giovedì 28 giugno 2012

Una vita da astemio.


Sembra così amaro
essere astemi.

Dover pregare
un barista
di porgerti
un bicchiere
d’acqua,
a discapito di una
– comunque bassa –
dignità.

Essere catapultati
all’angolo di tutto
e contemplare
per giorni,
settimane,
mesi,
gli altri che
ridono,
scherzano,
vendono
le loro
frottole.

Non poter
mai salire
le scale
traballando.

Portare a casa
solo cibi.

Vedere gli altri
bevitori pieni
di amici e
dover dire,
in tono deluso:

«Io non ne ho».

Sarà così la vita
dell’astemio.

Ma tutti,
prima o dopo,
capiscono
di vivere,
e di avere
una testa
e quindi
anche
una fronte,

e una mano
per batterci
sopra.

venerdì 22 giugno 2012

La notte dei mutanti.


  Incastonati sullo sfondo di una coreografia oscena o di uno strobo epilettico, due froci inguainati in solenni e succinti abiti ballavano su scarpe da donna un ballo spigoloso, che è quello dei sessi simili, finché una margherita non cadde a terra e decisi di guardare altrove. Non ricordo come finii lì, ma ne ricordo il perché. «È pieno di figa», mi aveva detto Mandingo. «E tutti quei froci assicurano una concorrenza esigua». Mi convinse. Una doccia schiumosa; un abito alla naftalina; un’impomatata ai capelli con una lozione fixing al midollo di tasso; una stecca di Marlboro al mentolo; ed eccomi in quel posto bifido e vischioso, ma straripante di ragazze annoiate e speranzose. Ero fiducioso. Se la profezia di Mandingo si fosse avverata, nulla avrebbe potuto impedire l’accoppiamento. Ma la scena di quei due uomini che ballavano, slanciati verso la notte, con tacchi da venti centimetri, mi fiaccò del tutto. Circondato da tali – e quantomeno ambigui – figuri, provai immediatamente un senso di pericolo. Debbo ammettere che quella maledetta festa Gay mi intimoriva. Mi sentivo a disagio; qualcosa mi trattenne. Robin, pensai, se sei qui è per un motivo. Decisi di rimanere applicando tutte le dovute precauzioni. Mi avvicinai al bar camminando raso raso al muro; accesi una sigaretta; l’accendino cadde; lo lasciai lì dov’era. Inchinarsi mi avrebbe esposto pericolosamente alle compiacenze degli uomini-donna. Ordinai un Orange’My’Ass’Is’Your’Ass’On the Rock; poggiai un gomito sul bancone; scrutai la folla. Mandingo – una volta di più – aveva colto nel segno: c’era figa a trecentosessanta gradi. Una in particolare mi colpì. Origini brasiliane; alta; mani sottili ed eleganti; con dei capelli lisci e lunghi che le coprivano il collo; un ciuffo elettrico sulla fronte. Indossava una calzamaglia nera, aderente come una seconda pelle; due labbra spesse ma sinuose. Buttai giù la disgustosa bibita; guardai il suo culo dimenarsi per un po’. Ed ecco: l’erezione. Calma Big Sam, pensai dandomi un buffetto sul pacco, non è ancora il tuo momento. Mi avvicinai di soppiatto all’avvenente ragazza. «Hai da accendere?», chiesi. «Sì». Estrasse un accendino; diedi fuoco alla sigaretta; un tanfo di mentolo appesantì l’aria. «Come ti chiami?», «Carlo». È brasiliana, mi rassicurai, il fatto che confonda le «a» con le «o» è una cosa del tutto naturale. Ballammo per un po’ insieme; le offrii da bere. Decisi di arrivare al dunque; le palpai il culo. «Fermo», disse Carlo. «Cosa credi di fare?». Ritirai le mani con agilità olimpionica. «Credevo di piacerti», mi giustificai. «Sono fidanzata», «Oh, ed è qui il tuo uomo?», «Eccolo che arriva». Mi voltai. Quel che vidi fu