domenica 9 dicembre 2012

L’idraulico senza laurea.

  Quando mi chinai vidi che la ruggine s’era lavorata per bene il tubo di scarico del cesso. Nell’acciaio s’apriva una falla grande come l’oliva del Martini. Un’acqua nera e torbida aveva inondato per intero il pavimento del bagno e gran parte del salotto. Senza esitazione, sfogliai le pagine gialle in cerca di un idraulico. Sapevo che tale manovra avrebbe prosciugato impietosamente le mie tasche, ma non volevo affogare in un mare di merda a vent’anni. Sicché alzai la cornetta e composi il numero del pronto intervento. Una voce vetrosa, senza emozione, mi assicurò l’arrivo dell’addetto entro un’ora. Io tornai in bagno e infilai il pollice nella falla dello scarico, impedendo così la fuoriuscita copiosa dell’orribile fiumiciattolo nero. Mi sedetti sul bidet e aspettai. 
  Il tizio arrivò con un paio d’ore di ritardo. Era vestito di un bell’abito scuro, in giacca e cravatta, con le scarpe in pelle d’istrice. La sciarpa che gli cingeva il collo era un furetto sotto morfina. Nelle mani, un’elegante cassetta degli attrezzi tutta laccata d’oro, con delle iniziali diamantate in altorilievo. «Mi mostri la perdita», disse con fare frettoloso. Lo condussi in bagno e gli indicai il cesso con un gesto della mano. Lui si tolse il cappotto in pelle di elefantino, estrasse tenaglie e cacciaviti (anch’essi laccati d’oro) dalla cassetta e iniziò a manovrare frenetico il tubo di scarico. Mentre svitava o sostituiva questo con quello, io lo guardavo con inquietudine, e anche con spavento, poiché pensavo all’onerosa parcella che, di lì a poco, inevitabilmente, quel signore col vestito da sera mi avrebbe mostrato. 
  Dopo un primo momento senza parole, l’intimità del bagno ci portò alla conversazione. «Lei deve essere un universitario», mi disse. «Ha la tavoletta del cesso alzata e il sapone liquido di sottomarca». Io annuii, quasi vergognoso, con un cenno del capo. L’idraulico, ch’era evidentemente privo di tatto, continuò: «Scommetto che anche il frigo è vuoto, e che se aprissi la dispensa troverei solo scatolette», «È così», risposi triste, «ma è per questo che studio. Con la laurea sarà tutto diverso», «Se lo dice lei, sarà così, mi offra qualcosa da bere». 
  Andai in cucina per accontentarlo, ma l’unico liquido che trovai fu quello che vegetava in una polverosa bottiglia senza etichetta, da chissà quanto tempo. E allora dissi all’idraulico che non avevo nulla per placare la sua sete, senza il rischio evidente di un’intossicazione acuta. 
  Lui mi guardò compassionevolmente, con gli occhi del papà. Ficcò la mano in tasca e tirò fuori una monumentale pila di contanti. Quindi mi allungò una banconota di grosso taglio e disse: «Vai da Harry’s e compra un fiasco di champagne». Io appallottolai il potente foglio filigranato nel palmo; poi dissi: «Non so se potrò mai restituirle questo danaro», «Oh, non deve preoccuparsi», mi rispose l’idraulico mentre s’infilava un guanto di cachemire da lavoro, «me li restituirà dopo essersi laureato, quando sarà ricco e berrà lo champagne tutti i giorni». Non so perché, ma da quel momento un sorriso sinistro apparve sul viso di quello, e non andò più via. 








domenica 2 dicembre 2012

Il FacSimile.

  Anch’io andai al concerto di Capa’e’minchia. Anch’io, con in mano il potente biglietto prepagato, presi posto nella scoraggiante fila all’entrata. Un enorme serpente di persone partiva dai miei piedi per poi sparire, ininterrotto, dietro un pilone dello stadio. Un vero esodo. Proseguivo con la velocità del morto; quando raggiunsi le transenne era già buio. 
  Avanti a me, ad un paio di metri, scorsi un tizio che era uguale a Capa’e’minchia. Aveva gli stessi capelli, erti e gonfi sino allo spasimo. Gli chiesi se lui e il famoso cantante fossero, come mi pareva, la stessa persona. «No», rispose quello, «ma anch’io canto in una band, e suono benissimo la chitarra», «Impressionante», risposi con tono spento. 
  Il concerto ebbe inizio. I musicisti fecero la loro apparizione sul palco, sommersi da imponenti luci di circostanza. Il FacSimile estrasse l’IPhone dalla giacca e pigiò con il polpastrello dell’indice un quadratino luminoso. L’inconcepibile apparecchio emise un bip discreto, quasi intimo. Poi quello alzò le braccia verso il cielo, disegnando un ampio e immobile cerchio muscoloso. In alto, i palmi stringevano l’IPhone come in una morsa. Rimase non so per quanto tempo in quella posizione. Uno sforzo sovrumano, intollerabile anche solo alla vista. Di tanto in tanto si voltava verso di me, con un certo sorriso smargiasso, e diceva: «Guarda come registra bene». 
  Lo show si protraeva blandamente. Capa’e’minchia (quello vero, suppongo) si esibì in numerosi cambi d’abito, credo con l’intenzione di distrarre i fan dall’insipida voce. Si travestì da califfo, da papa, da re. Indossò la divisa dei poliziotti e quella del Ku klux klan. Correva su e giù per il palco come un demonio, incastonato in una coreografia oscena di negri snodabili e forzuti. Il FacSimile registrava, come imbalsamato, ogni secondo. «Dovresti seguirlo mentre corre, così rischi di perderlo», gli dissi. Lui, quasi con affetto, dichiarò l’infondatezza delle mie preoccupazioni. «Sono in modalità grandangolo», rispose fiero. 
  Il concerto si chiuse con Capa’e’minchia che imitava un certo santo, di cui non seppi mai il nome. Le luci s’abbassarono d’intensità. Qualcuno mise un vecchio disco, anch’esso di circostanza. Il monumentale evento era quindi finito, e già sapeva di anacronismo triste. Il FacSimile spense l’IPhone, lo nascose in una tasca e sparì nella folla. 









domenica 25 novembre 2012

La bevuta a secco.

  SuperTramp e Il Bizzo varcarono la soglia del bar. L’ora era quella dell’aperitivo. A parte la ragazza sbadigliante dietro il registratore di cassa, il locale era vuoto. Si sedettero ad un tavolo e ordinarono della birra scura. La tizia versò il liquido nei boccali e li raggiunse. Sembrava tranquilla, ma si vedeva ch’era presa da un’ansia sottile. Mentre poggiava il vassoio sul legno del tavolo la mano le tremava, e quando disse «Ecco la birra, ragazzi», lo fece con uno scricchiolio malfermo, più che con una vera e propria voce. Sicché i due abbassarono lo sguardo. La solitudine che avvolgeva i boccali svelava, anche troppo chiaramente, il mistero. «Dove sono gli stuzzichini?» chiese Il Bizzo con tono pacato. In cuor suo la compativa, poiché il bar non era di quella, ma di un tale, di nome Victor, ch’era evidentemente pigro e mai si degnava di fare la spesa per le vettovaglie da aperitivo. Quella si fece rossa in viso senza dire nulla. «Non preoccuparti, ragazza», intervenne SuperTramp. «Sappiamo come vanno le cose». 
  Congedarono quindi la barista con ampi gesti della mano. Quella tornò a trastullarsi dietro il registratore di cassa. Durante il brindisi provarono un senso d’imbarazzo, e anche di sconforto. SuperTramp, preso dall’agitazione, vagava nel bar con il disordine delle formiche, mentre formulava il potente ossimoro: «Non posso bere così, a secco». 
  E allora fece uno scatto verso la colonnina delle patatine e prese l’unica cosa che trovò: un pacchetto di TUC. Era felice, ma quando lesse la data di scadenza rimase basito. «Sono guasti da tre anni», disse nervoso. La barista scosse il capo e rispose che non era colpa sua, che Victor la costringeva a tenere lì quel pacco e non voleva saperne di toglierlo. «Dovete credermi», disse quella nell’imbarazzo. «Debbo anche sorbirmi la pena di lucidarlo ogni sera». SuperTramp e Il Bizzo giudicarono la situazione insostenibile. Bisognava parlare con Victor per chiarimenti urgentissimi. «Non preoccuparti, cara», disse SuperTramp. «Ora la risolviamo noi questa faccenda». 
  La notte stessa tornarono nel bar. Victor oziava con i gomiti poggiati sul bancone. SuperTramp andò celermente al sodo. «I TUC sono scaduti da tre anni», disse nello sdegno. Victor, senza un accenno di resistenza o astio, prese gli inopportuni salatini e li nascose nei segreti della cucina. «Dovete scusarmi, non m’ero accorto, devo proprio essermi distratto», disse supplichevole. I due sapevano che non era così, ma tanta arrendevolezza da parte di quello aveva fiaccato i loro animi irosi, sicché ritennero superfluo allungare la discussione. 
  Ordinarono così due birre scure con la sete del cammello. Ne presero delle altre e ingurgitarono anche quelle. Successe poi che Victor uscì dalla cucina con un vassoio pieno di leccornie. «Questo è per farmi perdonare», disse mentre inarcava il monociglio. I crostini erano disposti in maniera concentrica e ognuno di quelli era avvolto da una fetta di salume. Mangiavano con la fame del bulimico e neanche una mollica cadeva in terra. Alla fine rimase un solo crostino, Il Bizzo lo divise a metà con le mani e ne guardò l’interno. La modestia del mio linguaggio rende difficile descrivere l’orrore di quello quando s’accorse che, sotto l’avvenente salamino, era celato l’ignobile TUC. SuperTramp non s’avvide di nulla e arrivò a complimentarsi con Victor per l’ottimo servizio. L’inconcepibile barista venne sommerso dagli elogi. Il Bizzo non ebbe il coraggio di dire nulla. Victor, con tutta probabilità, sapeva che Il Bizzo sapeva, ma ciò non fece altro che accentuare il suo cinismo. «Non abituatevi, però», concluse secco. Capirono che replicare sarebbe stato inutile, poiché il vassoio era vuoto e le pance piene. Pagarono le spine e s’allontanarono. 

