domenica 17 febbraio 2013

Dal Lemonissimo alla galera.

  Il Vichingo non è sempre stato così, grosso e violento. Anche lui conobbe gli agi dell’infanzia; anche lui fu un bambino come tutti gli altri, indifeso e docile. Quand’era piccolo veniva al bar e si sedeva sullo sgabello, dove rimaneva ore a guardare i cartoni animati e la gente che giocava a briscola. Tutti gli volevano bene; era un anche un bel ragazzino, dicono. 
Le cose iniziarono a cambiare quando il Vichingo, un giorno, aprì il frigo dei gelati e tirò fuori per la prima volta un Lemonissimo. Quindi aprì l’avvenente involucro giallo e ingurgitò il gelato in un solo boccone. Poi buttò di nuovo le mani nel frigo, prese un altro Lemonissimo e ingurgitò anche quello. Finì che ne divorò una dozzina in pochi minuti. Nel bar gli avventori giudicarono quel comportamento del tutto normale. Dopotutto, era pur sempre un bambino, ed ai bambini piacciono i gelati. 
Purtroppo, nei tempi successivi, il Vichingo venne preso da una specie di malattia che lo costringeva a divorare dai venti ai quaranta Lemonissimo al giorno. Una roba impressionante, mai vista. Quando il titolare del bar, Victor, apriva la serranda all’alba, ebbene, il Vichingo era già lì, pronto a dare inizio all’assurdo rito zuccheroso. Victor fu costretto a raddoppiare le chiamate al fornitore dei gelati. Il Vichingo arrivava a spendere anche quarantamila lire al giorno pur di satollarsi con il freddo manicaretto. Tutti, nel bar, s’aspettavano che il giovane, prima o dopo, stramazzasse al suolo inerme. 
Ma non andò così, anzi: i Lemonissimo ebbero un effetto stranissimo sul giovane, che prese a crescere incredibilmente di un palmo al giorno. Le braccia si gonfiarono come due canotti. Le gambe, prima esili e sinuose, divennero in poco tempo due colonne di cemento armato, dritte e forzute. La voce s’incupì e s’alzò di volume. Le sue grida improvvise provocarono un paio di infarti tra gli anziani giocatori di carte. Il corpo si coprì di una pelliccia fitta fitta di peli carnosi, dello stesso colore della birra. L’ampio petto divenne inespugnabile e villoso. 
Insomma, la faccenda era questa: più Lemonissimo ingurgitava, più diventava grosso e minaccioso, e ben presto diventò minaccioso anche negli atteggiamenti. 
«Dammi il mio Lemonissimo, idiota,» urlava rivolgendosi a Victor. «O vuoi che ti infili quella testa di cazzo nel frigo?» 
Victor, tutto pauroso, eseguiva gli ordini con zelo. 
Nel bar non lo riconoscevano più. Il bambino grazioso, a cui tutti volevano bene, appariva adesso irrimediabilmente perduto. Unico nodo con il passato, la passione incontrollabile per il Lemonissimo. Gli avventori del locale cominciarono presto a temerlo, giacché il Vichingo, una leccata dopo l’altra, diventava sempre più violento e, per via dell’ormai incredibile massa muscolare, sempre più pericoloso. Come si capisce, dal Lemonissimo alla galera il passo fu breve, e forse inevitabile. 
Il tutto avvenne una sera calda e apparentemente noiosa. Il Vichingo giocava a scopa con la Faina, suo vecchio e fedele amico. A terra, una piccola montagna composta in parte di involucri di Lemonissimo, in parte di pacchetti di sigarette vuoti. 
La Faina fece scopa e gli animi presero subito fuoco. 
«Non è scopa,» disse il Vichingo. 
«Sì che è scopa,» rispose la Faina, «quattro e tre fa sette.» 
«No.» 
«No, cosa?» 
«Quattro e tre fanno undici,» disse il Vichingo convinto. «Se hai l’undici metti scopa, altrimenti hai perso e ti tocca pagare tutti i Lemonissimo di oggi. Fanno centomila.» 
«Non c’è l’ho l’undici,» ribattè la Faina. «Ma non ti pago un cazzo lo stesso.» 
Il Vichingo lo guardò in cagnesco. I suoi occhi sembravano capaci di far tremare i muri. Poi s’alzò dal tavolo e raggiunse il bancone, dove disse a Victor che i numerosi gelati sarebbero stati pagati comunque a breve. Quindi chiese un passaggio a casa ad un altro tizio. Dopo una decina di minuti fece la sua apparizione nel bar. Scartò un Lemonissimo, lo infilò intero intero in bocca e si diresse dritto verso la Faina, che, ignaro del pericolo, guardava una trasmissione sportiva controllando la schedina. Quando gli fu alle spalle, estrasse una frusta dalla giacca e prese a colpirlo sulla schiena. Era un frusta medievale, fatta con un nervo di qualche animale e con delle palline di ferro sulla punta. Una roba da film. La Faina cercò di scappare, ma si fermò abbracciato al VideoPoker nell’angolo lontano del locale. Il Vichingo lo frustava con una cattiveria disumana deturpandogli la schiena. Gli schiocchi delle frustate erano terribili, sembravano tanti colpi di pistola. 
Tutti guardavano la scena increduli. Un qualcosa di quasi sacro stava avvenendo; un’eco biblica si sparse per il locale. Il Vichingo era il centurione, la Faina Gesù Cristo e il VideoPoker la croce. Andarono avanti così per un po’, finché Victor fu costretto a chiamare le forze dell’ordine. Ci vollero sei agenti per immobilizzare l’improvvisato centurione. Alla fine lo caricarono sulla volante e lo scortarono fino al carcere più vicino, dove tutt’ora risiede. 
Al giorno d’oggi, nei tempi in cui scrivo, la Faina sempre si reca in carcere per trovare il suo voluminoso amico. Nelle mani, un cartone stracolmo di Lemonissimo.