una ragazza sulla venti, con dei grossi brufoli pieni di pus e lo sguardo porcino. Era in evidente sovrappeso. Davvero disgustosa. «Lei è il tuo uomo?», chiesi dubbioso. «Sì». Mi avvicinai al timpano della super figa coprendomi le labbra con la mano. «Ma è una donna», dissi sottovoce. «Lo so», rispose Carlo nervosa. «E allora?», «Anche tu sei una donna», conclusi. «Dipende». Si abbassò la calzamaglia e tirò fuori un pene deforme e bitorzoluto. «GESÙ CRISTO!», urlai con le mani sui capelli. Scappai a gambe levate. Big Sam ripose lo champagne in ghiacciaia. Maledetti mutanti, pensai. Raggiunsi l’automobile; mi ci vollero tre galloni di GastroRum per calmarmi. Quell’idiota di Mandingo non mi aveva preparato ad una tale – infausta – situazione. Bevvi ancora un po’; ero arrabbiato con me stesso. Per punirmi misi una raccolta di canti popolari svizzeri a tutto volume; piansi sommessamente. Guardai triste i preservativi alla fragola in pelle di Gnu che giacevano inutilizzati sul tappetino. «Sei una testa di cazzo», disse Big Sam. Era troppo. Accesi il motore; ripartii. Vuoi per il GastroRum, vuoi per l’agitazione, mi persi. Girai a vuoto per un po’ e non c’era verso di capire dove fossi. Vidi un tizio poggiato ad un palo e chiesi informazioni. «Dove devi arrivare?», domandò con una voce ferma e impostata. Glielo dissi. «Vado anch’io da quella parte, se mi dai uno strappo ti indico la via». Nonostante la sua voluminosa massa muscolare, mi incuteva fiducia. «Salta su», dissi. Passate le presentazioni iniziarono i guai. «Dove sei stato?», chiese il passeggero. «Alla festa Gay», «Oh, anch’io». I suoi occhi si animarono di una luce brillante, innaturale. «E ti è piaciuta?», aggiunse. «Non molto». Spensi lo stereo; quei maledetti campagnoli svizzeri mi stavano trapanando le meningi. Poi il tizio mi diede il colpo. «Dimmi, ti piaccio?», «In che senso?», «Oh, ma che spiritoso», «Non è come pensi», «Ah, no?», «No. Ho la ragazza». Non era vero, ma la situazione iniziava ad appesantirsi. Big Sam rideva come un pazzo. Il tizio prese coraggio; allungò la mano e la poggiò sul mio pacco. Frenai di colpo. «Esci dalla mia macchina», «Sei un matusa», «Esci, ti ho detto». Mise il broncio come un ragazzino. «No», concluse secco. Persi la pazienza. Uscii dall’auto; feci il giro; aprii lo sportello e iniziai a strattonarlo. «Vieni fuori», urlavo io. «No, fermati bruto, lasciami», rispondeva lui con una repellente aria da primadonna. Non rimaneva molto da fare. Quando il mio pugno lo colpì in pieno volto frignò come una femminuccia. Perdeva sangue. «Sei contento adesso? Guarda che hai fatto», mi disse sputando un canino. «Mi hai costretto», «Razzista, sei solo un razzista». Gli tirai il braccio e lo lanciai su di un campo pieno di ortiche. Uno strano sentimento mi pervase. Mi sentivo in colpa. Dopotutto quello che avevo picchiato era una specie di donna. Sono un verme, pensai, ho picchiato una femmina. «Ma che cazzo dici», intervenne Big Sam. «Riprenditi». Aveva ragione. Riaccesi il motore; partii sgommando. Ma i lamenti del tizio continuavano a tamburellarmi la coscienza. Li sentivo nitidi, come se fosse stato ancora lì a frignarmi davanti. Accesi la radio e pompai il volume. I canti svizzeri avrebbero mascherato quei piagnucolii lavandomeli dalle orecchie. Big Sam riposava quieto.                

domenica 17 giugno 2012

Giada la mutandara.