  Poscritto del novembre 2012: Al giorno d’oggi, nel tempo in cui scrivo, capita che Il Bizzo incontri SuperTramp mentre passeggia per le vie. E allora sempre gli parla dell’avvenimento insolito e sempre – lui stesso lo ammette – subisce la vergogna del bugiardo. A volte la tentazione di dire tutta la verità lo tocca, ma non vuole rovinare i ricordi al suo amico, e allora lo ascolta mentre quello parla fino a notte profonda del benedetto vassoio, e pure lui dice che è vero, sì, è vero che quel giorno (quello in cui Victor portò un mare di stuzzichini) fu un giorno glorioso e irripetibile.

domenica 18 novembre 2012

Il Campanilista ha appeso le foto.

  Quando feci la mia apparizione nel tugurio il Campanilista poggiava i gomiti su di un tavolo. Era vestito in gran pompa, di un ricco abito di velluto a coste larghe, e portava sulla testa un cappello da pittore, di quelli con la visiera quadrata che impedisce lo sguardo. Al collo aveva una sciarpa del colore della merda, increspata e avvolta in una vertigine di nodi. Fu lui ad accogliermi. «Robin, che piacere averti qui nel mio bar», mi disse. «Vieni al bancone, ti offro da bere». Senza entusiasmo, mi vidi costretto ad accettare la consumazione. Ci dirigemmo verso il delegato delle bibite e bastò un gesto del Campanilista affinché quello ci servisse da bere. Tirai una sorsata dal bicchiere alto e presi a guardarmi intorno. Uno strano fremito animava quel tugurio. Un tizio s’appese con gli arti alle spalle decadenti del Campanilista e disse: «Davvero un buon lavoro, la tua arte è insuperabile, complimenti di nuovo». M’accorsi, quindi, che sul muro, incorniciati con il legno, v’erano esposte due foto enormi. Erano immagini in bianco e nero. In una di queste figuravano i labirinti di una scala a chiocciola vista dal basso; in un’altra ecco che spuntava un balcone. In un abbeveratoio come quello, le foto mi parvero di cattivo gusto, e lo sfondo lilla del muro che le sosteneva mi sembrò un abuso dell’arte combinatoria. Arrivò quindi un altro tizio; anche questo sommerse di elogi il Campanilista e le sue opere; poi un altro e un altro ancora, tutti supini alla logica Campanilista. Giudicai costoro come una sorta di cerchia chiusa, composta da tante comari che si danno ragione l’un l’altro su tutto. Non so perché, ma pensai alla masturbazione. 
  Io non dicevo nulla, poiché le illusioni del Campanilismo non hanno fine e possono distorcere o inventare dal nulla. Fichte diceva che essere coraggiosi e essere tedeschi è, evidentemente, la stessa cosa. Così, credo, le comari elogiavano adesso le opere insignificanti del Campanilista. Ma quello era il suo bar, il suo Campanile, e a me stava bene così. (Dopotutto avevo la mia consumazione gratis). 
  Presi allora anch’io a tessere le lodi delle orribili foto, e più parlavo più quelli mi offrivano da bere. «Sono splendide queste immagini», dicevo ad alta voce. «Così cariche di significato, così glamour». E tutti che chinavano il capo consenzienti e offrivano le consumazioni. Sicché, preso come in un sogno, bevvi di tutto, bevevo e poi elogiavo. E lo feci con una foga tale che loro – come mi parve di capire – mi considerarono pari al rango di comari. 
  Quando mi giudicai ubriaco e neanche un bicchierino entrava più nel mio stomaco, allora salutai e dissi: «Questo bar fa schifo, ed anche quelle foto fanno schifo». Calò un silenzio da cimitero. Tutti mi guardarono ebeti. La SciarpaMerda del Campanilista teneva segrete le vene gonfie del collo. Le comari mi accerchiarono minacciose e il barista ritrasse la consumazione che stava per pormi con uno scatto olimpionico. «Andate tutti a cagare», dissi. E sparii sciogliendomi nella notte.

domenica 11 novembre 2012

Un caffè molto ristretto.

  Il barista, ch’era di padre rumeno e madre polacca, mi chiese l’ordinazione. Aveva l’ampia barba rettangolare e gli occhi lucidi d’alcol. Presi la Gazzetta Sportiva da sopra il frigo, l’infilai sottobraccio e raggiunsi il bancone. «Un caffè molto ristretto», dissi. «Caffè molto ristretto in arrivo, amico.» Caricò la macchina, mise la tazzina sotto il beccuccio e raggiunse un manipolo di tizi (anch’essi rumeni) appollaiati nell’angolo lontano del bar. Mentre mi trastullavo con l’inutile Gazzetta del venerdì, il caffè raggiunse il bordo della tazzina; ma io non dissi nulla, poiché il barista s’era incendiato in alcuni discorsi incomprensibili con un altro tizio. Capivo solo le bestemmie. 
  Tempo di leggere un trafiletto e la macchina sibilò sbuffando un vapore leggero. Il barista, dopo un’effimera corsa di alcuni metri, abbassò la leva metallica e la spense. Poi osservò mesto la tazzina ricolma. Ora ne fa un altro, pensai, butta quello e ne fa un altro daccapo. (Capisco adesso, mentre scrivo, che il mio era un abbondare nella fiducia, senza dubbio.) Sicché quello versò il liquido in eccesso sulla griglia della macchina e, come nulla fosse, servì l’orribile consumazione. «Avevo chiesto un caffè ristretto», dissi. «Caffè ristretto, amico», rispose. «È quello che hai chiesto ed è quello che hai davanti.» Iniziò allora un indecifrabile battibecco e giunse un secondo rumeno, ch’era grande il doppio del primo. Le spalle calanti e il naso spigoloso da pugile lo vestivano di un’aria da rissa. Sulle braccia aveva tatuaggi con effigi mostruose. Un vero animale, pensai, una bestia. L’energumeno poggiò gli arti gonfi sul bancone e disse: «Ci sono problemi? Forse il caffè non è buono?». Quindi presi la tazzina e ingurgitai il liquido increscioso in un baleno. Era freddo, con uno sgradevole retrogusto di guasto e la densità acquosa. «Buonissimo», dissi docile. Per celare il disgusto esibii un sorriso appariscente, ma senza emozione. Posso dire che la mia pantomima ebbe un certo successo: la belva s’allontanò con un grugnito e raggiunse gli altri suoi connazionali; il barista prese a frizionare con la pezza lorda un bicchiere oblungo; io, senza troppi fanatismi, tornai alla Gazzetta Sportiva. La forza bruta, una volta di più, aveva preso il sopravvento.

domenica 4 novembre 2012

L’inferno analcolico.

