che ostentava da ore. In un’altra occasione ebbi modo di vedere il peggio. Una signora, ben vestita, con tacchi e pellicciotto, aveva al guinzaglio un cane enorme. La bestia era a forma di tubo e aveva il pelo lungo e grigio. In perfetto stile troia, si faceva guidare dagli strattoni del cane, ostentando la scollatura molto bassa. Ebbi un’erezione: la donna, tutta in tiro, non mi dispiaceva. Poi il cane si mise a cacare, mostrandomi il suo buco di culo enorme e disgustoso. La signora, nel frattempo, parlava al telefono e fumava sigarette slim. Il cane finì di liberarsi completamente del peso e io rimasi a guardare la montagna di feci. Partendo da una base larga, la merda finiva poi in una punta penzolante, alzandosi di qualche centimetro. Riuscii a sentirne la puzza. Anche la padrona abbassò lo sguardo verso gli escrementi. 
«Bravo Rocky, l’hai fatta tutta? Così, da bravo,» disse la bella signora. 
Poi prese un guanto ed una bustina trasparente e iniziò a togliere la merda dalla strada. Trasalii di fronte quell’orrore. L’erezione scomparve istantaneamente. Presi a vergognarmi per tutti gli uomini, per l’intero genere umano. Centinaia di migliaia di anni buttati al vento. Tutta la nostra evoluzione, dall’Austrolopithecus afarensis per arrivare al moderno Homo sapiens sapiens, portava irrimediabilmente a questo: raccogliere la merda dei nostri cani per strada, con bustina e guanti. La bella signora, prima avvenente e provocatoria, era adesso solo una raccoglitrice di feci. Pensai al cane come al padrone. Vidi la signora costretta ad occuparsi di merda a vita, tutta triste, con tacchi e pellicciotto. 
Dopo quell’incontro il mio odio per gli animalisti si estese anche ai cani. Quando potevo li picchiavo, mosso dal desiderio di dominio razziale. Non volevo permettere alla loro specie di prendere il sopravvento. 
Una mattina ero al parco con Macho, mio vecchio e voluttuoso compagno. Nella passeggiata incontrammo un’altra amica che aveva un cucciolo. Precedendo la giovane padrona, il bastardino corse verso di noi. Pareva felice e con un agile scattò frenò ai miei piedi, sicché alzò la zampetta e mi pisciò sulle scarpe. Vidi tutto nero; era una sfida. Il cane voleva dimostrare che la sua specie era pronta a prendere il sopravvento su quella degli esseri umani. Non bastava più pulirgli il culo, ora anche il piscio. L’umanità venne umiliata e rispose con violenza. Assestai un bel calcio al cucciolo. Quello volò in aria e cadde sul prato tracciando una traiettoria obliqua. Litigai con Macho e l’altra nostra amica, che delle mie tesi evoluzioniste se ne infischiarono. Ero nemico dei cani, punto e basta. 
Dopo qualche mese dovetti trasferirmi a Bologna per lavoro. Fu nei primi giorni che venni a conoscenza dei MerdaBusters. In quella città, fredda ed umida, la situazione dell’uomo mi parve disperata: a raccogliere i maleodoranti rifiuti biologici dei cani non c’erano solo i padroni degli stessi, ma qualcuno che lo faceva addirittura di mestiere. In moto, con le sirene che giravano raggianti, i MerdaBusters raccoglievano gli escrementi, aiutati da un’enorme aspirapolvere che portavano legato alle spalle. Vidi l’uomo senza via d’uscita. Come un tumore, la supremazia dei cani aveva coinvolto l’intero organismo bolognese. L’inferiorità della mia razza era lì non solo provata, ma addirittura ostentata. Un’intera flotta di uomini si occupava della pulizia da merda di cane. Il mio odio nei confronti dell’animale nemico cresceva sempre più. 
Il massimo fu quando trovai una stanza in via Petroni. Avevo come coinquilini una giovane ragazza e il suo cane Snork. Lei mi spiegò del suo essere animalista, vegetariana, macrobiotica e tutto il resto. Di nuovo volli uccidere un ultimo esemplare di qualsiasi specie. Capii che Snork aveva ormai il completo controllo sulla ragazza, che accorreva a qualsiasi suo bisogno. Gli dava da mangiare, lo abbeverava, lo puliva con un prodotto costoso e, ovviamente, raccoglieva la merda quando cacava per strada. 
Le cose andarono bene per un qualche tempo, poi i rapporti fra me e Snork presero ad inclinarsi. La sua spiccata intelligenza lo aveva condotto lungo la strada che apre il frigo, dove saccheggiava la mia spesa, lasciando intatta quella della padrona. Solo le birre non riusciva a prendere. Stappare è evidentemente una cosa da uomini. 
“Grazie a Dio non ha la mano prensile,” pensavo. 
Iniziai a fare delle ronde notturne a salvaguardia delle cibarie. Guardavo il frigo per ore. Poi, preso dal sonno, svenivo sulla sedia. Al mio risveglio Snork aveva completato per intero la sua opera infame. Tentai di farmi capire meglio, a suo modo. Pisciai sugli angoli del frigo per marcare il territorio, ma neanche questo servì a qualcosa. Castrato, lasciato per ore davanti ad un televisore in una stanzetta piena di fumo di sigarette (il tutto per mano di un’accanita animalista), Snork pareva volesse vendicarsi sulla mia pelle per tutte le ingiustizie subite nei secoli dei secoli. 
Una sera, dopo la palestra, sbavavo all’idea delle fettuccine che mi aspettavano pronte in frigo. Avevo davvero fame. Una volta a casa trovai però il frigo aperto. Snork era sdraiato a terra con la pancia all’insù. Le fettuccine erano sparite. Sicché andai su tutte le furie e arrivammo allo scontro fisico. Io davo calci e lui provava a mordermi il braccio. Come l’uomo di Cro-Magnon, ripercorsi la storia evolutiva del genere umano, e mi ritrovai a combattere per il territorio con una bestia. Riuscii a chiuderlo in un angolo; lo colpii sui fianchi e sul musetto con la suola dei mocassini. Snork guaiva piangendo. Stavo per buttarlo dalla finestra, quando rientrò a casa la padrona animalista. Vide la scena e per poco non svenne. Venni cacciato di casa per direttissima. Mi ritrovai senza domicilio all’improvviso. Presi ad odiare Snork: aveva vinto. Il territorio era suo. I cani, per quella volta, avevano avuto la meglio.

Caffè Sport Borghetti 2000.

