martedì 11 settembre 2012

Vento di guerra.

  La storia di quell’estate (che qui ricalco) ha la confusione e la crudeltà delle cosmogonie belliche, e molto della loro stupidità: appostamenti in angoli oscuri, sotterfugi, complotti, bande di nemici che scorrazzano ordinati, subdoli inganni, imboscate e così via. Volendo procedere per ordine, debbo l’inizio di tutto all’unione di un uomo e della sua ostinata fobia. Il nome: l’Ipocondriaco. Era di aspetto rovinoso, ma monumentale. Il collo corto e taurino, il petto inespugnabile, le braccia gonfie di muscoli, il naso spigoloso da pugile, le gambe storte come quelle di un cavallerizzo o di un terzino di spinta. Tuttavia, tale granitico aspetto aveva l’unica funzione di celare l’enormità delle sue ossessioni. Viveva con la paurosa e perenne convinzione d’ammalarsi. 
I guai peggiori arrivarono quando fummo costretti a cambiare casa. Come ho detto, era l’inizio di un’estate calda e pigra. Il nuovo domicilio era un piccolo seminterrato, con un lento e pesante ricambio d’aria. Le finestre davano nel cortile interno del palazzo, ad altezza del pavimento. Il primo risveglio fu drammatico. Aprimmo le finestre e, a pochi passi da noi, un centinaio di piccioni roteavano vorticosamente confondendosi l’un l’altro, come un branco di zebre. Sì, un centinaio di piccioni che facevano cose da piccioni, come beccare o – cosa più schifosa ancora – spandere il loro impietoso guano su tutto il pavimento, copiosamente. La merda, una volta seccata, mutava in una polvere sottile che, spintonata dal vento, entrava in casa e quindi nelle nostre narici. 
L’Ipocondriaco chiuse la finestra con uno scatto, corse verso la scrivania e accese il PC. Dopo qualche minuto entrò nella mia stanza con una faccia da funerale e un foglietto fresco di stampa fra le mani. 
«Notizie orribili,» disse. «La merda di quei maledetti topi volanti è portatrice di oltre sessanta malattie.» 
«Davvero?» 
«Sei mortali,» concluse serio. 
Se l’Ipocondriaco voleva spaventarmi, be’, andava alla grande. Controllai il foglio verificandone la veridicità. I nomi di illustri medici a piè di pagina non lasciavano spazio al dubbio: la nostra salute era in pericolo. Decidemmo di reagire. Studiammo per giorni le arti belliche. Alla fine usammo la più monotona delle strategie: togliere i viveri al nemico – alias impedire che le tovaglie dei coinquilini sovrastanti si gonfiassero nei balconi, spargendo le loro briciole. Sicché l’Ipocondriaco puntellò in portineria un bigliettino che pregava i “gentili condomini” di evitare tali nefaste manovre del dopopranzo. Purtroppo, maleducazione e menefreghismo fecero cadere le nostre preghiere nell’abisso dell’indifferenza. Le tovaglie continuavano a sventolare come bandiere; i piccioni banchettavano felici; il vento di merda – aiutato dalla calura – acquistava quindi densità e corpo. 
Il secondo tentativo fu ancora più fallimentare. Impregnammo di veleno un tozzo di pane e lo tirammo nella folla di piccioni. Venimmo umiliati. I piccioni mandarono avanti il più malconcio di loro – un piumaggio misero, una sola zampa, un occhio cavo. Quello diede un paio di beccate e cadde esangue. Gli altri nemmeno si avvicinarono al tozzo avvelenato. Dopo un paio di giorni presi un sacco, tolsi la carcassa e la gettai nell’immondizia. Una roba vomitevole. 
Com’era prevedibile, l’Ipocondriaco uscì di senno. Roso dalle sue fobie, comprò un fucile ad aria compressa, intarsiò un buco nel vetro, tirò fuori la canna, aspettò il momento giusto e sparò all’impazzata sul gregge di piccioni. Ci vollero una dozzina di sacchi per tirar via tutti quei cadaveri. Ma i piccioni non diminuirono; anzi, al posto dei caduti (taluni vecchi e malmessi), se ne sostituirono dei nuovi (più giovani e in forze). 
«Che disgrazia,» imprecava l’Ipocondriaco. 
«Sono semplicemente più forti,» dissi io. 
Capimmo che era vano insistere. Bisognava accettare la sconfitta. Non rimaneva che cambiare casa. Rimpacchettammo la nostra roba per l’ennesimo trasloco. Mentre l’Ipocondriaco chiudeva l’ultimo pacco, un’idea – che mi affretto a definire diabolica – lo pervase. 
«Seguimi,» mi disse secco e duro. 
C’imbarcammo nell’ascensore e sbucammo sul tetto del palazzo. L’Ipocondriaco si sporse leggermente dal cornicione. 
«Che fai?» chiesi preoccupato. 
Senza dire nulla, si sfilò la patta, lo tirò fuori e iniziò ad urinare in testa ai piccioni. 
«GENIALE!» urlai eccitato. E feci anch’io lo stesso. Muovevo in maniera alternata il membro per ottenere lo stesso effetto degli irrigatori professionali. Li colpimmo? Chi lo sa, da lì sopra era impossibile capirlo, ma venimmo pervasi da un senso assoluto di potere. 
Dopo un paio di giorni eravamo già nella nuova casa. Questa volta scegliemmo un attico. La seconda notte l’Ipocondriaco mi svegliò con un urlo disumano. 
«HO PESTATO UNO SCARAFAGGIO!» 
Accesi la luce. Una miriade di quei cosi s’infilò disordinatamente in un buco sotto la doccia. 
“Dio, non farmi questo,” pensai. 
L’Ipocondriaco tornò con il consueto foglio stampato. Ne lesse alcune righe ad alta voce. 
«In caso di guerra nucleare, sulla terra, sopravviverebbero solo topi e scarafaggi.» 
«Questa volta sarà dura,» dissi disperato.

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