  Non ce la passavamo bene io e Testa di Gomito, un centone a notte taccheggiando la gente nel metrò e ci lavoravamo anche le borse dei pensionati. Due anni con gli scippi e neanche un soldo era nelle nostre tasche, poiché la notte giocavamo con i dadi e compravamo le bottiglie di GinPiscio da Harry’s, e in quei due anni abbiamo bevuto tanto che un granaio ne sarebbe pieno, sicché la mattina nulla rimaneva della notte e l’uno domandava all’altro cosa fosse quel livido o perché il cavallo dei pantaloni fosse strappato. Come quel giorno, quando Testa di Gomito mi disse: «Hai un occhio nero, devi esserti battuto anche ieri notte. Devi averne prese tante». Io non ci credevo e allora andai allo specchio, ma vidi quel cerchio livido spandere un grigiore triste fin sotto le guance. Era un maledetto occhio gonfio, senza dubbio lo era. Quindi ricalcammo le strade della notte e tutti dicevano che era Testa di Gomito che m’aveva colpito, e venne fuori che io (io che sono la metà di lui) ero svenuto e che Testa di Gomito m’aveva caricato sulle spalle come un sacco fin dentro il letto. «È inverosimile», diceva Testa di Gomito perplesso. «Se ti avessi colpito lo sapresti. Questa storia è davvero inverosimile.» Chiedemmo ad altri tizi, ma tutti confermarono che la notte c’eravamo azzuffati nella polvere come due cani e che io ero svenuto. «Oh, quand’è così ti chiedo scusa», disse Testa di Gomito. «Non fa niente. Era solo una curiosità. Andiamo da Harry’s», dissi io. 
  Comprammo così due galloni di GinPiscio e iniziammo a bere proprio davanti ad Harry’s fino a notte profonda. Ridevamo e lanciavamo i dadi a terra sulla luce allungata che veniva dalla vetrina. Un cane arruffato, con due occhi grigi, ci scrutava arcigno e il vento gonfiava le nostre camice. Presi a vincere in maniera monotona. Tiravo sempre i numeri più alti. Testa di Gomito iniziò ad innervosirsi. «Dadi stronzi, non è possibile che mi giri sempre male, sei un lurido baro», mi diceva tirando lunghe sorsate dalla bottiglia. Aveva la faccia rossa e gli occhi indipendenti come quelli dei camaleonti. Era su di giri e anch’io ci davo dentro con il bere. E allora lanciai di nuovo i dadi e quelli di nuovo mi fecero vincere. La situazione si faceva via via più perniciosa. «Se continua così dovremo litigare», mi disse. «Non è colpa mia, sono i dadi», «Tira dai, e stai zitto, infame», «Io tiro, ma tu non chiamarmi infame», «D’accordo, tira quei dadi, coglione». Non mi andava di litigare e sperai di perdere, sicché quando lanciavo i dadi io non lanciavo i dadi, io scacciavo la fortuna, alzavo gli occhi alle stelle invocando la malasorte; ma questa non arrivò: vinsi tutte le giocate e Testa di Gomito – com’era prevedibile – s’infuriò. «Quei maledetti dadi sono truccati», mi disse. «Non esagerare, e poi sono tuoi i dadi», «Allora sono le tue mani ad essere truccate, coglione». Mi afferrò per il collo e prese a sbattermi il grugno sul marciapiede. Poi iniziò con gli schiaffi. Alzava il braccio e, dopo una traiettoria ad arco, il suo palmo mi rimbombava sulla faccia come una fucilata. I suoi pugni mi raggiungevano in maniera invisibile, come una magia. E allora caddi e rotolai come una palla fino al muro. Mi giudicai sconfitto; chiusi gli occhi e credetti d’esser morto. Nel deliquio, vidi un enorme inferno dove i bar vendono solo succo d’ananas. Fu allora che ripresi coscienza. Alzai le palpebre e scorsi una bottiglia ch’era ancora piena. La presi e la ruppi sullo zigomo di Testa di Gomito. Quello prese a girare come una trottola e diceva parole indecifrabili. Lo colpii di nuovo e perse i sensi. Guardai per un po’ il suo corpo immobile spalmato sull’asfalto lurido. Mi sentivo il più forte; ma sapevo che quando Testa di Gomito si sarebbe svegliato allora davvero avrei raggiunto l’inferno analcolico. Bisognava inventarsi qualcosa. Presi Testa di Gomito e lo caricai in macchina. Lo portai in spalla su per le scale. Alla fine avevo la schiena a pezzi e camminavo curvo. Lo misi a letto e gli rimboccai le coperte dopo aver innaffiato d’alcol le lenzuola. Poi mi sdraiai e venni avvolto da un sonno irrequieto. 
  Il mattino dopo dissi a Testa di Gomito che aveva del sangue raggrumato sulla fronte. Lui andò allo specchio. «Chi diavolo mi ha fatto questo?» Aveva la voce rauca come quella dei travestiti. «Non saprei», risposi. «Anche a me dolgono le ossa, e parecchi lividi mi coprono la schiena.» Allora quello tornò a letto, fiutò l’alcol dalle lenzuola e disse: «Devo aver bevuto assai, senti che puzza che viene». Io annuii con un cenno del capo. Testa di Gomito prese un fazzoletto e s’asciugò il sangue. Ricordo che non riuscivo a stare in piedi e il corpo mi sembrava privo dello scheletro. «Dobbiamo scoprire chi è stato e fargliela pagare», disse austero. «Sì, gliela faremo pagare», risposi. «Lo troveremo e allora sarà la fine, lo assaliremo in due, io e te», «Io e te, sì, la pagherà, oh, se la pagherà». 












sabato 27 ottobre 2012

Sabbia e poker.

  So che lo accusarono di superbia, e forse di megalomania, o di follia. Tali accuse sono fuorvianti o ridicole. Quando giunse ad Alloccopolis, la sua apparizione fu indecifrabile; l’immagine era quella di una macchiolina dai contorni vaghi, invisibili. Il vento gli remava contro mentre, con il petto davanti, passo dopo passo, mi raggiungeva. Disse di aver attraversato gli innumerevoli deserti equatoriali e di avere la sete del cammello. Ordinai due Punch bollenti alla banana; l’Ermetico bevve senza emozione il suo. Era un uomo, diceva, cui la vita non può più riservare sorprese, poiché aveva vissuto, seppur in attimi diversi, il rischio e la serenità. Raccontò dei negri kenioti, cui il tempo libero permetteva di contare i granelli delle sabbie; descrisse le donne sdraiate sulle amache ai margini delle oasi, con il naso schiacciato e i capelli spessi come le corde che reggono le navi; parlò a lungo di un bar – il Bombay bar – dove gli ubriachi persi nel vino di cocco si cacano nei pantaloni e continuano a bere, con le braghe legate alle caviglie. (Per mesi sognò d’essere come quelli e numerose furono le notti insonni.) Aveva viaggiato ininterrottamente per un tempo impreciso; beveva vini superiori e alloggiava in alberghi lussuosi. Disse di non avere più un soldo. 
  Nei tempi che seguirono, lo sappiamo, sempre laborioso, mentre si applica nei lavori più disparati. Costruì delle mura altissime, innumerevoli assolati pomeriggi trasportò il tufo per le scale ripide; devastò con la falce gran parte dei giardini pubblici, dove con una brocca buttava l’acqua nella terra arida e ad ogni brocca d’acqua che versava ne beveva una d’Aperol. Questo accadeva nelle ore assolate; al calar della notte, l’Ermetico frequentava bar infami e bische incivili. Si scoprì un raffinato giocatore di poker. Chi lo vide giocare, racconta di un’abilità sovrannaturale. La sua qualità era – presumo – quella d’accorgersi dei sottili andazzi della sorte, con una monotonia quasi barbara. Per anni applicò quell’unico (ma utilissimo) vantaggio; un giorno calcolò che possedeva tre volte i soldi di quando iniziò a mescolare le carte. Sapeva che quegli anni non erano andati persi e l’idea di una nuova vita lo rabbrividì nella fronte. Alcuni lo ricordano sulle spiagge renose, sdraiato, con un vestito elegante e le carte del poker strette nelle mani. Forse la solitudine animava quei momenti; forse pensava al luogo che doveva raggiungere, ai soldi, ai cammelli o alle donne. A volte ringraziava le stelle, simbolo di un destino avaro di occasioni ma, tuttavia, favorevole. L’Ermetico non perse tempo e raggrumò la somma nel portamonete; non erano molti soldi, ma bastavano per ciò che aveva in mente. Fece la sua apparizione nella bisca e si sedette al tavolo verde. «Sono qui per arricchirmi del vostro danaro», disse agli avversari. Riuscì a tener testa a lungo; ma giocava d’istinto e d’istinto perse. L’avversario rastrellò il contante sparso sul tavolo con un ghigno. L’Ermetico uscì dalla bisca a capo chino, lo sguardo fisso sui sandali in pelle di armadillo. 
  Di qui si hanno poche notizie, quasi nessuna scritta. La sua apparizione era furtiva e lesta. Gli Alloccopolisiani fecero il possibile per aiutarlo; le collette furono numerose e sincere. L’Ermetico, di natura dignitosa, accettava solo i soldi per l’Aperol. Prendeva nei palmi l’elemosina, contava i pochi spiccioli che gli occorrevano e restituiva il resto. «Solo lo stretto necessario alla sopravvivenza», diceva. Tirava sorsate dal collo della bottiglia sotto l’ombra dei ponti o degli archi ombrelliformi. Nessuno riuscì mai a consolarlo, nemmeno l’Aperol. Com’era prevedibile, non resse a lungo. Disse che tornava nei deserti, dai negri e dai cammelli; avrebbe calpestato di nuovo le oasi immense. Forse davvero la sabbia lo chiamò; era un po’ uno spaccone delle circostanze, e forse il destino ha un debole per la gente come lui. Ci lasciò una sera polverosa, elemosinandoci la stessa macchiolina con la quale era apparso.

domenica 21 ottobre 2012

L’opera eterna di Fabio Volo.