  Non berrò mai più il Caffè Sport Borghetti Duemila, liquore di vero caffè espresso. Oltre la scimmia, infatti, la saporita bibita genera in me uno stato profondo di agitazione, un’ansia incontrollabile. Peggio ricordo solo il VOV, liquore al tuorlo d’uovo (ne bevvi una bottiglia intera e vomitai i pulcini). Se solo provo ad avvicinare il Borghetti alle narici vengo preso dalla nausea, cui segue il ricordo di un capodanno. 
Eravamo a festeggiare in un casolare di campagna. C’eravamo tutti. Mandingo ballava e rideva; Cicco suonava il basso e rideva anche lui. Poi c’eravamo io e Testa di Gomito che, in maniera rumorosa, ci contendevamo il Borghetti giocando alla morra. «DUE, SEI, SETTEMBRE, TREMA DI ME» e giù a bere fiumi di Caffè Sport. Finì una bottiglia, poi un’altra. 
Ed ecco: l’ansia. 
La caffeina iniziò a circolarmi nelle vene unendosi all’alcol. Tutto ciò provocò in me uno stato di ansia schizofrenica. Mi sentii male e volli andarmene. Testa di Gomito, anche lui esaurito dal liquore, si offrì di accompagnarmi con la macchina. Partì sgommando a 200 km/h. (Non di rado la sera, prima di coricarmi, sono solito stendere dei ceci a terra, inginocchiarmi, quindi pregare Dio-Nostro-Signore per non esserci schiantati come due polpette). 
Arrivammo quindi davanti casa. L’ansia della caffeina lavorava frenetica il mio sistema nervoso centrale. Percorsi il vialetto, arrivai dinanzi l’uscio, presi le chiavi e inavvertitamente schiacciai il pulsante che azionava l’allarme. La potente sirena finì per disintegrare l’ultimo barlume di calma nel mio animo. Preso dal panico, attanagliato dalla paura dei ladri (ovviamente immaginari), ruppi il vetro che dà sulla sala. Entrai dalla finestra rotta, caddi sull’albero di Natale, l’albero di Natale cadde sulla cristalliera di mio padre, la cristalliera franò e finì per rompere il tavolo, anch’esso di un bel cristallo di Murano. A terra, un numero incalcolabile di Swarowsky rotti. 
Sicché mi ritrovai con casa distrutta senza capirci una mazza. Tutto era successo in trenta secondi. Notai che perdevo sangue. Ammirai il mio capolavoro. Testa di Gomito scuoteva la testa come un ebete. 
«E mo?» chiesi. «’Ngulo che casino!» 
«Cazza tu,» rispose Testa di Gomito. E andò via. Ero in bel guaio, e adesso ero anche solo. 
Decisi di giocare d’anticipo: alzai la cornetta e chiamai il Babbo. 
«Dimm’ Robin, auguri.» 
«O pa’, sint’, ecc’ cià stat’ li ladri, ma n’n t’ preoccupare, ca li sò cacciat’ j’.» 
«Ma tà fatt’ mal’, ti fatt’ dol?» chiese premuroso. 
Ero alle corde; attingevo le ultime forze. 
«O pa’, ca i sò dat’ ’na frac di botte, statt’ tranquillo.» 
«ARRIVO SUBITO!» urlò il Babbo. E riattaccò il ricevitore. 
“MERDA!” pensai. 
Caddi nella disperazione più nera. Mio padre si sarebbe accorto sicuramente della sbornia. Che fare? Mi sedetti sulle scale. Le mani insanguinate coprivano il volto sfatto. Cercai un rimedio aspettando l’arrivo dei miei. Pensa che ti pensa, m’addormentai così, in quella posa plastica, sdraiato sulle scale come un clochard
Quando mio padre mi svegliò, lo guardai e le uniche parole che mi vennero fuori furono: 
«CAFFÈ SPORT BORGHETTI DUEMILA, LI SÒ CIS LI LADR’ PAPÀ.» 
Com’era prevedibile, mio padre mi massacrò con i calci e con i pugni. Alla fine usò anche la cinta. Fu una notte terribile. 
Il mattino seguente, dopo una nauseante colazione e quattro o cinque cazzotti avanzati dalla sera prima, mi venne presentato il conto: un milione del vecchio conio. L’estate seguente andai a fare il carpentiere per ripagare i danni. Rimborsai fino all’ultimo centesimo. Il Borghetti mi uccide.

Io e Peppe.

  Pomeriggio tardi. Roma. Peppe aprì l’angusto frigo di casa. Uno spicchio di cipolla ormai verde traballava solitario. Negli stipi, vicino le uova atomiche, due dita di prosecco lo scrutavano da una bottiglia tappata con il cucchiaino. Tirò giù un sorso, un altro, e sputò all’istante l’orribile liquido sul pavimento. Guardò preoccupato l’orologio. Ormai si avvicinava sera e bisognava organizzarsi per il week end romano. 
«ROBIN,» urlò svegliandomi, «N’N C’ STÀ NU CAZZ’ DA BEV’, ALLARME ROSSO COMPÀ.» 
«CODICE BLU, PEPPE,» risposi alzando anch’io la voce. 
Sicché andammo al supermercato vicino casa, dritti dritti al settore alcolici. Non avevo voglia di sfondarmi e provai qualche scusa. Peppe era però incontenibile. 
«Peppe, che dici, un fragolino?» 
«Mmmh, bah.» 
«’Na birretta allora, ’na bella biretta fresca. Non ci sta male.» 
«E che ci fai?» 
Aveva lo sguardo puntato sui mocassini rossi. Tirò via la mano dalla tasca e s’accarezzò i radi capelli bruni, perfezionando così l’ottimo riporto. Si vedeva che era concentrato. 
«Robin, qua c’ vò la Vodka, no li chiachr’,» sentenziò. 
E vodka fu. 
Prendemmo due bocce e tornammo nel nostro seminterrato stretto e muffoso (non a caso Peppe era solito chiamarlo bat caverna). I recipienti vennero vuotati a velocità record. Ci dilettammo poi un’oretta al gioco dello Striscia. Io presi l’Uniposca e tracciai una spessa linea nera a terra, sul linoleum azzurro del pavimento. Facemmo la conta e a Peppe uscì di fare il poliziotto. Toccò a me camminare sulla striscia. Peppe minacciava il ritiro della patente. Era tutto molto ludico e spassoso. Alla fine, in questura (che poi era il cesso) firmai un documento e m’allontanai. Decidemmo che s’era fatto tardi e uscimmo. 
Peppe prese lo scooter e partimmo alla volta della Prenestina, dritti verso lo Strike, famoso localino techno della capitale. Arrivammo quindi davanti i cancelli, ma non trovammo nessuno ad aprirci. Lo sconforto quasi ci divorava. Stavamo quasi per andare via, poi una coppietta s’avvicinò all’entrata. La tizia prese il cellulare e chiamò qualcuno. Subito dopo arrivò un signore alto ad aprire i cancelli. Ci imbucammo anche noi. 
«Una festa privata Robin, e vai!» mi sussurrò Peppe vicino l’orecchio. 
La prima piacevole sorpresa fu l’Open Bar, che tradotto vuol dire bicchieri gratis. Ci ritrovammo così in breve tempo dall’altra parte del bancone, a preparare cocktail improbabili per noi e per tutti. Ci divertimmo molto a fingerci barman. Fummo impeccabili. Il tempo passava veloce e la musica assordante m’induriva i timpani. Insomma, tutto andava per il meglio. Poi s’avvicinò questo tizio, aveva i peli fuori la camicia e gli occhi dispari. Il mio amico gli chiese gentilmente l’ordinazione. 
«’Na spina pe’ favore, a zì.»  
Preparò la bibita con zelo e gliela porse davanti. Fu in quell’attimo che successe l’imprevedibile. 
«Quant’è?» chiese il tizio tirando via il borsello dalla giacca. 
Peppe mi guardò dritto negli occhi, poi guardò quello e poi di nuovo me. Si vedeva che era concentrato. 
«Quattro euri per te compà.» 
Il tizio sborsò il denaro e sparì nella calca. Quello divenne il nuovo sport. 
«Un whiskey, a zì.» 
«Arriva.» 
«Vodka tonic, bello.» 
«Pronti!» 
Facemmo un bel gruzzolo in poco tempo, qualcosa però andò storto. Si avvicinarono tre tizi con l’aria minacciosa. Uno di quelli gonfiò il petto e ci raggiunse dietro il bancone. 
«CHI SIETE?» urlò. 
«Lui è il festeggiato,» rispose Peppe indicandomi. 
«IO SÓ ER FESTEGGIATO,» fece il più grosso e incazzato dei tre. 
I minuti che seguirono furono terribili. Ci massacrarono con i pugni e con i calci. Sputavano anche. Ricordo un unico groviglio di dolore e umiliazione. Sembrava di volare con tutti quei calci in culo. Non so per quanto tempo andammo avanti in quel modo. Quel che è certo è che ci svuotarono le tasche e i sudati guadagni andarono in fumo. Alla fine ci lanciarono fuori lo Strike su un’enorme una pozzanghera di piscio. Non era più il caso di andare in giro e ci avviammo verso lo scooter. Camminavamo a fatica. Il corpo sembrava privo delle ossa e puzzavamo di vomito. Siccome non bastava, iniziammo a litigare fra noi. 
«Guido io Peppe, che tu stai mozzo.» 
«No, il motorino è mio, guido io.» 
«Tu ci fai schiantare, smettila, guido io.» 
«Lu muturin’ aè lu mì, se t va bone se no arvattn a pit,» disse incazzato. 
Lo mandai a fare in culo e mi diressi verso la fermata del notturno. Mi sedetti sulla panchina e aspettai l’autobus. Faceva anche molto freddo. “’Ngul a mammete Giusè,” pensai. Dopo 10 minuti vidi un’ombra correre verso di me. Lo riconobbi, era uno dei tre dei calci in culo. Si avvicinò ansimando. 
«Aò, viettè a ripjà l’amico tuo.» 
Tornai indietro. Quel che vidi fu assurdo. Circondato da una folla ben vestita, ad una decina di metri dalla partenza, Peppe s’era spalmato a terra e, col motorino ancora acceso, continuava ad accelerare imperterrito. La ruota girava vorticosamente a vuoto; dalla marmitta veniva un fumo bianco che sapeva di bruciato. Toccai Peppe con la suola della scarpa. Luì azionò il freno e disse: «Sali Robin, sali, dai guidi tu.» Non rimaneva molto da fare. Alzai lo scooter da terra, caricai il corpo del mio amico sullo scooter e partii. Nel tragitto Peppe dormiva poggiando il casco sulla mia spalla poggiata. Dovetti portarlo come un sacco fino alla bat caverna. Lo accomodai nel letto e gli rimboccai le coperte. Lui si svegliò di soprassalto. 
«Robin, la festa? Coma à it a finì?» chiese. 
«Ci hanno cacciato a calci in culo Peppe.» 
«BASTARDI MALEDUCATI!» 
Poi collassò per sempre sul cuscino. Anch’io ero provato, mi sdraiai sul divano, chiusi gli occhi e presi sonno.

lunedì 23 gennaio 2012

Flora e fauna milanesi.