Seguivo quelle
mutandine
già da un mese.

«Alzati la gonna»,
le dicevo.

Giada obbediva.

Quello che c’era sotto
mi faceva impazzire.

Ora non basta più,
ma allora ero piccolo,
sette-otto anni,
non saprei.

Incontrai Adamo,
era un duro.

«Robin, fai alzare
la gonna
alla tua donna».

«È mia»,
 dissi.

«Vuoi che ti pesto?»,
grugnì Adamo.

«Chiama l’esercito».

Mi prese per il collo;
persi sangue dal naso;
un pugno allo stomaco
e persi anche il fiato.

Avevo conosciuto
la sconfitta.

«Giada, Cristo,
alzati quella gonna»,
dissi.

Lo fece.

Io e Adamo
guardammo insieme
basiti.

Mai visto nulla
di così bello.

Fu l’ultima volta
che vidi
quello spettacolo.











giovedì 14 giugno 2012

Un uomo al guinzaglio.


  Chi, sotto gli urti speranzosi di una vulva effimera, non ha mai provato la vertigine di calarsi nelle braghe del maggiordomo? Chi non ha mai elargito bevute, cene, gioielli con l’unico pallino dell’accoppiamento? Tutti, chi più chi meno, hanno passato un periodo del genere, ma Manu Minchia stava esagerando. La DonnaCapo lo teneva al guinzaglio e lui scodinzolava che era una bellezza. Al cinismo terreno di lei seguiva il servilismo molle e sognatore di lui. «Manu, ho sete, prendimi un GastroRum al cedro», «Subito cara», «Saluta il barista da parte mia, è così carino», «Subito cara», oppure, «Accompagnami al centro commerciale, voglio fare shopping», «Subito cara», rispondeva Manu Minchia menando la sua grossa coda su e giù. La prima volta che vidi la DonnaCapo fu in un bar del centro. Mi sedeva a fianco e per tutta la serata non mi rivolse neanche una parola. Manu Minchia indossava una divisa da cameriere, con tanto di cravatta e calzoni neri. Fu una cosa disgustosa. Lei ordinava da bere; lui annotava la comanda su di un taccuino; tirava fuori il portamonete e tornava al nostro tavolo con le bibite poggiate su di un vassoio. Poi guaiva un po’; abbassava quel suo musetto aristocratico verso il pavimento e si sdraiava ai piedi della DonnaCapo. «Su, da bravo, stai buono», gli diceva lei accarezzandogli il cuoio capelluto. Io ero confuso. Quando la DonnaCapo andò al cesso parlammo a quattr’occhi, da uomo a cane. «Che stai facendo?», «Oh, nulla, perché?», chiese Manu tirando fuori dalla tasca una scodella metallica. «Ma sei impazzito? Non è così che dovresti comportarti», «Così come?». Manu Minchia versò un’oncia di GinPiscio nella ciotola; prese a leccare il liquido con dei colpi di lingua costanti e nerboruti. «Sei senza speranza», conclusi. La DonnaCapo tornò dal cesso con aria soddisfatta e io la fissai per un po’. Quello che vedevo – nonostante le vacuità del mio amico – era una ragazza tutt’altro che affascinante. Inoltre aveva delle strane grinze sulla pelle che la rendevano più vecchia di quello che era in realtà. Come sei tonto Manu, pensai, proprio di una con la sindrome di Matusalemme ti sei andato ad invaghire. Si fece tardi e il bar chiuse. Decidemmo di spostarci. Manu Minchia ci aveva preceduto ed aspettava fuori con la macchina accesa e lo sportello aperto. La DonnaCapo mi rivolse la parola per la prima volta. «Sarai tu a portarmi in macchina». Suonava come un ordine; non volevo ridurmi anch’io a quattro zampe. «No», risposi conciso. «Non hai posti in macchina?», «Ho la macchina vuota, ma non ti porto lo stesso». La odiavo per come stava trattando il mio amico e volli prendere le sue difese. La DonnaCapo si infilò nell’auto di Manu Minchia; poggiò il suo culo piatto sul sedile; il mio amico gli chiuse lo sportello con un gesto elegante. Un vero maggiordomo. Io, onde evitare