  La storia della letteratura, forse per la sua vastità, abbonda di enigmi. Molti di essi mi sono indifferenti, poiché sono – come mi pare di aver detto – un lettore edonista: nulla mi colpisce più dell’estetica, anche quando è fine a se stessa. Tuttavia, un mistero m’inquieta: la strana gloria di quel tale, di nome Fabio Bonetti, in arte Fabio Volo, cui le opere conobbero tiratura elevatissima. Lo scopo di questi appunti è quello di svelare – seppur parzialmente – tale indecifrabile enigma. 
  Sappiamo che la vita di un autore può essere metafora delle sue opere e viceversa. (Dostoevskij vuole forse raccontarci le claustrofobie della galera attraverso i labirinti mentali di Raskolnikov; la solitudine di Roquentin può essere la motivazione lucida del rifiuto di Sartre al premio Nobel; le pagine di Hemingway sono Hemingway.) Tali arbitrari esempi ci portano ad esaminare la biografia di quest’autore. Fabio Volo nasce nel 1972 in provincia di Bergamo, che è la città dove attecchiscono con vigore alcuni dei pensieri più profondi del popolo italiano, come quello del tenace Bossi, cui i motti più in voga sono “Noi ce l’abbiamo duro” e “Roma ladrona”. (Molti bergamaschi urlano con le mani alzate non appena queste parole vengono proferite dal pulpito.) Nell’età dell’adolescenza, Fabio Volo decide che nulla può più imparare dai libri e lascia la scuola dopo l’impresa della licenza Media. Nei tempi che seguirono lo sappiamo intraprendere una moltitudine di lavori diversi, alcuni dei quali formarono e levigarono il futuro scrittore di successo. Essi sono il panettiere, il batterista, il cantante. Non mancò di incidere alcuni singoli dance; genere tanto amato da filosofi, pensatori, artisti di ogni genere e di ogni tempo. Iniziò, nel 1996, la sua esperienza in radio, che gli spalancò le porte della notorietà. Due anni dopo, la svolta: la prima apparizione in tv nel noto programma culturale Le Iene. Al suo fianco, gente del calibro di Simona Ventura e Andrea Pellizzari, cui molti studiosi dedicarono infiniti trattati per svelarne l’inestricabile pensiero. 
  Nel 2000, Fabio Volo si giudica maturo per la pubblicazione del suo primo libro, che intitolò Esco a fare due passi. Quest’opera è, ovviamente, geniale. Cercherò di svelarne la complessa trama. Un DJ radiofonico si scrive una lettera che immagina di ricevere dopo cinque anni. Nella lettera annota la sua vita, le sue opinioni, i suoi incontri. Non mancano gli aforismi misteriosi. Ne trascrivo il più gagliardo, che richiama addirittura quelli biblici di Salomone: «C’è chi cerca l’altra metà della mela, io sto cercando ancora la mia mezza. Sono uno spicchio di me stesso». Quale maestosità di intrecci! Quale incredibile tecnica narrativa! È un peccato che autori come Saul Bellow non possano leggere tale capolavoro; il Nobel brucerebbe all’istante il manoscritto di Herzog, dove il protagonista è l’ebreo che manda lettere al mondo. Un enorme velo di vergogna lo avvolgerebbe. Insomma, uno scritto insuperabile. 
  Negli anni successivi il genio di Fabio Volo non conosce limiti: irrompe nelle sale cinematografiche con il film Casomai, pilastro del cinema di sempre che lo sublimò alla candidatura del David di Donatello come Miglior Attore Protagonista. (Consiglio a tutti la visione di tale pellicola, poiché in essa sono racchiusi, anche se in maniera velata, i segreti invisibili dell’uomo e i significati astrusi dell’esistenza.) Dopo soli tre anni, ecco il secondo libro: È una vita che ti aspetto. La trama del secondo non è meno efficace di quella del primo: Francesco parla della propria vita, che giudica incomprensibile. Vengono trascritte, in prima persona, le sue opinioni, i suoi incontri e i suoi amori. A prima vista pare impossibile che un autore spazi, in così poco tempo e con tale profondità, in argomenti talmente diversi fra loro (sei lunghi anni passarono, ad esempio, dalla stesura di Gente di Dublino a quella dell’Ulisse), ma Fabio Volo è pensiero vivo e la sua intelligenza può risultare inarrivabile. La ripetizione di tale anomalia ne è la prova. Nel 2006, il terzo libro: Un posto nel mondo. Nel 2007, ecco Il giorno in più. Nel 2009, Il tempo che vorrei. Nel 2011 viene pubblicato il suo ultimo capolavoro, Le prime luci del mattino. Tutti questi libri (ma sono qualcosa in più di semplici libri) indagano nel profondo dell’uomo fino a toccarlo, e leggendoli si ha la sensazione che una qualche verità atavica venga svelata. 
  Alcuni critici, nell’ignoranza, dicono che le opere di Fabio Volo sono – risum teneatis – dei libricini per povere massaie senza cervello, e che egli non possa neanche essere classificato come scrittore. Costoro non comprendono (non vogliono comprendere) la realtà segreta dei suoi scritti, che rimarranno comunque immutabili nel tempo come quelli di Platone, Aristotele, Ariosto, Donne, Borges e di tutti gli altri classici (che Fabio Volo supera nella tecnica e nei concetti). Il fatto che venga letto sulla sabbia, sotto l’ombra delle palme, o che spesso i suoi libri siano accompagnati dalla Settimana Enigmistica, oppure che i suoi fans siano persone senza alcuna esperienza significativa di lettura, ebbene, ciò non dimostra nulla, poiché questo autore è principio e specchio di un qualcosa, che è l’uomo universale e il suo destino.

domenica 14 ottobre 2012

Spumante al Night Club.

  Ci fu un tempo in cui lavoravo in un Night Club. Uno degli avvenimenti di quel periodo è inverosimile e non m’aspetto d’essere creduto, poiché l’unico scopo di questa nota è quello vano e leggero della chiacchiera, pour parler. Ai tempi ero poco più di un ragazzo e il sesso era quello bidimensionale delle foto sulle riviste per adulti che tenevo segrete nell’armadio. Molti anni sono passati da allora, ma ancora mi è dato ricordare, e forse narrare, l’accaduto. D’estate avevo appreso l’arte magistrale del barman presso un bar del lido. La mia conoscenza dei cocktail era precisa e vasta. Decisi, altresì, di sfruttare tale – meritata – qualità. Fu così che mi feci assumere in un night club come barista. Non sapevo cosa avvenisse in tali luoghi oscuri, ma ero elettrizzato dal sapermi vicino a tante puttane. (Le riviste, anche se numerose, non bastavano più, e sentivo il bisogno di passare all’atto pratico.) Ricordo il momento della vestizione che precedette la prima notte di lavoro. Ero in giacca e cravatta e con i capelli impomatati; misi anche un dopobarba al melone, credo per sentirmi uomo. Nonna Gilda, che assistette all’intera preparazione, mi ammoniva e predicava di stare lontano dalle prostitute e dai tizi che le circondano. «La gente che gira di notte non è quella che gira di giorno», sentenziò mentre mi stringeva il nodo alla cravatta. È chiaro, pensai fra me, e quand’è che uno dovrebbe dormire. Non lo sapevo (non potevo saperlo), ma quelle parole racchiudevano, neanche troppo velatamente, la profezia. Già la prima notte, difatti, fui vittima del nonnismo illogico del titolare. Il locale era diviso in due aree; una di queste, la più scura e intima, era delimitata da sottili mura di cartongesso. La storia andava così: con l’acquisto di una bottiglia (dal prezzo vertiginoso) si aveva diritto a quarantacinque minuti d’intimità con la ragazza. Passati i quarantacinque minuti, un’altra bottiglia veniva recapitata al tavolo in maniera automatica, con il conseguente raddoppio dell’importo. Tale meccanismo prosciugava il cliente distratto dai suoi averi. Ovviamente, il delegato per l’operazione infame era il sottoscritto. Quindi arrivò questo tizio; aveva la giacca di velluto a frange larghe e si vedeva che era quella della domenica. Il viso era rosso come il Campari e, nonostante già barcollasse, ingurgitò sei o sette GastroRum d’un fiato. Poi scelse una puttana brasiliana e sparì nell’area privata. Quando il tempo della bottiglia ebbe fine, il titolare mi disse: «Vai e portargliene un’altra, fila», «Sì, capo». Supino al comando, presi vassoio, bicchieri e spumante e mi diressi verso la coppia appartata. Quel che il titolare non mi disse è che nel raggiungere la coppia avrei dovuto battere i bicchieri sul metallo del cestello. Il tintinnio del vetro avrebbe avvertito il mio inopportuno arrivo. Corsi così al tavolo di quelli e in un attimo ero da loro. C’era il tizio in velluto che, seduto sul divanetto laido, quasi dormiva, mentre la brasiliana se lo lavorava in ginocchio. Non si accorsero di me e io credetti d’essere negli agi della normalità. Poggiai il vassoio e i bicchieri sul tavolo; la puttana (che aveva la postura del cane) ci dava dentro. Tirai via la linguetta e il tappo di sughero esplose nell’aria come una fucilata. Lei si piegò in uno scatto di terrore; il tizio rimase immobile ad occhi chiusi. «Ma che succede?» disse lei asciugandosi le labbra con il fazzoletto. «Niente, perché?», «Ti presenti così, all’improvviso?», «E allora?», «Vai via, idiota», «Va bene, ma la bottiglia ve la lascio», «Via, ho detto». Quando tornai al bar il titolare rideva come una scimmia e sembrava stesse per soffocare. «Piaciuto?» mi diceva. «Sì, capo, piaciuto.» Passò una mezz’oretta e la prostituta fece ritorno. Andò a lamentarsi direttamente dal boss. «Ma chi hai preso a lavorare?» Il titolare, impassibile, l’ascoltò per un po’; poi disse: «Zitta, puttana», «Sì, capo», rispose lei docile. Subito dopo, il tizio in velluto venne ad ordinarmi da bere. Non riusciva a tenere aperti gli occhi e per un attimo ho pensato che stesse per svenire. «Senti», gli dissi. «Mi spiace per poco fa.» Quello alzò leggermente la testa e riuscì a dire: «Non ti preoccupare ragazzo, anche tu un giorno farai lo stesso». Bevemmo insieme un liquore ai pinoli e lui mi elargiva grandi pacche sulle spalle. Io non farò mai la figura di merda che hai fatto tu, pensavo. Il mattino, alla chiusura, la puttana brasiliana mi chiese un passaggio; acconsentii, poiché era di strada. Durante il tragitto ripensai alle parole del tizio. Anch’io farò lo stesso, un giorno, mi dicevo. Decisi di abbreviare i tempi. Fermai l’automobile inchiodando sul ciglio della strada. Presi l’argomento alla larga. Gli chiesi com’era finita a fare la puttana e se la cosa le dispiaceva. Mi rispose con un secco no; disse che la vita in Brasile è dura e che lei lavorava tutto il giorno nelle piantagioni come una schiava, per una paga da fame. «Qual’era la tua mansione?» gli chiesi non troppo interessato. «Raddrizzavo le banane ch’erano troppo curve con le mani, e la sera mi dolevano le dita», «E adesso?», «Adesso faccio lo stesso, ma mi becco un mucchio di quattrini». Capii che, pur volendo, non avevamo nulla da dirci. E allora le chiesi di farmi lo stesso lavoretto che aveva fatto a giacca-di-velluto. «Gratis?» chiese sospettosa. «Sì, dopotutto siamo colleghi, e ne ho una gran voglia», «Sei troppo piccolo, ragazzino». Deluso, la riaccompagnai fin sotto casa. Nei tempi che seguirono sfogliai infinite riviste, ma niente era più lo stesso. L’immagine reale si sovrapponeva, dominandola, a quella più banale delle foto. Avevo conosciuto, seppur impersonalmente, il sesso.

domenica 7 ottobre 2012

Andiamo alla monta.