  In effetti, l’unico ricordo candido che ho di Milano è un ambulante che canta o mia bella madunnina mentre vende marroni a peso-platino sotto l’ombra di una via centrale. Il sole spaccava in due la piazza e io cercavo di allacciare qualsivoglia rapporto con gli autoctoni. Dispensavo svariati buongiorno e buonasera ovunque andassi (sguardo dritto, schiena retta e leggere intonazioni sibilanti sulle vocali a mostrare totale disponibilità), senza però raggiungere grandi risultati. Capii dopo un paio di settimane che Milano somiglia molto ad un enorme zoo-city. E allora presi tutto ciò che può servire nella rischiosa esplorazione di un simile posto: un paio di scarpe molto robuste (utili contro i morsi dei seguaci leghisti, cui piace strisciare a terra sentendosi tutt’uno con il terreno amato) e una bussola, indispensabile nelle ore notturne quando i mezzi pubblici vengono meno. (Un giovane tassista spiega l’assenza dei mezzi notturni in maniera sinistra. «Qui si lavora il giorno e la notte si riposa.» Da ciò il cattivo sapore del pane locale, che non potendo essere lavorato nottetempo, acquista la tipica consistenza gommosa e l’impossibile digeribilità.) Quindi presi anche un coltello a doppia lama con seghetto, una borraccia stracolma di Gin Piscio e una pillola che provoca la morte in pochi minuti. 
  Iniziai a risalire via Manzoni e mentre tiravo giù un sorso di GinPiscio sentii dietro di me una voce rauca gridare: «Terrùn». E allora mi voltai e vidi un branco di ragazzini emo. Erano vestiti come barbie e hanno l’aspetto minaccioso. Misi la mano nella tasca destra del giaccone militare dove avevo il coltello e la sinistra nell’altra, dov’era la pillola. I ragazzini si fecero avanti e la tensione era alle stelle. Ma arrivati a pochi metri, girarono l’angolo e mi giudicai salvo. Decisi quindi di cambiare strada e passai dinanzi la Scala per risalire via Monte Napoleone. dove vive un altro tipo di esemplare: l’ImpiegatoBranco. Questo strano animale, che popola le vie del centro, ha la peculiarità di cambiare atteggiamento a seconda dell’orario cui lo si incontra. Di mattina lo si può osservare mentre cavalca energicamente le strade centrali pieno di verve. La sera invece vaga nelle metropolitane completamente sfinito, la valigetta aperta a qualche metro di distanza, la bocca aperta con la bava che cola, la cravatta allargata e l’Iphone che squilla inutilmente all’impazzata. 
   Una sera ne vidi due litigare animosamente. Si spintonavano a colpi di ventiquattrore, e io credetti in un primo momento che la lotta implicasse il territorio o la riproduzione, ma i milanesi sono pieni di sorprese: litigavano per chi avesse diritto a prendere il primo di una fila interminabile di taxi. Avvicinatomi all’orribile scena, non potei fare a meno di urlare ad un mio amico, rimasto indietro di qualche metro, qualcosa come: «Oh, vieni a vederli questi due esemplari, combattono fra loro come le bestie». I due, ovviamente, capirono che non ero di Milano e si coalizzarono all’istante contro di me. «We terrun, cazzo vuoi, vada via el kiul, va a ciappà i ratt», mi dicevano all’unisono. Nel frattempo si avvicinavano con fare minaccioso e mi ritrovai di nuovo con la mano sulla pillola. E allora ricordai di come mia nonna Gilda scacciava gli animali selvatici dagli orti coltivati e provai la mossa: feci un passo avanti e sbattendo il piede a terra gridai: «Sciò». L’ottima manovra fece scappare i due esemplari a gambe levate. Piangevano e ad uno di quelli squillò l’IPhone. Insomma, iniziavo ad ambientarmi.

Poliziotto superpiù.

  Avrei dovuto crederci la prima volta che me ne parlarono. Era estate. Quel pomeriggio il caldo mi appiccicava la maglietta alla pelle come una colla. Per abbassare la temperatura corporea fui costretto a bere innumerevoli spine ghiacciate. Scolai un paio di litri in poco tempo. 
Barcollando, l’occhio inespressivo e i denti radi, arrivò a tenermi compagnia un noto tossichetto autoctono. Mi si sedette vicino e iniziò a raccontare un po’ della sua storia. Aveva l’alito di fogna e quando parlava mi sputava addosso una saliva amaranto e disgustosa. Sicché urlai all’oste di portare un paio di spine gelate e degli stuzzichini. 
Il tizio, di età indecifrabile, disse di essere appena uscito dal gabbio, e che a sbatterlo dentro era stato uno «sbirro assurdo» su cui piombano diversi soprannomi: il Roscio, Rambo, Leccata di vacca, il Napoletano eccetera. Il racconto incalzava e tirai giù d’un fiato una 0,4. Il drogato mi delucidò sulla cattura. Aveva un po’ di fumo in campagna, ben nascosto sotto un sasso. Se ne aveva bisogno (e Dio solo sa quanto!) andava, intaccava e vendeva per comprarsi la roba. Quando il Poliziotto Superpiù lo pizzicò era notte fonda. Raccontò d’essersi avvicinato quatto alla pietra e, dopo aver dato un’occhiata intorno, s’era deciso a sollevarla. Tutto successe in un lampo. Sollevato il macigno di pochi centimetri, udì un rumore di fogliame. Fu allora che vide Rambo scendere giù da una pianta come uno scoiattolo. Il povero tossico, tutto morfinoso, non fece in tempo a fare alcunché. Robocop lo raggiunse con un balzo e lo ammanettò con velocità zenigatiana. 
Mentre quello scortava, trascinandolo per i piedi, il tossico alla volante, questi non poté fare a meno di elogiarlo per la sua incredibile pazienza. 
«Una roba da film,» mi disse il tossico. «Doveva essere lì da giorni, forse settimane. Camminava a malapena ed aveva gli occhi come due polpette, stanchi e sfatti.» 
«E lui?» chiesi. «Che ha fatto?» 
«Ha tirato fuori il manganello e io sono svenuto,» disse. 
Ingurgitò la spina e andò via. Lo vidi allontanarsi per poi franare su una panchina, pochi metri più in là. Guardandolo credetti di aver ascoltato il delirio eroinomane di uno che voleva solo bere gratis. Nulla di più sbagliato. 
Pochi giorni dopo il destino mi fece incontrare con l’incredibile sbirro. Il fatto avvenne davanti uno dei tre o quattro abbeveratoi della città, sempre pieno di ragazzi in disperata ricerca di movida. Successe che due tizi iniziarono a darsele. Volavano pugni in faccia e calci in culo. Il sangue scorreva copioso. Qualcuno chiamò giustamente la polizia. Poco dopo arrivò sgommando una pantera fiammante. Capii che era Lui: il più sbirro di tutti, Sbirrus Sbirrorum. Non mi sbagliavo. La porta si aprì e comparve un soggetto tutto impettito, capelli rossi a leccata di vacca e dei giganteschi occhiali a goccia specchiati che ne impedivano lo sguardo (erano le due di notte inoltrate, ma lui evidentemente ci vedeva benissimo e li tenne su per tutto il tempo). 
Quindi si avvicinò ai due con molta lentezza e si fermò ad un paio di metri dalla rissa. Rimase a fissarli per un po’. I due si rotolavano a terra in una pozza di sangue. Adesso uno di quelli tentava di strangolare l’altro. Tutti si chiedevano cosa avrebbe fatto Rambo, come avrebbe risolto la faccenda, ma soprattutto quando. Lo Sbirro continuava a fissare immobile i due che si ammazzavano. Insomma, ci si attendeva un qualcosa, qualsiasi cosa, ma l’inconcepibile agente estrasse dalla tasca un paio di guanti bianchi di pelle e iniziò ad infilarli uno dopo l’altro, con calma. 
Eravamo in quella magia quando un famoso ubriacone locale urlò: 
«ECCO IL DOTTOR HOUSE... CHE È VENUTO PER L’APPENDICITE!» 
L’ilarità di tutti subì un’inevitabile impennata. Ciò provocò l’ira di Robocop, che, sbattendosene dei due, si diresse versò l’alcolizzato, tirò fuori un manganello con delle iniziali dorate in altorilievo e prese a picchiarlo selvaggiamente. L’alcolizzato svenne; venne poi trascinato per i piedi e lanciato dentro la volante. Quindi lo Sbirro accese la sirena e partì a 200km/h zigzagando nella folla. I due lottatori rimasero a terra a rotolarsi nel sangue. Uno dei due aveva la faccia come gli spinaci saltati, tutta sgualcita ed incomprensibile. Decisi di non rimanere a guardare; non so chi dei due prevalse. Scolai il drink e m’allontanai. 