sproloqui, non li seguii e tornai nella mia stanza singola. Passarono i giorni; di tanto in tanto mi giungevano all’orecchio notizie orribili sulla situazione Manu Minchia-DonnaCapo. Ne sentivo di tutti i colori. L’ultimo rapporto di un nostro amico in comune fu terrificante. «Robin, fai qualcosa tu», «Cosa dovrei fare? Comprargli una scodella nuova?», «Non ci scherzerei troppo», «Non scherzo», dissi serio. Lui continuò. «Ieri sera li ho incontrati. Ho salutato Manu, sai cosa mi ha risposto?», «Buonasera!», «No, si è voltato è ha fatto Bau», «Bau?», «Bau, non parla neanche più come un uomo, devi fare qualcosa». Mi grattai la fronte. «Senti, ora vai casa, vedrò che si può fare». Pensai al da farsi per una notte intera; il piano attuabile era molto spiacevole ma, se volevo salvare il mio amico, era l’unico modo. La sera seguente invitai la coppia-che-scoppia in un locale. Prima fase del piano: farli bere. Bevemmo di tutto; arrivammo in poco tempo allo slittamento della mascella. Iniziai a trattare male la DonnaCapo. Ero sicuro di me. Con una tipa del genere il servilismo giocherebbe solo a mio sfavore, pensavo a denti stretti. «Robin, dammi una sigaretta», mi disse. «Non ne ho», risposi io estraendo un pacchetto di Marlboro 100’s pieno dal taschino. Mi guardava con un certo stupore, devo ammettere. Più la osservavo e più non mi piaceva, ma ormai era deciso. Salvare Manu Minchia era la priorità. Col passare del tempo diventavo sempre più arrogante. Lei – com’era previsto – mi si avvicinava sempre di più. Com’è strano il destino! Dopo un po’ iniziò lei a scodinzolare come un cagnolino nei miei confronti. Feci una rapida ascesa verso la volgarità. Manu Minchia assisteva immobile. «Passami quel posacenere, mignotta», «Sì Robin». Ogni volta che improntava un discorso, la fermavo con un «Ma non dire puttanate, troia» convinto e deciso. A fine sera scattò la seconda fase del mio piano. La DonnaCapo inventò una scusa con Manu Minchia e mi seguì fino a casa. In macchina mi toccò con le sue mani da vecchia. Per poco non vomitai. Una volta in camera prese a spogliarsi. Dio, vedere mia nonna in costume mi avrebbe eccitato molto di più. Il suo corpo, partendo da due piedi minuti e biancastri, si slanciava verso l’alto chiudendosi in una testa a forma di fiasco. Aveva due mammelle che penzolavano come due enormi biberon. Fortuna che mi ero preparato; presi una bottiglia di Vodka al prosciutto acquistata per l’infausto evento e ne scolai metà in un sorso. Accessi una telecamera. «Cosa devi farci con quell’affare?», mi chiese. «Zitta, puttana». Poi mi spogliai; mi misi a letto; chiusi gli occhi. «Avanti», dissi. «Facciamola finita». Feci l’uomo oggetto per una notte intera. Un supplizio oltremodo gravoso. Lo faccio per te amico mio, pensavo, mentre lei mi leccava con la sua lingua violacea. Il mattino mi ci vollero tre docce per lavare via quell’infame disgusto. Spedii la videocassetta a Manu Minchia con la posta celere. Debbo dire che riuscii nell’impresa. Dopo un periodo di rabbia nei miei confronti, Manu ritornò ad essere uomo. Fu un piacere bere con lui senza quella maledetta vecchia nei paraggi. Dopo un paio di settimane squillò il telefono. «Pronto?», «Robin?», «Chi parla?», «Robin, sono io, quando possiamo rivederci?». Era la DonnaCapo. Quella voce rantolante mi fece risalire tutto il disgusto della nostra notte amorosa. «Non devi chiamarmi più», «Robin ascolta...», «Sei solo una cagna», «Bau». Lasciai la cornetta alzata e andai in cucina; lei continuò ad abbaiare per un po’. Che razza di gente, pensai.