  In una notte da vagabondo, nell’ora che precede l’arrivo del sole, l’Erotomane provava pena per il fatto che dovessi dormire in macchina. Con le braccia s’appendeva a due ragazze-peso-massimo e quelle muovevano la testa come due grosse betoniere. Una delle due sputò qualcosa di vischioso a terra. 
«Perché non sali da me?» chiese l’Erotomane ammiccando. «Dovrei avere qualcosa da bere in frigo, e poi ci sono queste due vacche che non aspettano altro che essere munte.» 
Senza entusiasmo, mi vidi costretto ad accettare. “È un grosso affare grasso,” pensai. Nel tragitto ci fermammo in un bar e offrimmo da bere alle ragazze. L’Erotomane ordinò quattro Ice’Frodisiacò alla morfina da mezzo litro l’uno. Li portò al tavolo e impose un tenace brindisi. Le tizie si fiondarono sugli stuzzichini come due avvoltoi. Assalirono rapaci il vassoio, spazzolando sei ciotole di salatini in pochi minuti. Io e l’Erotomane assistevamo impotenti. Alla fine, afflitti, ci dividemmo un’oliva. Ero in situazione di stress e per tutto il tempo non feci altro che guardarmi la punta dei mocassini. Viceversa, l’Erotomane era come il pesce nell’acqua. 
«Vedrai, stasera si va alla monta,» mi disse. «Sono ore che le faccio bere.» 
«Basta questo?» chiesi. 
«A volte anche meno.» 
Finimmo i drink innaffiando il tempo di chiacchiere insulse, e forse incresciose. Prima di uscire dal bar le tizie presero una ventina di pacchi di patatine da asporto. In macchina ne aprirono un paio. Le sentivo ruminare mentre se ne stavano sedute come due Budda nel sedile posteriore. L’Erotomane prese sonno durante il tragitto. Notai – con un certo orrore – che aveva il pacco pronunciato e, forse nel deliquio o nel sogno, se lo accarezzava. 
“Ci sono uomini che non possono essere nient’altro che quello che sono,” pensai, “anche se dormono.” 
Parcheggiai. L’Erotomane aprì il portone e c’imbarcammo nell’ascensore. La salita fu triste e scevra di parole. Una volta nell’appartamento, l’Erotomane, sempre barzotto, preparò un bidone di pasta ai quarantaquattro formaggi. Ma io non avevo fame e diedi la mia porzione ai Budda. Ovviamente, anche stavolta spazzolarono tutto. Una volta nutrite le vacche, l’Erotomane si giudicò pronto per la monta. Prese una di quelle e la portò in camera. Io rimasi con la più grassa e disgustosa delle due. 
«Andiamo anche noi in camera?» chiese. 
«Oh, non credo d’essere pronto a questo.» 
«Allora potremmo cucinarci qualcosa, che dici?» 
«Andiamo in camera». 
Non avrei retto la scena, credo. 
Ci sdraiammo sul divano e lei mi accarezzava la pancia con le sue mani che sembravano delle pale. «Non voglio,» dicevo. Ma quella pareva sorda. Mi montò sopra con dubbia agilità mentre emetteva degli strani gemiti. Era tutto molto grottesco. Nell’altra camera, quella dell’Erotomane, sembrava stessero sgozzando qualcuno. 
«Ma che succede di là?» chiesi preoccupato. 
«Quello che dovrebbe accadere qui,» disse l’obesa con disappunto. 
I grugniti al di là del muro erano terrificanti. Cadde anche un qualcosa, credo l’armadio, e sentivo rompersi dei vetri. 
«Dovrei scannarti come un maiale per fare lo stesso.» 
Lei mi guardò un po’, poi disse: 
«Va bene, ho capito, mi preparo un maritozzo con la cioccolata.» 
Rimasi solo nella stanza. La fiacca luce lunare entrava di taglio dalle persiane. Mi sentivo solo e molle nell’anima. «Sono un mollusco,» mi ripetevo nello sdegno. Sentii qualcosa di simile all’esplosione di un petardo venire dall’altra stanza, un’esplosione seguita da una quiete sinistra. Poco dopo l’erotomane fece la sua apparizione nella stanza. Aveva un accappatoio rosa e dalla tasca veniva fuori la cappella di un dildo platinato. Mi guardò succhiando uno stuzzicadenti. 
«Allora, com’è andata?» chiese. 
«Non ho fatto nulla,» risposi sincero. 
L’Erotomane strabuzzò gli occhi e si fece rosso in viso. 
«Niente?» 
«Niente di niente.» 
Capii che le sue erano smorfie di disapprovazione. Con tutta probabilità, mai nulla di simile era successo dentro quel maledetto appartamento. Tutti si vergognavano di me. “Avrei dovuto farla urlare,” pensavo, “mi sarei risparmiato questa figuraccia.” Fu lì che presi la decisione di riscattarmi. Tornai in cucina e afferrai la tizia per un braccio. Aveva la faccia sporca di cioccolata e, per quanto me ne importava, poteva anche essere merda. Chiusi con impeto la porta. 
«Oh, Robin, ti sei deciso allora? Dai prendimi, sono qui.» 
“Quel che si deve fare va fatto,” pensai. 
«Butta quel maritozzo, ora ti faccio vedere io.» 
Lei eseguì l’ordine e in un attimo gli fui sopra. L’afferrai per il collo cercando di tenerla ferma. Poi presi una sciarpa e gli legai i piedi. Ora non sarebbe potuta scappare. 
«Oh, Robin, come sei impetuoso,» mi diceva con gli occhi umidi. 
«Ora vedrai come ti faccio urlare,» dissi a denti stretti. 
Feci leva con il suo braccio su una delle gambe del letto. Lei iniziò a dimenarsi come una pazza. Aumentai la pressione fino a rompergli il gomito. Il grido di lei fu disumano. Poi la presi a calci fino a quando non svenne. La ricomposi sul letto e la coprii con un lenzuolo. Soddisfatto, la guardai: sembrava la Sacra Sindone dipinta da Botero. 
Uscii dalla stanza. L’Erotomane fumava una sigaretta al Rabarbaro. 
«Cavoli, però,» mi disse compiaciuto, «per un attimo ho creduto che fossi un mollusco.» 
Dissi che la tizia era nel letto che dormiva placida e soddisfatta. Raccomandai di non disturbarla. L’Erotomane mi disse se volevo fare un giro anche con l’altra. Stavolta declinai l’invito e salutai. Uscii dalla casa rimpolpato nell’ego. Tornai in macchina e feci qualche chilometro prima di fermarmi. Ero stremato. Mi sdraiai e cercai di dormire, ma qualcosa mi punzecchiava la schiena. Accesi la luce e vidi che il sedile era foderato di resti di patatine. 
“Che schifo,” pensai, “avrei dovuto scannarle davvero, entrambe.” 
Il giorno dopo andai all’autolavaggio. Neanche una briciola fuggì ai gorgoglii dell’aspirapolvere. Strofinai con la pezza tutti gli interni, e lo facevo con una foga che non era mia, poiché quando io pulivo non pulivo, volevo sciacquarmi dalla mente l’immagine dell’Erotomane e delle sue luride.

domenica 30 settembre 2012

Animalista, cuore di cane.

  Speculazione che è andata logorandosi nel corso degli anni, quella dell’animalismo. Gli stessi animalisti lo trascurano, forse perché sprovvisti della portentosa – ma inconfessabile – consapevolezza dell’indole demolitrice dell’uomo. Chi, mosso dal bisogno dell’animale, fa scivolare il cibo nelle ciotole, può incappare nell’errore, nella negligenza, nell’orrore dell’egoismo. Tempo fa, spinto anch’io da tale – provocatorio – bisogno, mi rivolsi ad una nota associazione di animalisti. Mi apprestavo al grande passo: il mio primo animale domestico. A questa curiosa variazione dobbiamo numerosi eventi: l’aria spigolosa delle campagne, gli spazi indomabili, la vasta metratura di un casolare, la disoccupazione, la neve farinosa, un vago senso di incompletezza, lo studio dell’improvvisazione Jazz, la solitudine. Telefonai, quindi, a questa associazione chiedendo l’affidamento di un gatto qualsiasi. (La mia ignoranza in merito favorì l’occultamento delle specifiche del felino.) Una voce vetrosa, implacabile, annunciò la castrazione come condizione indispensabile all’affidamento. Sentii il sangue addensarsi nelle vene; l’aria s’appesantì nel piombo dello spavento. Il fatto che degli animalisti – dichiarati, per giunta! – fossero capaci di un orrore simile piegò le mie ginocchia sul marmo varicoso. Quando poggiai la cornetta ebbi un senso di sollievo, e forse d’inquietudine. Quella notte presi una pastiglia di Tavor; crollai sul lettino e dormii profondamente, ma sognai d’essere un eunuco rincorso dai propri testicoli. Il mattino dopo, sollecito, spedii una lettera all’associazione. In allegato, un documento che serbavo per la stesura di un racconto sugli obbrobri dell’esercito tedesco. Tale allegato riportava la traduzione letterale del discorso di Jürgen Stroop, infimo Generale delle SS, al suo diretto superiore nell’attimo che precede la “Notte dei Cristalli”, tristemente nota per l’uso monotono della crudeltà. Ne trascrivo le righe cruciali: «Non credo che lo sterminio immediato sia la soluzione migliore, poiché potremmo adoperare i ratti (Stroop era uomo d’ingegno nell’infamia [N. d. A.]) nelle fabbriche fino allo sfinimento; propongo, quindi, la castrazione come soluzione ottimale all’estinzione della specie». Gli orrori dell’egoismo (cui credo di aver fatto cenno) possono portare anche – e soprattutto – a questo. È vero: molti gatti muoiono sbranati dalla faina famelica. È vero: molti finiscono triturati dai pneumatici impietosi; altri vengono uccisi da gente abietta per un gusto deplorevole; ma nessun danno è peggiore dell’omissione forzata della prole, poiché si nega il diritto all’esistenza delle segrete vite del futuro; un intero genoma sparisce. (Pongo quest’infelice pratica giusto un gradino al di sotto della morte.) Allargando la visuale, trovo doveroso menzionare anche gli animalisti “da strada”; quelli, cioè, che tutti conosciamo. Qui lo scenario è infernale: orde di cani eunuchi costipati in appartamenti fumosi; gatti depressi davanti ai televisori inespressivi; lacci, nodi, lettiere, spazzole per i peli e Dio sa cos’altro. Il tutto gestito da fantomatici animalisti convinti di far il bene della bestia (almeno questo è ciò che riferiscono). Io – come si capisce – dissento. La scarsa fiducia nell’uomo, vettore violento della schiavitù inconsapevole, ma non incolpevole, ne è la motivazione lucida. A mio parere, l’animale è (dovrebbe essere) autonomo, forastico, dedito al pericolo inappellabile della vita, guerriero, senza padroni né inconcepibili cappottini o guinzagli e agile nello scatto. In una parola: romantico. Alcuni “animalisti” adducono alla propria bestia alcune peculiarità dell’uomo, come l’affetto o l’uso della parola. Se ciò fosse vero, cani, gatti, tartarughe, serpenti e criceti rivendicherebbero all’unisono la libertà dall’amore egoista dell’uomo padrone. Il loro grido sarebbe assordante.