Nei tempi che seguirono, seppi da qualcuno (non ricordo chi) che Rambo incolonnò una serie incalcolabile di imprese vittoriose, come la sopracitata. La sua fama dilagò nella città a macchia d’olio, e non mancò molto che ne superò i confini, attraversando addirittura l’oceano. Si decise che uno come lui era sprecato in un piccolo centro di provincia come il nostro. Venne trasferito un paio d’anni fa. Ora il “Dottor House” opera a New York, nel Bronx, dove risse, scippi, taccheggi e bullismo nelle scuole pare siano scesi a picco in tempi record. «Le nostre carceri,» afferma preoccupato il sindaco della Grande Mela in un’intervista, «non sono mai state così affollate.» 

Preti e suore sono difficili da collocare all’interno della scala alimentare.


  Mi fermai al baretto dell’università e ordinai un panino con frittata e peperoni e una birra extra strong. Di lì a poco sarebbe iniziata la lezione di biologia. Ignaro dello shock culturale che avrei dovuto subire, ingurgitai la colazione, entrai in aula e poggiai il culo sulla solita sedia. La prof. fece la sua apparizione e accese la lavagnetta luminosa. Io aprii il megatomo platinato mentre mi sentivo rilassato e l’energia dei peperoni mi faceva diventare barzotto. Ma quella non fu una normale mattina. La prof. spiegò quali erano le differenze fra essere vivente e non, delimitandone l’esistenza con il chiaro tratto della riproduzione. Insomma, se ti riproduci sei un essere vivente, altrimenti no, sei un minerale o altro. Persino un virus, nella sua pochezza esistenziale (un filamento di RNA avvolto da un involucro proteico), rientra nella categoria degli esseri viventi. Mentre mi accarezzavo il pacco, l’orribile dubbio: e i preti? E le suore? Che sono? Loro neanche si riproducono, per volontà di potenza certo, ma comunque non fanno figli. Quindi sono minerali? Sassi? Ma sopratutto, se sì, quando si cibano e poi vanno al bagno, cosa producono? Un sasso non può creare materia organica. Quindi in che posizione della scala alimentare vanno collocati? 
  Mosso da quest’orribile dubbio, il mio pensiero andò subito a nonna Gilda, che ogni domenica andava in chiesa a sentire i sermoni di una pietra. Decisi di informarla. Presi il primo treno per Alloccopolis. Arrivato a casa parlai subito con la nonna e cercai di illuminarla sulle ultime scoperte della scienza. Nonna Gilda ascoltò le mie parole a lungo con attenzione e alla fine del discorso, con molta calma, prese il mattarello adibito alla preparazione dei ravioli dolci e mi picchiò selvaggiamente. Non contenta, mi costrinse ad accompagnarla al santuario più grande della città, che s’ergeva sul lato brullo delle colline periferiche. Provai a resistere, ma non appena nonna Gilda si accinse a prendere il matterello per la pizza (molto più robusto e pesante dell’altro) scelsi il male minore. Arrivati in loco fissai per un tempo indefinito quella specie di escrescenza tumorale cementifera che deturpava l’ottimo paesaggio circostante e, spinto a calci in culo da mia nonna, fui costretto ad entrarvi. Gildona decise di confessarsi, e io, rimasto solo in un luogo così sinistro, iniziai ad avere strane sensazioni: una specie di orticaria nevrotica miscelata a giuste dosi di paura. Ma il peggio doveva ancora venire. Apprendo da un viandante dell’esistenza di un tizio, di nome padre Nike, che si diverte a ballare rap music in infernali coreografie con i propri fedeli. Insomma, la visione del tizio che, come in una specie di grottesco flash mob, saltella sulle sue scarpette sportive accerchiato da un’orda di fanatici, mi turbò a tal punto che ci vollero tre panini con la porchetta e quattro spritz per calmarmi. 
  Riacquistato il lume della ragione, capii che avrei dovuto superare le mie paure e decisi quello che il povero Bearzot avrebbe definito un suicidio tattico: volli confessarmi. Armato di coraggio e di una birra entrai in un loculo. La prima sorpresa fu che il tipo in divisa era di colore, con il naso schiacciato e il faccione tondo. Rassegnatomi al fatto che non avrei mai capito di che minerale o materiale si trattasse, iniziai ad esporgli i miei peccati. Mentre parlavo lui annuiva con la testa in maniera compassionevole, e devo dire che quel suo atteggiamento mi rilassò. Ero a mio agio e alla fine decisi di esporgli tutti i miei dubbi. «Di che sei fatto? Da quale cava ti hanno estratto? Che tipo di minerale sei? ...e la tua storia geologica?» Mentre ponevo le domande notai però che esso continuava ad annuire imperterrito. Muoveva la testa beatificata come un pendolo. A quel punto alzai la voce e dissi: «Mi ascolti?» Non ebbi risposta. Al secondo vano tentativo, realizzai con orrore che quello non capiva l’italiano. Terrorizzato, aprii la birra e la scolai d’un fiato. Poi uscii in preda al panico, strappai nonna Gilda dalle liturgiche conversazioni di un uomo-cosa e scappai correndo via a 200km/h. Capii che al mondo tutto serviva meno che dei sassi in divisa.

Fitness & Fun.