lunedì 11 giugno 2012

Lo studioso.


Quando studiava
gli dicevano:
«Farai grandi cose».

Ora spala merda
nelle stalle
del Ticino.

Lo vidi
a Roma.
Porta Maggiore.

Aveva uno scotch;
me ne diede un po’.

«Hai mai studiato?»,
mi chiese.

«Sì».

«Ricordi quello
che hai letto?»

«No», dissi.
«Mai».

«Anch'io ho
studiato,
e guardami
ora.

Era meglio lavorare.
Avrei lavorato
se solo
avessi saputo
che fosse andata
a finire
così.

Qui ci lascio
la pelle»,
mi disse.

«Quando morirai»,
dissi,
«non lo saprai.

Passami quello
scotch».

Bevemmo.

Tirò fuori un libro
di Camus.

«Questo è un frocio»,
disse
«non vale una cicca».

Poi tirò fuori
Miller.

«Questo vale
qualcosa,
porca troia».

Leggemmo.

«Domani parto»,
disse.
«Ho trovato un lavoro.
Spalo merda
in Ticino».

«Complimenti».

«Era meglio
non studiare»,
mi disse.

sabato 9 giugno 2012

Voglio quella maledetta assoluzione.


  Venne seppellito dopo tre giorni. Fu una faccenda triste e solitaria, come sono di solito i funerali. I becchini posarono la bara con mio nonno dentro a pochi metri dall’altare. Ricordo che uno di loro mi disse che – data la crisi – era costretto ad un secondo impiego. «Appena finito con tuo nonno devo scappare». Poi aggiunse: «Oh, condoglianze comunque». «Grazie», risposi triste. Aveva molta fretta e, quando in chiesa un bottone della camicia gli saltò via lasciando trasparire la maglietta unta che aveva di sotto, fu per tutti noi un grande imbarazzo leggere a caratteri cubitali “FERRAMENTA DI GENNARO. DUPLICHIAMO CHIAVI DI TUTTI I TIPI”, cui, in grassetto, seguiva l’infelice slogan “FATEVI CHIAVARE DA NOI”. Una vera amenità. Mio padre lo ghiacciò con lo sguardo e lui (Dio ti ringrazio!) si ricompose all’istante. Poi fui io a farla grossa. Inizio col dire che volevo davvero bene al mio povero nonno. Passavamo ore e ore insieme. Giocavamo a carte; facevamo delle lunghe gite in macchina; fumavamo – di nascosto – un pacchetto di MS al giorno insieme. Non di rado mi portava al bar; lui ingurgitava spine e io buttavo tutte le monete che avevo in un vecchio flipper. Poi un giorno disse: «Prova Robin, è fresca». Bevvi la birra e mollai il flipper. Insomma, andavamo d’amore e d’accordo. L’unica cosa che ci faceva discutere era la chiesa. «Se non vai a messa, niente più birra e sigarette», mi diceva. «No, questo no», gli rispondevo. Litigavamo tenendoci il broncio per giorni. Ma quello era il suo funerale e feci uno strappo alla regola: decisi di prendere l’ostia, alias comunione, alias come-si-chiama-non-lo-so. Mi misi in fila. Davanti a me, il prete (un tizio sulla quarantina con i capelli tinti color abete ungherese) dispensava ostie nelle mani dei fedeli. Questi si voltavano e, portandosi le mani alla bocca, inghiottivano l’insipido discobolo a capo chino. «Il corpo di Cristo...», diceva il prete-abete, e avanti un altro. «Il corpo di Cristo... il corpo di Cristo...». Mi balzò in mente quella barzelletta dove a prendere l’ostia si presenta una fica da paura e il prete fa: «Cristo, che corpo!». Risi sotto i