domenica 23 settembre 2012

La setta degli invalidi.

  L’orrore metafisico del vuoto è superato da quello più reale e incombente del parcheggio. In una notte da vagabondo, nell’ora che precede l’arrivo del sole, ne constatai l’enorme difficoltà. Vagavo con disordine logico nei labirinti grigi di Alloccopolis. Feci (senza gloria) una dozzina di volte il giro dell’isolato in cerca dello spazio indispensabile. Abbassai lo sguardo e vidi che la lancetta della benzina segnava impietosamente la riserva. Il tempo mi remava contro. Fermai l’automobile; accesi la radio e tirai giù una sorsata di GinPiscio, che rimpolpò le mie speranze. Ero in situazione di stress. Riavviai il motore e feci un altro paio di circumnavigazioni del palazzo. Niente. Decisi di andare oltre, ad est. Trovai un parcheggio per i disabili e vi infilai la macchina. Stremato, abbassai il sedile e presi sonno, ma sognai d’essere l’ultimo arrivato nei cento metri para olimpici. A svegliarmi furono le nocche vetrose di un vigile. Scesi dall’automobile e mi stropicciai gli occhi. «Devo farle la multa», mi disse. «Sono d’accordo.» Compilò il verbale e me lo stese; io, meccanicamente, lo firmai. Dopo un paio di settimane, ero poggiato ad un muro e tiravo boccate da un sigaro alla fragola. Un invalido scese dalla propria vettura lasciando lo sportello aperto. Come dice Monicelli: «Il genio è intuito e velocità di esecuzione». E io fui geniale. Mi catapultai all’interno della vettura; strappai il cartellino per il parcheggio dal vetro anteriore e corsi via disperdendomi nelle vie del quartiere. Una volta a casa, guardavo con emozione il potente foglio plastificato. Da ora, mi dissi, niente più multe e niente più vagabondaggi notturni; troverò parcheggio ovunque. Provavo un senso di potere. Per rendere più verosimile il tutto acquistai da un pensionato in bolletta un paio di stampelle cromate. Furono tempi di maestosa comodità: parcheggiavo in qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualsiasi luogo. Quando scendevo, una cinquantina di metri con le stampelle eliminavano ogni sospetto. Insomma, ero felice. Ma non durò molto. («Stolto è l’uomo che si crede l’unico furbo», disse il filosofo, e io incappai – stoltamente – nell’errore di crederlo.) Una mattina, quando le macchine erano ancora avvolte di brina, mi apprestai ad occupare il solito spazio per i disabili, ma una vettura fu più lesta di me nell’infilarsi. Presi le stampelle e scesi dalla macchina. «Quello è il parcheggio per i disabili», urlai. Quando il tizio fece la sua apparizione vidi che un enorme collare ortopedico gli cingeva il collo come una sciarpa. «E io che sarei?», disse lui. Feci qualche passo in avanti e notai che anche lui aveva il permesso. Teneva nastrato al vetro quel maledetto foglio e quello rifletteva la luce del sole e mi accecava, come uno specchio. La discussione montò in un attimo. «Sono più disabile di te», dissi. «Ah sì? E chi lo dice?», «Non ho l’uso della gamba destra; credi che porti le stampelle per bellezza?», «Io ho ricevuto il colpo di frusta, e la mia gamba è di legno». Si batté il palmo sulla coscia e ne venne fuori un rumore metallico. Non rimaneva molto da fare; lo colpii alla testa con la stampella. Lui rantolò a terra come un cilindro. Gli montai sopra; strappai via quel ridicolo collare e iniziai a strozzarlo. Aveva il viso paonazzo e un moncone di lingua veniva fuori dalle labbra. Poi quello mise la mano nei pantaloni; estrasse una lastra metallica e mi colpì alla tempia. Svenni. Quando mi svegliai ero legato ad una sedia; ai polsi, delle corde spesse che mi laceravano la pelle. Il finto disabile mi tirò una secchiata d’acqua. «Hai finito di rubare parcheggi», mi disse. Tutt’intorno vidi carrozzelle, stampelle, collari, occhiali da cieco e una decina di permessi per il parcheggio. «Anche tu sei un falso», intercalai. «Sì, da anni, credi di poter venire nel mio quartiere e fare come ti pare?», mi ammonì seccamente. Capii di essere nei guai. Di lì a poco arrivò una folla di gente adibita al pestaggio. Entravano con le loro carrozzine e stampelle, e appena la porta veniva chiusa si libravano agilmente sulle proprie gambe. Era una maledetta setta di pseudo invalidi; una volta avevo letto di loro su una rivista metropolitana, ma credevo si trattasse di una leggenda. Non so per quanto tempo rimasi legato. Mi picchiarono per giorni e giorni; per non stancarsi si davano il cambio ogni ora. Quando decisero che era abbastanza mi scaricarono da una macchina in corsa a pochi metri dal pronto soccorso. Ero ridotto male e il corpo mi dava la sgradevole sensazione di essere privo delle ossa; non sentivo più né gambe né braccia. A distanza di qualche anno dall’accaduto, ho davvero bisogno delle stampelle; alla fine, il destino dell’invalido reale mi ha raggiunto. Ciò, tuttavia, non mi dispiace; ora ho il mio permesso per il parcheggio, quello vero, quello che mi spetta di diritto, e la notte ancora posso stare tranquillo quando mi appresto all’inestricabile ricerca dell’agognato spazio. Ancora una volta devo considerarmi felice, e forse quella maledetta setta non era poi così cattiva; forse hanno voluto aiutarmi in qualche modo; forse un giorno avrò modo di ringraziarli. Ad oggi, quando scendo dalla macchina e poggio i palmi sui braccetti delle stampelle, ebbene, mi sento invincibile.

domenica 16 settembre 2012

La truffa.