  Da un paio di mesi a questa parte gli eventi mi hanno portato a vivere in un paesello sperduto. Poche anime lo popolano, e io non conosco nemmeno una di queste. Soffro quindi la solitudine e attribuisco la colpa di questo a me solo, al mio stile di vita, che è quello di una vecchia cariatide in pantofole. Mi alzo dal letto, faccio colazione con latte, caffè, biscotti, merendine, bruschetta con olio Alloccopolisiano (quello con densità pari allo yogurt), due frullati, uno alle mele l’altro alle banane, quattro o cinque fette biscottate con burro di arachidi, un panino con salamino, una lattina di birra extra strong alle castagne, noci e mandorle secche quanto basta. Poi mi metto la tuta, spingo il grugno fuori il balcone e scruto la strada. I bidoni metallici vomitano l’immondizia sulla strada, che acquista così un sapore metropolitano e minaccioso. Ma io la sfido ugualmente e dico: « Oggi ti passerò sopra due volte più di ieri, stamane ti brucio». Poi esco dal portone e inizio a correre, ma al terzo ruttino mi fermo per massaggiare la base del polpaccio che inizia a bruciarmi, e allora riprendo di tutta carriera, uno-due uno-due, ma ecco che dopo quindici metri devo rifare uno stop, poiché la colazione prova a svelarsi nella realtà esterna al mio corpo. Così, io e la mia lacrimetta di sudore che giace solitaria sulla guancia, decidiamo di andare a prendere un caffè al bar. Entrando simulo fiatone e tachicardia. (Chissà se agli autoctoni piacciono gli sportivi, penso fra me.) Nel baretto ci sono due tipi, un vecchio ed un giovane che baccagliano fra di loro. Uno di loro, il vecchio, lo riconosco: giorni addietro aveva provato a mutilarmi con il motozappa mentre si divertiva a farlo camminare sull’asfalto. Lo schivai per un pelo (la velocità quando corro è oltremodo vertiginosa), e lui mi salutò sbattendo i tacchi con la mano sulla fronte sudaticcia e mostrandomi quelli che una volta dovevano essere incisivi. L’anziano signore, così facendo, accolse subito le mie simpatie e decisi che dovevo diventare suo amico. 
  L’occasione si presentò proprio quella mattina. I due colloquiavano animosamente, mi avvicinai tendendo l’orecchio. Dopo qualche minuto capii l’argomento della conversazione. Io li guardavo e loro s’accorsero di avere un pubblico, quindi aumentarono la cinetica del discorso alzando la voce e ampliandone le mimiche. Compresi allora che parlavano del mio presidente del consiglio. Il giovane, con una faccia da primo della classe che non ti passa il compito, incolpava il vecchio di trivialità, ignoranza, cafonaggine e testardaggine nel non capire le raffinate manovre politiche del mio premier. Il vecchio, socchiudendo lo sguardo, con fare un po’ scemo, gli rispose: «Ma se quell se ne và nghi li puttan n mpò esse na persona seria». Il giovane, almeno anagraficamente, gli risponde di essere fiero del fatto che il presidente va a mignotte, meglio ancora se minorenni. «Carne fresca», diceva barzotto. A quel punto, convinto della salda informazione del ragazzo, certo che lui sapesse che le stesse mignotte fossero accompagnate da organi statali quali polizia e carabinieri e che quindi tutti contribuiamo a pagare, mi risollevai del fatto di aver incontrato un samaritano simile e gli chiesi se potesse pagarla anche a me una bella puttana, magari senza esagerare con il lusso, gli dissi che bastava anche una bruttona o una vecchia, giacché lo facevo non per piacere sessuale ma mosso dalla disperata ricerca di moto. 
  Il vecchio rise, sbatté i tacchi e uscì accompagnato dal motozappa carnivoro. Il giovane disse che se volevo prenderle quello era il posto e il momento. Chiesi scusa, pagai il caffè e uscii dal bar convinto che da allora in poi nessuno avrebbe accettato più la mia amicizia nel paesello. La prossima volta terrò il becco chiuso.

Maradona per un giorno.

  Grazie alle mani amorevoli di nonna Gilda, sono cresciuto a suon di timballi, fettuccine, polpette e quant’altro. E ingurgitavo tutti quei manicaretti con una foga impressionante, poiché il non farlo veniva puntualmente scambiato per un sintomo di una malattia cronica e gravissima. Così, con un raviolo dolce in una mano e un pezzo di pizza nell’altra, arrivai all’età adolescenziale con svariati chili in più. 
Ero confuso e disorientato. Quando guardavo una ragazza ricordo che la desideravo, la volevo vicino, anche se non ne capivo bene il perché. Invidiavo i miei coetanei che limonavano all’impazzata, adoperandosi nella misteriosa arte del petting. Spinto da un suicida spirito emulativo, avvicinai una ragazza al bar, tutto imbarzottito. 
«Pomiciamo?» le chiesi. 
«Vattene, lu cicciò,» rispose lei con fare smorfioso. 
Capii che sarei dovuto dimagrire. Decisi così di iscrivermi all’ormai mitologica – nonché unica! – squadra di calcio del paese: il Lokomotiv Ripattoni. Al primo allenamento conobbi il Mister, un omone di 140 KG con uno strano asma bronchiale, sibilante. Fumava MultiFilter una dietro l’altra ad una velocità vorticosa. Le accendeva, le aspirava in un unico tiro e poi lanciava le cicche con le dita sul campo di gioco. Impossibile non vederlo fumare. 
Fu il Mister a presentarmi gli altri compagni di squadra. La punta era un tizio enorme, voluminosissimo, detto Testa di Gomito, famoso perché picchiava tutti in campo, anche i suoi compagni di squadra. L’esterno sinistro era Astolfi Adelchi, cui nessuno ha mai capito quale fosse il nome e quale il cognome. I fratelli Gazzi, che già ai tempi avevano dato chiare prove di omosessualità, formavano la coppia centrale di difesa, e sembrano ballerini di danza classica più che calciatori. Davvero disgustoso. Ma andiamo avanti. Il ruolo di mediano era ricoperto da Renato detto Cococcione (che nel dialetto locale sta a significare una grossa zucchina). Ebbene, costui era solito misurarsi il pene nelle docce, sotto gli occhi di tutti, con un vecchio righello preso in prestito al padre geometra. 
E poi c’ero io: impedito a qualsiasi movimento, grasso, gonfio e con pochi secondi di autonomia. Durante le presentazioni tutti mi guardavano in cagnesco. Capii che non avrei mai toccato un pallone, ma non m’importava: ero lì solo per dimagrire. 
Passarono i mesi e arrivammo così a metà campionato senza che io entrassi in campo per un minuto. A metà febbraio, però, data la scarsa importanza del match, al minuto 84, il Mister mi disse di entrare. Indossai la divisa per la prima volta. Era di svariate taglie più piccole e mi sentivo come la ricotta nel cannolo siciliano. Va beh... sia come sia entrai in campo con una gran voglia di fare. Ero davvero carico, e l’entusiasmo di fare bene mi portava a chiamare ripetutamente palla. 
«QUA, QUA, O STO QUA, PASSA, QUA, QUA,» urlavo sbracciandomi all’impazzata. 
Il Mister, innervosito dal mio atteggiamento, quasi entrò in campo e, sotto gli occhi di tutti, gridò: 
«QUA, QUA, QUA, ’NA PAPERA MI SIMBR.» 
In un attimo il viso mi diventò rosso come un pomodoro e rimasi immobile in mezzo al campo fino alla fine della partita. Uscii fra gli insulti dei compagni per la pessima performance. 
Passarono altri mesi e il campionato volgeva al termine. Una domenica di Maggio, ci si apprestava a giocare il match più importante della storia, quello che vale un campionato: il mega derby Lokomotiv Ripattoni-S.Nicolò. Per colpa di una strana influenza la panchina era presidiata solo da Renato Cococcione e me, che, pieno di super-grassimega-idrogenati-a-nafta ingurgitati con l’imbuto la sera prima, non ero certo nella migliore delle forme. 
Il Mister fumava a nastro e la tensione addensava l’aria. 
La partita prese subito una brutta piega per il Lokomotiv: Astolfi Adelchi, al minuto 14, inciampò su un cumulo di MultiFilter. Cadde con una capriola plastica e lo dovettero portare fuori in barella. Dentro Cococcione, quindi. Finì il primo tempo. Tornammo negli spogliatoi sullo zero a zero. 
Ad inizio ripresa, però, ecco un’altra tragedia: Testa di Gomito, lanciato a porta, inciampa da solo con il pallone e finisce per sbattere il grugno sull’erba. Quindi s’alza, si guarda intorno, prende il primo che gli capita (la distanza era dell’ordine dei dieci metri) e lo picchia selvaggiamente rimediando così un bel rosso. Il Mister, preoccupato, iniziò a tirare sguardi d’ansia nella mia direzione. 
I guai non arrivano mai soli. Al minuto 90 succede l’incredibile: un altro infortunio costringe alla resa l’ala sinistra. Sicché il Mister, con la disperazione negli occhi, mi guarda e dice: 
«Intr, lu cicciò.» 
Senza troppa convinzione, misi la divisa per la seconda volta e mi piazzai pochi metri più in là del centrocampo. Al minuto 94 succede questo: uno dei fratelli Gazzi spazza in avanti la palla esibendosi in un ottimo arabesque. Io inizio a correre, mi giro e, calcolando la traiettoria, chiudo gli occhi e calcio di piena punta. Sentii un boato. Quando aprii gli occhi vidi che la palla era dentro, in fondo al sacco. Subito l’arbitro decretò la fine della partita. I compagni di squadra si fiondarono nella mia direzione a braccia aperte. Fu in quel momento che realizzai: avevo fatto gol, un gol che valeva il campionato. 
Sicché mi tolsi l’angusta maglietta e iniziai a girare in tondo senza meta. Ruppi tutte le bandierine. Bestemmiavo ad alta voce come un ossesso. Alla fine venni portato in spalla negli spogliatoi. Mi sentivo un Dio, invincibile ed inimitabile. Ero davvero euforico. 
Nell’estasi del godimento decisi di togliermi uno sfizio che mi aveva tormentato per tutta la stagione: strappai il righello dalle mani di Cococcione, lo tirai fuori e me lo misurai davanti i suoi occhi attoniti. Il povero Cococcione svenne mentre faceva la doccia. Pochi giorni dopo impazzì definitivamente. 
Ma io ero davvero alle stelle e mi sentii Maradona per un giorno.