baffi. Poi l’occhio mi cadde sul povero nonno e tornai serio. Stava quasi per arrivare il mio turno; il prete-abete era sempre più vicino. Formulai un fine ragionamento: «Caro nonno, per farti piacere prenderò l’ostia. Anzi, sai che ti dico, me la porto a casa. La consumerò recitando un Pater nostro e dedicandoti un ultimo pensiero». Arrivò il mio momento; il prete-abete mi porse l’ostia; io la ficcai in tasca dandogli immediatamente le spalle. «Il corpo di Cri...», fece in tempo a dire. Tornai al mio posto.  Ebbene, quella che all’inizio era una funzione seria e pomposa diventò un qualcosa di vergognoso. Al prete-abete tremava la voce; tutti noi ci scambiavamo sguardi di stupore; l’atmosfera si fece innaturale. La funzione fu troncata di colpo. Io – ignaro di tutto – non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Ma che gli è preso a quel pisquano, pensai io. Ma che cazzo fa, pensò mio padre. Insomma: un vero pastrocchio. Ma il bello viene ora. Una volta fuori, quando la bara stava per essere infornata nella vettura, ecco che mia sorella mi si avvicina sgomenta. «Il prete vuole parlarti», «Il prete-abete?», «Il prete, Robin. Ha chiesto di vederti», «Ora vado», «Ti aspetta nella stanza dietro l’altare». Rientrai in chiesa; bussai alla porta della stanza. Il curato mi aspettava seduto; prese a guardarmi immobile come uno stoccafisso. «Mi dica», chiesi. «Ti ho visto. Cosa credi?», «A far che?», «Tira fuori l’ostia, maledetto satanista». Capii tutto in un attimo. Tirai fuori il dischetto bianco e lo porsi al prete-abete. «Conosco quelli come te», mi disse infervorato. «Rubi le ostie per le messe nere», «Messe che?», «Sei una Bestia di Satana?», «Bestia è tuo padre», «Vai via da qui». Uscii sbattendomi la porta alle spalle; ebbi un’altra spiacevole sorpresa. Quel maledetto prete se l’era cantata con mia sorella. «Sister, posso spiegarti». Ma lei piangeva e rideva in simultanea. «Sei un coglione», mi disse. Si asciugò una lacrima bifida che gli scendeva sulla guancia. Il funerale finì e noi tornammo a casa. Decisi di raccontare tutto a mio padre. Ero pronto a farmi prendere a cintate, ma lui riuscì solo ad alzare le braccia in maniera desolata. «Sei un coglione», sentenziò. «Ho capito», risposi. Sinceramente mi sfuggiva il perché di tutto quel casino. Accesi il computer e feci una piccola ricerca. Quello che scoprii mi fece alzare la pelle di quattro dita. Pare che rubare l’ostia sia in assoluto il peccato più grave che uno possa commettere; equivale a violentare personalmente il Cristo. Ora, non ho mai creduto in Dio, ma se qualcuno avesse violentato mio figlio userei qualsiasi mezzo per farlo fuori (e Dio non ha certo problemi in tal senso). Nei giorni che seguirono sprofondai nel terrore. Aspettavo un’orribile vendetta. Ogni volta che aprivo il frigo credevo di trovarlo vuoto per via della divisione dei pani; vedevo serpenti con una mela in bocca ovunque; camminavo lontano dalle chiese convinto che mi crollassero addosso. Una vita d’inferno. Decisi di affrontare la