  Attendevo l’arrivo del treno senza troppi fanatismi. Di tanto in tanto estraevo l’orologio dal taschino; le lancette, impietose, indicavano che la tizia sarebbe arrivata non prima di un’ora. Se qualcosa si muoveva dentro quell’orologio, be’, lo faceva con molta calma. Mi sedetti e il marmo varicoso della panchina prese ad irrigidirmi le cosce. Fu allora che lo vidi. Aveva l’aria distinta del gentleman e l’abito elegante. I capelli erano impomatati a dovere ed emanava un gradevole profumo di tasso. «Buongiorno», mi disse. Notai che il suo accento non tradiva alcun dialetto. «Buongiorno», risposi gentile. Si sedette al mio fianco; lo immaginai come una persona affabile, educata. «Aspetta qualcuno?», «Una ragazza», «Oh, è in anticipo?», «Un’oretta, su per giù», «Anch’io aspetto qualcuno, potremmo aspettare insieme, non trova?», «Sì». Mi disse di essere un importante manager; lavorava per una delle aziende che andavano per la maggiore; io, silenziosamente, lo ascoltavo. «Ho anche una barca», aggiunse. «L’ho acquistata un mese fa», «Complimenti». Raccontò di banche, speculazioni, somme enormi di denaro che migravano segrete da un continente all’altro. Insomma, ostentava – seppur dignitosamente – la sua ricchezza. Poi ebbe inizio quella che solo in un secondo momento capii essere una manovra complessa e premeditata. «Lei è un bravo giovanotto», disse elemosinandomi un buffetto sulla guancia. «Venga, mi accompagni al bar, le offro da bere.» Accettai con entusiasmo. Qualcosa di fresco è quello che ci vuole, pensai, e poi è gratis. Ci avvicinammo al bancone e un barista affabile ci chiese l’ordinazione. Io ordinai un Vodka’Gold’DeLuxe alle ghiande e il tizio fece lo stesso. Sapevo che quella era la bibita più costosa, ma non mi sentii in colpa. Dopotutto, mi dicevo, questo è milionario. Facemmo un rapido brindisi e il riccone scolò la sua bibita in un sorso. Poi disse di dover andare in bagno. Lo vedevo mentre, con fare pigro, si chiudeva la porta alle spalle. Sfogliai la gazzetta un po’ annoiato. Il tizio non faceva ritorno. Guardai l’orologio; era un quarto d’ora che era sparito al cesso. Iniziai a preoccuparmi. Forse si sente male, pensai, forse è svenuto. Passai all’azione. Mi diressi verso il bagno e bussai. Niente. Feci un secondo tentativo. Niente di niente. Chiamai il barista e gli spiegai la faccenda. Quello prese la chiave di riserva e aprì la porta. Il bagno era vuoto; sopra la tazza sventolavano le tendine di una finestra aperta. Sul muro, le impronte laide dei mocassini. La verità si svelò colpendomi come un maglio: il tizio era fuggito e ora toccava a me pagare quei maledetti Vodka’Gold’DeLuxe. Quello del miliardario era solo un camuffamento per scroccare la costosa bibita. Io e il barista tornammo al bancone. Lo guardai e gli dissi: «Doveva pagare lui», «Io non vedo nessuno, amico», «Quel tizio che era con me, il miliardario», «Qui ci sei tu», «Già», «E paghi tu», «Già, ho capito». Misi la mano in tasca; estrassi il portamonete e, anche se controvoglia, pagai la somma vertiginosa. Ero arrabbiato; ero arrabbiato per aver fatto la figura del fesso ed ero arrabbiato per non avere più un soldo in tasca. Tornai ai binari e vidi il treno che attendevo sbuffare all’orizzonte. Dopo pochissimo sentii lo scricchiolio dei freni e la mia amica scese dalla vettura. Gentilmente, mi offrii di portargli le valigie. «Robin, come stai?», mi chiese. «Benissimo», «E il lavoro, come procede?», «Alla grande. Guadagno tantissimo. Ho anche una barca», «Complimenti». Era una bella ragazza, con i capelli spessi e il viso aristocratico. «Sei carina», gli dissi. «Stai proprio bene oggi. Hai sete? Vuoi qualcosa da bere?», «Volentieri», «Bene, seguimi. Il bar è di là». Di nuovo poggiai il gomito sul bancone e misi le valigie a terra. «Cosa bevete?», chiese il barista. «Un Vodka’Gold’DeLuxe alle ghiande per me, grazie.» La mia amica prese un ponce alla banana. Scolai d’un sorso la bevanda e chiesi le chiavi del bagno. Il barista mi guardò supplichevole; lo trafissi con lo sguardo prima che potesse aprir bocca. Chiusi la porta; m’arrampicai sul cesso e uscii anch’io dalla finestrella. Non so per quanto tempo corsi, ma alla fine ero sudato come un obeso ad agosto. Come si capisce, non rividi (né volli rivedere) la mia bella amica: avevo perso una ragazza, è vero, ma quel barista non mi avrebbe mai più visto come un idiota. Fu una questione di dignità.

martedì 11 settembre 2012

Vento di guerra.

  La storia di quell’estate (che qui ricalco) ha la confusione e la crudeltà delle cosmogonie belliche, e molto della loro stupidità: appostamenti in angoli oscuri, sotterfugi, complotti, bande di nemici che scorrazzano ordinati, subdoli inganni, imboscate e così via. Volendo procedere per ordine, debbo l’inizio di tutto all’unione di un uomo e della sua ostinata fobia. Il nome: l’Ipocondriaco. Era di aspetto rovinoso, ma monumentale. Il collo corto e taurino, il petto inespugnabile, le braccia gonfie di muscoli, il naso spigoloso da pugile, le gambe storte come quelle di un cavallerizzo o di un terzino di spinta. Tuttavia, tale granitico aspetto aveva l’unica funzione di celare l’enormità delle sue ossessioni. Viveva con la paurosa e perenne convinzione d’ammalarsi. 
I guai peggiori arrivarono quando fummo costretti a cambiare casa. Come ho detto, era l’inizio di un’estate calda e pigra. Il nuovo domicilio era un piccolo seminterrato, con un lento e pesante ricambio d’aria. Le finestre davano nel cortile interno del palazzo, ad altezza del pavimento. Il primo risveglio fu drammatico. Aprimmo le finestre e, a pochi passi da noi, un centinaio di piccioni roteavano vorticosamente confondendosi l’un l’altro, come un branco di zebre. Sì, un centinaio di piccioni che facevano cose da piccioni, come beccare o – cosa più schifosa ancora – spandere il loro impietoso guano su tutto il pavimento, copiosamente. La merda, una volta seccata, mutava in una polvere sottile che, spintonata dal vento, entrava in casa e quindi nelle nostre narici. 
L’Ipocondriaco chiuse la finestra con uno scatto, corse verso la scrivania e accese il PC. Dopo qualche minuto entrò nella mia stanza con una faccia da funerale e un foglietto fresco di stampa fra le mani. 
«Notizie orribili,» disse. «La merda di quei maledetti topi volanti è portatrice di oltre sessanta malattie.» 
«Davvero?» 
«Sei mortali,» concluse serio. 
Se l’Ipocondriaco voleva spaventarmi, be’, andava alla grande. Controllai il foglio verificandone la veridicità. I nomi di illustri medici a piè di pagina non lasciavano spazio al dubbio: la nostra salute era in pericolo. Decidemmo di reagire. Studiammo per giorni le arti belliche. Alla fine usammo la più monotona delle strategie: togliere i viveri al nemico – alias impedire che le tovaglie dei coinquilini sovrastanti si gonfiassero nei balconi, spargendo le loro briciole. Sicché l’Ipocondriaco puntellò in portineria un bigliettino che pregava i “gentili condomini” di evitare tali nefaste manovre del dopopranzo. Purtroppo, maleducazione e menefreghismo fecero cadere le nostre preghiere nell’abisso dell’indifferenza. Le tovaglie continuavano a sventolare come bandiere; i piccioni banchettavano felici; il vento di merda – aiutato dalla calura – acquistava quindi densità e corpo. 
Il secondo tentativo fu ancora più fallimentare. Impregnammo di veleno un tozzo di pane e lo tirammo nella folla di piccioni. Venimmo umiliati. I piccioni mandarono avanti il più malconcio di loro – un piumaggio misero, una sola zampa, un occhio cavo. Quello diede un paio di beccate e cadde esangue. Gli altri nemmeno si avvicinarono al tozzo avvelenato. Dopo un paio di giorni presi un sacco, tolsi la carcassa e la gettai nell’immondizia. Una roba vomitevole. 
Com’era prevedibile, l’Ipocondriaco uscì di senno. Roso dalle sue fobie, comprò un fucile ad aria compressa, intarsiò un buco nel vetro, tirò fuori la canna, aspettò il momento giusto e sparò all’impazzata sul gregge di piccioni. Ci vollero una dozzina di sacchi per tirar via tutti quei cadaveri. Ma i piccioni non diminuirono; anzi, al posto dei caduti (taluni vecchi e malmessi), se ne sostituirono dei nuovi (più giovani e in forze). 
«Che disgrazia,» imprecava l’Ipocondriaco. 
«Sono semplicemente più forti,» dissi io. 
Capimmo che era vano insistere. Bisognava accettare la sconfitta. Non rimaneva che cambiare casa. Rimpacchettammo la nostra roba per l’ennesimo trasloco. Mentre l’Ipocondriaco chiudeva l’ultimo pacco, un’idea – che mi affretto a definire diabolica – lo pervase. 
«Seguimi,» mi disse secco e duro. 
C’imbarcammo nell’ascensore e sbucammo sul tetto del palazzo. L’Ipocondriaco si sporse leggermente dal cornicione. 
«Che fai?» chiesi preoccupato. 
Senza dire nulla, si sfilò la patta, lo tirò fuori e iniziò ad urinare in testa ai piccioni. 
«GENIALE!» urlai eccitato. E feci anch’io lo stesso. Muovevo in maniera alternata il membro per ottenere lo stesso effetto degli irrigatori professionali. Li colpimmo? Chi lo sa, da lì sopra era impossibile capirlo, ma venimmo pervasi da un senso assoluto di potere. 
Dopo un paio di giorni eravamo già nella nuova casa. Questa volta scegliemmo un attico. La seconda notte l’Ipocondriaco mi svegliò con un urlo disumano. 
«HO PESTATO UNO SCARAFAGGIO!» 
Accesi la luce. Una miriade di quei cosi s’infilò disordinatamente in un buco sotto la doccia. 
“Dio, non farmi questo,” pensai. 
L’Ipocondriaco tornò con il consueto foglio stampato. Ne lesse alcune righe ad alta voce. 
«In caso di guerra nucleare, sulla terra, sopravviverebbero solo topi e scarafaggi.» 
«Questa volta sarà dura,» dissi disperato.

lunedì 27 agosto 2012

Un attore enorme.

  Ho constatato che nella mia videoteca ci sono dieci polverosi VHS dell’agile John Holmes. Posso dirlo: sono un fruitore edonista: non ho mai permesso al mio senso del dovere di interferire in una passione così personale come l’acquisto di porno-materiale, né ho mai tentato due volte la fortuna con un attore ostico, e non ho mai acquistato VHS – meramente – a mucchi. Quella perseverata decina evidenzia, quindi, la continua visibilità di John Holmes. Solo in lui ho verificato un simile occultamento o invisibilità dello sforzo. Il semplice elogio non è illuminante, occorre qualcos’altro. Pare evidente che in John Holmes vi è qualcosa in più che non sia il semplice fanatismo meccanico: vi è un piacere disinteressato nello sdegno. Nei suoi film, oltre all’introduzione del pene, avvengono con naturalezza un’infinità di altri atti, alcuni (forse) deplorevoli. Si sommano sputi, insulti, calci, mani callose tirano i capelli, forzature, donne inguainate in reti da pesca, giocattoli inverosimili, nani, donne-uomini, uomini-donne e Dio sa cos’altro. In una parola: l’arte. Mi dispiace il fatto che in Europa come in America i suoi film siano passati in secondo piano. Molti produttori arrivano persino a negargli la primazia dell’accattivante genere. Essa, tuttavia, gli spetta.

martedì 21 agosto 2012

Issei Sagawa, il cannibale.