Inadeguatezza del Natale.


  Dopo una serie di aperitivi interminabili, la sera della vigilia, approdo al Campanile. Guidato dal Campanilista, mio amico e assiduo frequentatore del locale, trovo all’inizio difficoltà ad immergermi nella casta Alloccopolisiana. Decido di prendere da bere e chiedo una birra al tizio. «Mi fì na brratt fresca, per piacere?» Devo urlare; la radio copre la mia voce. Il barista si gira e prende a squadrarmi dalla testa ai piedi (il mio abbigliamento consiste in una tuta tutta bucata e un paio di Gazzelle gialle), quindi abbassa la radio e sputa fuori qualcosa come: «Compà, mò t facc pruvà na birretta artigianale che fa impressione, che dici, mescio?», «Al dente compà», esclamo ridendo. Bevo la birra ma non mi piace molto; lascio il bicchiere mezzo vuoto e chiedo il conto. «Dodici euri, compà», mi dice ridendo. Inizio a sentirmi preso per il culo. Dodici euro per una birra schifosa. Mi inalbero e grido: «Compà lu cazz, quanda cazz cost na birr dantr stu cess». (In realtà la frase non l’ho coniata io. Un irrimediabile alcolizzato della città la urlò una sera in un bar rivolgendosi, a sua insaputa, alla colonnina delle patatine.) E così tutti iniziano a fissarmi minacciosi; non essendo Mike Tyson, decido di capitolare fuori. Il Campanilista rimane lì a fare da soprammobile.
  Mi accingo quindi verso il Displasia, noto locale Alloccopolisiano, famoso per la pesante vena Radical’New Age’Eruditus, e ordino due bicchieri di Pecorino, uno per me e uno per un mio amico appena incontrato. Quindi prima mi fanno pagare (forse, ma dico forse, la tuta e le Gazzelle mi danno un aspetto trasandato, di un ladro), poi iniziano a versare. Anche qui pago quattro Euro a bicchiere. Decido di non incazzarmi. «Se n’n t va bbone, ngì venire», mi ripeto. A volte questo non basta. La tipa riempie il primo bicchiere, ma la bottiglia finisce a metà del secondo. A quel punto si gira con fare furtivo, si guarda intorno e appiana i due calici versando il vino di quello pieno dentro l’altro. Vedo la scena benissimo dallo specchio. Mi incazzo di nuovo e dico: «Ma scusa, n'n pu prì na buttje gnov? Na buttje cust dic eur allu supermercato, tu mi vinn nu bicchir a quattr, aprla na cazz d buttje». Lei inizia a giustificarsi dicendo che, oltre la bevuta, in quei quattro Euro sono compresi anche gli stuzzichini. «E chi cazzo te l’ha chiesti», rispondo ad alta voce.
  Esco anche da quel posto e decido di farmi una passeggiata per la via centrale. Facendomi spazio fra la folla, tutta rivestita per le feste, incontro l’Ermetico, che mi prega di seguirlo alla sua festa di laurea presso il Lampàdà. Non ci sono mai stato, ma dentro di me penso che peggio di così davvero non può andare. (Un pensiero davvero stupido ed incosciente.) Il Lampàdà è uno dei tanti locali cult che va aprendo qua e là un tale che chissà dove prende i soldi. Ci incamminiamo. Per un tratto di strada ci precedono due ragazze. Il profumo delle due è talmente forte e si sente ad una tale distanza che l’Ermetico è costretto ad esclamare: «A cià cascat dentr la buccett». Arrivo quindi davanti al Lampàdà e mi metto in fila. Già da fuori si può ascoltare dell’ottima House’Commercial’Underground’Funkje’Jungle di tipo dieci anni fa. Quasi vomito e mi porto una mano alla bocca. Arriva il mio turno. A sbarrarmi la strada trovo un buttafuori enorme alto due metri. Prende anche lui a squadrarmi malamente. Maledetta tuta, Gazzelle del cazzo, penso tra me. Alla fine si decide e mi dice: «Tu non puoi entrare che così fai schifo». Rimango basito e chiedo conferma. «Come scusi?», «Ho detto, tu qua non puoi entrare che fai schifo». Inevitabilmente, mi incazzo come una bestia. Essendo in netta deficienza fisica nei confronti del voluminoso buttafuori, inizio ad urlagli addosso insulti di stampo razzista. (Era per me l’unico modo di fargli del male.) Così quello mi sbatte al muro e mi invita a ripetere dimostrando il mio coraggio. Molti curiosi iniziano a fare cerchio intorno a noi, qualcuno si lascia scappare delle frasi di incoraggiamento rivolte al sottoscritto. Allora prendo coraggio e dico: «Io facc schif ? Sol perché porto la tuta? E tu, allor, cha fin a ir stiv a pit scaz nella foresta?». Poi, preso dall’ispirazione, aggiungo: «Io ti brucio la capanna». Il buttafuori mi sbatte di nuovo al muro ma – causa testimoni, anche se tutti ubriachi – deve lasciarmi. Quindi vado via, prendo la Golf, accendo la radio e m’incammino verso casa. Se ne riparlerà il prossimo Natale. 

Quant’è duro Camparino.

  Il Camparino, noto bar della periferia, è davvero un posto piacevole dove passare serate a base di birra e chiacchiere. A volte rimango con Gabry, il titolare, a giocare a scacchi fino al mattino. Beviamo tutta la notte, scherziamo, qualcuno gioca al VideoPoker, e spesso si arriva al mattino con la vista appannata e le vene stracolme d’alcol. 
Gli avventori assidui del Camparino sono dei duri, alcuni addirittura dei fuoriclasse, gente di grosso calibro, come per esempio Doppio Rum, mitologico alcolizzato di paese, metà uomo e metà vino. Ricordo che una sera ci incrociammo fuori il bar, sulla strada. Lui orinava e a malapena riusciva a reggersi in piedi. Con una mano si teneva l’uccello e con l’altra cercava di appoggiarsi al muro che aveva di fronte. Sicché mi accostai a lui, aprii la patta e iniziai a pisciargli vicino. Mi sentii subito meglio. Ma di colpo Doppio Rum si voltò e, alitandomi addosso un fiato vinoso e nauseabondo, mi disse: 
«O tu, n’ m’ piscià adduss’.» 
Io lo rassicurai e risposi qualcosa come: 
«Ma no, Doppio, tranquill’. Aguard’ cha sting bon’.» 
E allora quello aprì gli occhi e rispose: 
«J’ sacc’ coma sting j’.» Un vero poeta. 
Rientrai e riattaccai con le spine. Gabry, dopo innumerevoli bicchieri, gridava a squarciagola le canzoni di Rino Gaetano. Il tasso alcolemico era fortissimo. Tutto andava per il meglio. Poi entrarono due facce nuove nel bar. Gabry era felicissimo e cantava Gianna Gianna. 
«Che vi bevete?» chiese ai due forestieri l’animato barista. Si vedeva che era felice. Nulla lo avrebbe potuto spiazzare in quel momento, sì, nulla a parte l’ordinazione dei tizi. 
«Un succo di frutta, grazie.» 
Gabry abbassò lo stereo e, avvicinandosi ai due, tuonò: 
«CHI DETT’?» 
«Un succo, grazie, alla pera,» ricalcarono i forestieri. 
Anch’io rimasi di stucco: erano anni che nessuno ordinava un non-alcolico. Preso da convulsioni, Gabry iniziò prima a boccheggiare, poi guardandosi intorno spaurito gridò: 
«E CHE CAZZ’ AÈ?» 
I due scomparvero per non tornare mai più. Ma Gabry non se ne fece un problema, e nemmeno noi del bar a dire il vero. Quindi ordinai due nuove spine, per me e per Gabry, e le ingurgitammo con velocità olimpionica. Tutto sembrava tornato alla normalità. 
Ma ecco che entrò un altro personaggio e ordinò anche lui una spina. Lo riconobbi, era un tizio anonimo che abitava un paio di isolati più in là. Ebbene, quello attaccò a bere ma al secondo sorsetto s’accorse d’essere senza soldi. Allora, rivolgendosi a Gabry, disse: 
«O Capriè, n’n ting na lir, la birr’ te la pag’ dapù, anz’, damm pur’ nu pacchet’ di sgaratt’ a uffo.» 
Gabry s’incazzò di brutto, corse verso il tipo, lo afferrò per la collottola e lo trascinò fino alla porta, sicché alzò con un piede la grata e lo lanciò sulla strada, dove sfrecciavano le macchine veloci. 
“Se n’n s’ mor’ mo, n’n s’ mor’ chiù,” pensai. 
«BRAV, COMPÀ,» urlò Doppio Rum. E subito si riaddormentò sul tavolo. 
Gabry rientrò sfregandosi le mani. 
«Ma che cazz’ sa cred’, che vè qua e fa coma cazz’ gli pare?» disse inalberato. 
Quindi si voltò verso il bancone, prese la spina ancora mezza piena del tizio e disse: 
«E mò? Di chi cazz’ aè sta birr’?» Guardò il bicchiere qualche secondo, poi concluse: «Ah, è di lu cujon, vabbone... che cazz’ vò tenè l’aiz.» E la bevve tutta d’un fiato. 
Decisi che era troppo e mi accinsi a pagare. Mi avvicinai alla cassa, aprii il portafoglio e ci guardai dentro: non avevo soldi, li avevo lasciati a casa. Alzai lo sguardo e Gabry, ballando sulle note di Celentano, mi fece: 
«15 Euro per te, grande.» 
“O cazzo,” pensai.

No al calcio moderno.

  Quella domenica, una domenica piena di sole e con una leggera brezza, si giocava il derby Lokomotiv Ripattoni-San Nicolò. Ero particolarmente emozionato. Rivedere la mia ex-squadra in una partita come quella era per me sempre un piacere. Arrivai al campetto e mi defilai sulle tribune. Mi sedetti sull’erba, aprii uno stravecchio Etichetta Nera Mignon e aspettai il fischio d’inizio. Notai fin da subito un certo nervosismo sulle tribune. Le due tifoserie – in realtà composte da una dozzina di tizi, perlopiù parenti ed amici – si guardavano in cagnesco da una parte all’altra del campo. La tensione salì ulteriormente quando alcuni tifosi del San Nicolò iniziarono a cantare “’Ngul a mammet”, famoso inno preso in prestito dagli Ultras della squadra maggiore. 
Com’era prevedibile, i primi disordini non si fecero attendere. Un giocatore del San Nicolò, avvicinandosi alla rete del campo, iniziò a stirarsi e a fare un po’ di riscaldamento. Dietro di lui, un famoso novantenne autoctono fece passare furtivamente il bastone per camminare attraverso una delle maglie della rete, prese la mira e colpì sui reni il povero giocatore. Questi fece una smorfia di dolore e cadde a terra come un sacco. 
«J’ M’ T’ MAGN’ LU COR’,» urlò il vecchio. 
Il povero terzino svenne. Dovettero portarlo via in barella, sembrava morto. 
«Mj’a cuscì, uno di meno, brav’ vicchiarrò,» disse il tifoso che mi sedeva vicino. 
Si avvicinava così il momento del fischio d’inizio; le squadre entrarono in campo. Tutto sembrava pronto, ma ci fu un altro intoppo. Il San Nicolò, per errore chissà di chi, indossava la divisa casalinga. Ora, siccome lo sponsor (Pizzeria l’Orsetto, pizza al taglio e da asporto) era lo stesso per le due squadre, ebbene, queste si ritrovarono con gli stessi colori sulle magliette. Gli sguardi dei giocatori sembravano persi nel vuoto, ma ormai era troppo tardi per rimediare e l’arbitro diede il via all’importante manifestazione. 
Inevitabilmente, la confusione prese il sopravvento. I calciatori avevano difficoltà a riconoscersi fra loro. La situazione si fece insostenibile quando un difensore del San Nicolò, ingannato dalle divise identiche, passò la palla all’attaccante del Lokomotiv, convinto che fosse un suo compagno di squadra. La punta della squadra di casa mise così la palla nel sacco a porta vuota. L’arbitro segnò il punto sul taccuino. Uno a zero, palla al centro. 
Il capitano del San Nicolò, incazzatissimo, disse: 
«Albitro, Albitro, ma nu vid c’a n’n ciarcunusciam, fa qualcosa, Cristo.» 
L’arbitro si passò la mano nei radi capelli e disse: 
«Compà, aguard c’a j’ facc’ l’albitro, mica lu sarto.» 
Al capitano quelle parole parvero ragionevoli e tornò a piazzarsi nel cerchio di centrocampo. La partita ricominciò, ma gli animi s’erano ormai accesi e le cose non potevano che peggiorare. 
I calciatori continuavano a confondersi. Qualcuno, più furbo, cercò addirittura di sfruttare la situazione. Un giocatore, subdolamente, chiamò il passaggio ad un avversario. 
«QUA, PASSA, STO QUA!» 
Il povero allocco abboccò all’inganno e gli fece un passaggio perfetto sui piedi. Sicché quell’altro stoppò palla, fece rapidamente inversione e gridò: 
«TIÈ, MPAPÌ.» Il tutto arricchito dal famoso gesto dell’ombrello. 
Gli animi erano allo spasimo. La situazione capitolò definitivamente quando un tifoso del San Nicolò, piazzatosi a ridosso del portiere del Lokomotiv, iniziò ad insultarlo. Urlava con le mani ad imbuto sulla bocca e si sentiva solo lui. Preso da un’incredibile vena creativa, vomitò addosso al povero portiere (che bello non era di certo) insulti di una fantasia insuperabile. 
«QUAND’ CAZZ’ SÌ BRUTT’, QUAND’ CAZZ’ FÌ SCHIF, N’N T’ S’ PÒ GUARDÀ, MO T’ SCRITTURO AL CIRCO TOGNI.» 
Poi, alzando il tono della voce, cominciò col ripetere sempre lo stesso insulto, come Sgarbi. 
«COGLIONE, COGLIONE, COGLIONE,» e così all’infinito. 
Il portiere resistette per qualche secondo; poi, inalberato, urlò: 
«SE NA SMITT TI MASSACR.» 
Ma il tifoso non sentiva ragioni e nulla pareva potesse fermarlo, sembrava un vecchio disco rotto. 
«COGLIONE, COGLIONE, COGLIONE.» 
Il portiere prese a rispondergli; urlava anche lui. 
«SMETTILA, TI SO DETTO, SE NO T’ MASSACR.» 
L’arbitro dovette intervenire. Fece una corsa non troppo agile verso il portiere e gli intimò di smetterla. 
«Se nà smitt t’ cacc’ là for,» disse. 
Il portiere di casa, forse intimorito, si ricompose e la partita continuò. 
Al sessantesimo minuto successe che il San Nicolò, grazie ad un’azione piuttosto fluida, si presentò davanti la porta avversaria. L’attaccante, con un bel gesto atletico, riuscì a tirare molto forte. 
«’NGUL CHE CANNATA!» urlò un tifoso strabuzzando gli occhi. 
Il portiere riuscì ad afferrare la palla con le mani. Fiero dell’impresa, rimase qualche secondo fermo in area con la palla sottobraccio. L’implacabile Ultras riattaccò: 
«CA CE LI FATT’ A PARÀ NU PALLON’, O DEFORME, O MENOMATO.» 
Il portiere, con la palla in mano, fece qualche passo verso l’inopportuno soggetto. 
«AGUARD CA MO T’ MASSACR,» urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Ma il tifoso non sentiva ragioni e sembrava sempre più Sgarbi. 
«COGLIONE, COGLIONE, COGLIONE.» 
Preso dal nervosismo, il portiere fece un ulteriore passo avanti, poi un altro e un altro ancora. Finì che, senza accorgersene, uscì dalla propria area di rigore con la palla in mano. Sicché arrivò immancabile il rosso dell’arbitro, che disse: 
«J’ tavè’ avvertit’, mpapì.» 
Il malcapitato portiere, ormai in preda all’esaurimento nervoso, iniziò a correre verso il tifoso. Ma quello riuscì a scappare e a raggiunse la sua Opel. Sparì sgommando. 
La partita venne interrotta. Un giocatore del Lokomotiv disse: 
«J’ lu sacc’ ’nda stà quello, stà allu Planeta, lu bar di Case Molino.» 
Sicché tutti i giocatori del Lokomotiv presero a correre verso il pulmino della società, vi si infilarono dentro e partirono inneggiando “’Ngul a mammet” all’unisono. 
Io, ovviamente, li seguii. Una volta nel locale, quello che vidi fu questo: un tizio chiuso al cesso, undici cristiani con tacchetti e parastinchi che cercavano di sfondare la porta gridando «APR’, PEZZ’ D’ MERD’» e il titolare del Planeta con le mani sul cuoio capelluto, disperato. Andarono avanti così per un po’, la situazione era davvero pericolosa. Poi il barista minacciò di alzare del 30% il prezzo delle spine per un mese, e allora scappammo via alla velocità della luce. I giocatori correvano così forte che i tacchetti gli sbattevano sul culo. 
Quindi tornammo tutti al campo. I due allenatori e l’arbitro complottavano in cerchio. Mi avvicinai e tesi l’orecchio. 
«Che faciam’, adesso?» chiese l’anziano coach del Lokomotiv. 
«Sospendiamo,» disse l’altro allenatore. 
«E J’ che cazz’ c’ scriv’ ’n cim’ al verbale?» disse l’arbitro con tono perplesso. 
«Che è piovuto, compà,» risposero gli altri due all’unisono. 
Mi allontanai. Il cielo era più azzurro dell’azzurro – niente nuvole. Il sole iniziava a scottare. I raggi mi si posavano addosso come la colla. Tolsi il maglioncino, asciugai il sudore dalla fronte e m’incamminai verso casa. La partita era ormai finita. 
Un tifoso gridò: 
«ALMEN’ NOI NU GOL LU SEM FITT.» 