  L’incivile di questo paragrafo è il poliglotta Issei Sagawa, nefasto studioso che causò la morte di Reneé Hartevelt e che non accettò – disonorando la sua stirpe di Samurai – il destino di una gabbia, aiutato dal ricco industriale Akira Sagawa, suo padre. Tutti sappiamo che lo sguardo di un padre si abbatte sul figlio con candore e arbitrarietà. Eppure, alcuni, come lo storico Sagashi Hishima, sostengono che “Akira finì l’opera del figlio, poiché nulla rimane in loro dei Samurai”. Seguo la relazione dello stesso Hishima, ricalcando la minuziosa gloria del suo volume “Uomo mangia uomo”, cui la vasta diffusione tradusse in più di venti lingue. Issei Sagawa, infatuato dal grembo di alcune pellicole – serbatoio di icone plastiche prima, e poi (forse) di uomini –, ammise l’incantesimo delle ragazze occidentali. Per mesi, e forse anni, la sua attenzione librò dagli occhi nebbiosi, ai seni senza gravità, alle cosce sinusoidali e ai piedi minuti di una splendida Grace Kelly, la cui retina era sotto la perenne sorpresa di riflettori da pulpito. Nell’età che congeda l’adolescenza, sappiamo Issei Sagawa, esile nel corpo ma feroce nelle intenzioni, studioso in lingue presso l’università Sorbona. Nei languidi corridoi di Parigi già germogliava in lui l’orrore. Sinistre dichiarazioni condiscono le interviste postume al delitto: «Volevo assaggiare le ragazze occidentali». La metafora è da escludere. Issei Sagawa, al secondo anno di corso, invita nella sua tenuta la giovane e avvenente Reneé Hartevelt; la prega di interpretare alcune poesie di stile ermetico, e finisce che ben sette chili di Reneé vengono divorati dalle abominevoli fauci giapponesi. Issei Sagawa fu perfetto nel delitto, ma fallì nel nascondiglio. Il Commissario Grandét (lo stesso del caso Rumskin) gli bloccò i polsi. Al processo, una giuria compiacente allo Yen lo dichiarò incapace di intendere, quindi pazzo, quindi, seppur parzialmente, non colpevole. Gli fu detto di tornare in Giappone. Issei e Akira attraversarono l’oceano in una vertigine di felicità o sdegno. Ad Hiroshima, città che diede i natali al cannibale, Issei s’impegnò nella scrittura di racconti, saggi, biografie. Il Giappone del futuro lo acclamò come personaggio di spicco (i libri ebbero tiratura elevatissima); ma quello delle tradizioni lo ripudiò. Un mattino, Issei Sagawa ricevette una lettera che lo invitava al suicidio. Gli antichi convenevoli, la scrittura larga e sinuosa, la morbidezza della forma, fecero intuire al cannibale che quella era la penna di un Samurai. Issei lacerò la carta inchiostrata con furore o spavento. Mai il pensiero del suicidio lo attraversò, ma le preoccupazioni lo avvolsero. Sognava ventri aperti; il riflesso della finestra era quello della spada; lo sconosciuto era il giustiziere; il fruscio delle foglie era lo scivolare segreto del Samurai; egli stesso dovette considerarsi braccato, e non più carnefice. Quando morì per un colpo al cuore, Akira ne trovò il corpo sdraiato sul tappeto. La mano puntava la scrivania. Sulla scrivania, il coltello antico per l’harakiri, che il cannibale non riuscì a raggiungere.

mercoledì 8 agosto 2012

Io sono Atos.

  L’arroganza della calura incollava la camicia all’epidermide; ad Alloccopolis il mercurio stazionava impietosamente intorno ai trentotto gradi. Ero indeciso se ingurgitare un GinPiscio (saporito, ma acido e tiepido) o un GastroRum alla banana (ghiacciato, ma insipido). Il barista attendeva ticchettando il polpastrello del pollice sul gomito e ci scambiavamo sguardi da scimmia. Ero in quella magia quando l’Animalista mi salutò mostrando il palmo inespressivo. Lo guardai; aveva un aspetto quasi antico, e il fisico dava la sgradevole sensazione di essere privo dello scheletro. Mentre ci accarezzavamo con vani convenevoli m’accorsi del cane che teneva al guinzaglio. Debbo l’incolpevole svista all’unione di un grumo sinistro di coincidenze: l’occhio grigio e ipnotico dell’Animalista, l’indomata barba rettangolare, l’indecisione della bibita, il caldo afoso, una macchia di sugo a forma di stella sulla camicia, gli occhiali da saldatore che indossavo. Inoltre: la stazza microscopica dell’animale. (Il fatto che si chiamasse Atos mi pareva un abuso ludico dell’arte combinatoria.) L’Animalista – ad un certo punto era inevitabile – iniziò a tessere le lodi di Atos. Lo dipinse con tratti di inestricabile maestosità. In quei minuti un’enorme ragnatela di aggettivi mi avvolse, affliggendomi. Calmo, educato, ubbidiente, amorevole, quasi umano ne sono solo alcuni esempi. Poi il cane si voltò con uno scatto verso la vetrina; fu in quel momento che lo scoprii eunuco. L’Animalista, in un impeto d’amore, aveva privato Atos della prole segreta del futuro. Ebbi un principio di febbre; ordinai una gassosa; pagai con una banconota ed ebbi in cambio pochi centesimi (i bar di Alloccopolis sono ingiustificatamente dispendiosi, il povero Robin cercò di dipanarne il mistero con la stesura di diversi saggi [N. d. E.].) Salutai l’Animalista con una tenace distrazione, simile allo sdegno. Oltrepassato l’uscio provai la strada che conduce alla biblioteca, ma un’onda di calore mi naufragò nell’unico quadrato d’ombra che vidi. Lì, sotto la frescura, il vento mi gonfiò la camicia come una vela. Atos, pensai, non è calmo, né educato, e nemmeno ubbidiente; Atos mi somiglia: è un depresso.

giovedì 2 agosto 2012

Il genio inesperto.

  C’è un concetto che mortifica e corrompe tutti gli altri. Non parlo dell’infinito, i cui limiti sono quelli della dialettica; parlo delle donne. Più di una volta ho desiderato – senza successo – di capirne le dinamiche. Eppure, la vista di una donna, anche di quella più insignificante o laida, equivale a quella della Gorgone (mostro con capelli di serpente dall’urlo pauroso) incontrata nei corridoi nebbiosi dell’incubo. Cercai altresì aiuto nel metodo empirico: munito di taccuino e matita, annotai con zelo ogni compiacenza o disappunto. Il mio proposito era quello di registrare certe reincarnazioni di un’antica leggenda, che non omette il simbolismo. Sarò breve: un uomo trova una lampada; la sfrega e, in un turbinio di vapori, spunta un genio persiano. Il primo desiderio, quello d’esser ricco, gli viene esaudito; il secondo, quello d’essere bellissimo, anche; per il terzo vi è qualche difficoltà. L’uomo chiede al genio di edificare una strada senza principio né fine che colleghi, in una vertigine di ragnatele, tutti i luoghi del globo. Il genio (evidentemente era un genio di primo pelo) chiede all’uomo di esprimere un desiderio meno laborioso, poiché per quello della strada infinita occorre, dice, un’esperienza millenaria. L’uomo, giudicando incolpevole l’impreparazione, formula il desiderio di riserva: quello di voler capire le donne. Il genio, atterrito, prende compasso e squadra e inizia il progetto dell’edificazione astrusa; quello, cioè, dell’iperbolica strada infinita. Nulla, dunque, gli pare più complesso. Il problema, come si vede, è sempre lo stesso. Alcuni dicono che al genio non basterebbe un praticantato di milioni di anni per esaudire tale desiderio. A me piace pensarla diversamente. Mi convinco che lo sbroglio del paradosso sia proprio nella sua semplicità. A mio parere, la ridondanza di taluni epiteti (sei una donna-amazzone, sei una femmina-sogno eccetera), oppure di taluni climax (ti voglio, ti voglio, ti voglio) basterebbero per chiudere, seppur parzialmente, le fauci femminili. A volte basta la cinica ripetizione del . (Per far prima, taluni lo pronunziano con eccessiva solerzia. «Caro, potresti...», «Sì», oppure, «Caro, non è che..», «Sì», o ancor peggio, «Caro, oggi sono stata da Mandingo...», «Sì, cara, va bene»). Analogo, ma ancora più allarmante, è il caso dell’uomo che, come direbbe il metempirico Kafka, si vive accanto. Questa condizione segna una metamorfosi: quella da uomo a – definizione che tanto piace ad alcuni registi di Hollywood – Yesman. Costoro vivono (o meglio, non vivono) nell’incubo, permettendosi di essere solo nel tempo che spazia le loro affermazioni (tempo, fra le altre cose, brevissimo). «La donna più grande», scrive l’attento Novalis «è quella che si rende invisibile, pur dimostrando la propria autonomia». Di nuovo, dissento. Io la donna l’immagino resistente, misteriosa, visibile e stabile nel tempo; pur ammettendo nella sua architettura tenui ed assidui interstizi di assurdità.