Il barbiere con il bicchiere.


  Faccio barba e capelli due volte l’anno, sono un pigro; due volte l’anno apro la porta di Marietto, il mio barbiere di fiducia, quello di sempre. Con i capelli a fungo lo saluto mentre i peli della barba m’intasano la bocca. Lui mi accoglie amichevolmente, le mani che strapazzano una lozione. Quando non ha clienti Marietto appende un cartello indecifrabile sulla porta a vetro. Poi si reca al bar e aspetta l’avventore. Non raramente sbaglia un colpo di forbici o una limatina. Se gli capita di tagliare qualcuno semplicemente fa lo sconto. «La stanchezza», si scusa. Con la mano tremolante, decine di volte, il rasoio sbaglia andatura e taglia la pelle dei clienti. Uno è lì che legge l’ultimo articolo di Vogue, e all’improvviso, inavvertitamente, sobbalza all’urlo di dolore del pover’uomo pagante. Marietto chiede ovviamente scusa, e dice: «Devo esser diventato vecchio; è solo mezzogiorno eppur son già stanco». Il cliente viene preso dai sensi di colpa e non aggiunge altro. (In fondo è avanti con gli anni e dargli corda è quasi un dovere civico.)
  Anche alla mia povera faccia toccò di passare sotto il rasoio imperfetto. Come tutti urlai, come tutti venni preso dai rimorsi. Ero sul punto di chiedere scusa, quando quello disse: «Son stanco, certo che son stanco, tutto quel tempo seduto al bar». Capii che Marietto chiama le sambuche stanchezza.

domenica 22 gennaio 2012

Il cocktail alla moda.

  Risalii la via parallela a quella centrale, andavo di fretta. Accelerai il passo incamminandomi verso l’automobile. Quando arrivai al parcheggio lo sguardo mi cadde sui pneumatici. Mancava una borchia, quella anteriore sinistra. Mi guardai intorno in cerca del ladro e l’occhio mi cadde su uno zingaro autoctono che se ne stava seduto sulle scalette del vecchio cinema porno. Sopra la sua testa, stampato sulla locandina della settimana, s’ergeva un enorme prepuzio su uno sfondo completamente bianco. Quello s’alzò e prese a venirmi incontro. «Che tà success?» mi gridò con una voce rauca e profonda. Quelle parole tradirono la sua identità. Tutti conoscono Italetto lo zingaretto e i suoi modi. Ora, ai piedi del cinema porno, sotto quella enorme cappella su sfondo bianco, toccava a me farci i conti. Cercai quindi di spiegargli l’accaduto; gli dissi che rivolevo la mia borchia anteriore sinistra. «Se vù, domani alle tre, te la port io ’na bella borchia», disse Italetto lo zingaretto. «Grazie no», risposi deciso. 
  La sera stessa ero in un bar con un amico. Io ordinai un doppio Rum’Ice’ExtraFallo’On the rock. Iniziavo a sentirmi barzotto quando all’improvviso vedo Italetto lo zingaretto corrermi addosso. Esordì con qualcosa come: «Mi devi dare trecento euri». Il fare era minaccioso, senza dubbio voleva mettermi paura. Cercai di spiegarmi ma quello faceva fatica a capire tutto. Allora chiesi nuove delucidazioni e compresi – con non poca fatica! – cosa Italetto lo zingaretto intendeva dirmi. «M’ann arrestat pe’ la borchia tua.» Insomma, capii che si trattava di una truffa inesorabilmente barbara o monotona. Così gli dissi che non lo avrei mai pagato. Lui, ovviamente, prese ad odiarmi. 
  Nei mesi che seguirono mi ruppe tutto. Ruppe il vetro della mia macchina, ruppe il bloccasterzo del motorino e non mancava di rompere anche le palle. (Ero con un mio amico? Ecco che provava a picchiarlo. Ero con una ragazza? Ecco che lo tirava fuori.) Una sera oltrepassò il limite. Lo incontrai nei pressi di un sexy shop. Tirava boccate da una sigaretta, incastonato con le spalle nello sfondo osceno della vetrina. Cercai di evitarlo allungando il passo, ma riuscì lo stesso a raggiungermi. Stavolta non era solo e un altro zingaro, grosso il doppio e molto più cattivo e ignorante, se ne stava dietro di lui con le braccia incrociate. Allora decisi di farmi coraggio, e quando quello tirò fuori il discorso delle trecento euro io d’istinto estrassi il portafoglio, mostrai ai due i pochi soldi che avevo, poi lo rimisi in tasca e dissi: «Vieni a prenderli». Il più grosso fece un passo verso di me. Sapevo a cosa andavo incontro ed ero pronto al pestaggio, ma ebbi fortuna: un attimo prima che lui mi colpisse e due attimi prima che io mi buttassi in ginocchio implorando la grazia, passò una volante dei carabinieri. Gli zingari si dileguarono nelle vie e io fui salvo. 
  Due sere dopo eravamo nella macchina a gas di Testa di Gomito. Parlavamo di cose da niente, cose come la preparazione del Dark’Funeral’Starway to Hell o del Templar’Ice’Massonicus quando l’amico grosso e cattivo di Italetto lo zingaretto fece la sua apparizione a pochi passi dal finestrino. «Damm’ nu passagg», ci disse. Io cercai di prendere tempo, lo tenevo lì con la chiacchiera, ma di colpo Testa di Gomito mise la prima e schiacciò l’acceleratore con uno scatto. (Purtroppo – come sappiamo – l’impianto a gas toglie sprint e potenza al motore, sicché partimmo come le tartarughe.) Allora lo zingaro pensò che volessimo investirlo ed ebbe tutto il tempo di prendere la mira e darmi il più forte destro che avessi mai preso. Svenni per qualche secondo e quando mi svegliai la sorpresa fu vedere Testa di Gomito che guidava come nulla fosse successo. Fischiettava e batteva le mani sul volante e sembrava rilassato. «Abbassa quella radio», dissi mentre con una mano cercavo di tamponare le ferite. Lui si voltò verso di me e disse: «Robin, perdi del sangue», «Sì, mi hanno picchiato», «E quand’è che t’hanno picchiato». 
  Inutile insistere, era troppo difficile da spiegare. Gli dissi che m’ero fatto tutto da solo incastrandomi la testa nel finestrino. Testa di Gomito giudicò la mia tesi esaustiva. Demmo la colpa, ancora una volta, ai cocktail moderni.