situazione. Chiesi consiglio a Don Anus, un vecchio prete negro del mio paese. Volevo alleggerirmi dell’orribile peccato. «Solo quel prete può farlo. Devi rivolgerti a lui», mi disse sbuffando aria dalle enormi narici africane. «Il prete-abete?», «Sì, solo lui può fare quello che mi chiedi, figlio mio», «Non sono tuo figlio». Mi ritrovai per strada con l’arrendevolezza tipica dei vinti. Quella notte sognai mio nonno. «Nonnino, hai visto quello che mi è successo? Come faccio ora? Andrò all’inferno?», «Sei un coglione», mi disse tracannando una spina. Il mattino dopo tornai nella chiesa del funerale. Ora risolvo tutto, pensai. Il prete-abete faceva colazione. Mangiava come un maiale; c’era di tutto su quella tavola: affettati, frutta, yogurt, pane, latte, verdure, carne, pesce... di tutto. «Padre, ma voi non siete quelli dei pasti frugali?». Il curato sobbalzò; una fetta di salmone australiano gli scese di traverso. «Cosa vuoi? Ti avevo detto di non tornare», «Voglio l’assoluzione», «Eh eh, mai», «La avverto padre, non uscirò di qui senza la sua benedizione». Accese una sigaretta; tirò una boccata; emise un ruttino. Poi disse: «No, no, e poi ancora no», «L’hai voluto tu». Lo presi per quella ridicola tunica e lo trascinai come un morto per metà della chiesa. Lo colpii con un paio di pugni sul naso; iniziò a sanguinare. «La benedizione padre», «Fottiti». Era un duro, lo ammetto. Lo colpii allo stomaco lasciandolo senza fiato; iniziai con gli schiaffi. «Ti decidi?», «No». Passai alle maniere forti. Gli infilai la testa nella bagnarola dell’acqua santa; lo lasciavo gorgogliare per un po’; poi lo tiravo fuori.  «L’assoluzione padre», «Mai». E giù di nuovo; ogni volta aumentavo il tempo d’immersione. Dopo mezz’ora di quel trattamento si decise. «Va bene, va bene... hai vinto», disse riprendendo fiato. Lo buttai a terra; incrociai le mani come il più devoto dei chierichetti. «Vada avanti padre», «Te benedicum. Sei assolto dal tuo peccato. Sei contento ora piccolo bastardo?». Feci il segno della croce. «Sì», dissi. Lo colpii di nuovo; lui rantolò come un treno ingolfato. Quando uscii fuori il mondo mi sorrideva. Senza quel maledetto fardello mi sentivo incredibilmente leggero. Non avevo paura di nulla. Quella notte dormii come un bambino. Sognai di nuovo mio nonno. «Nonno, hai visto? C’è l’ho fatta», «Ho visto, Robin, ho visto. Ora verrai con me in paradiso», «Be’, senza fretta però», risposi spaventato. «Non preoccuparti per questo. Sono fiero di te», «Grazie nonno, ti voglio bene». Era avvolto da una luce rarefatta, corpuscolare; due occhi umidi e sinceri. Mi poggiò la mano sulla spalla ed estrasse un pacchetto di MS. «Ne vuoi?», mi chiese. Fumammo seduti senza dirci nulla.

lunedì 4 giugno 2012

Il cane.


Entrai nel bar
più sporco
e lurido
della città.

«Un GinPiscio»,
urlai.

Bevvi il GinPiscio.
Era caldo
e sapeva
d'acqua.

Una cicciona
era seduta
ad un tavolo.

«Offrimi una
birra»,
disse.

Tracannò il
boccale
in un attimo.

«Ancora una».

Tracannò
anche la seconda.

Le piacevo;
mi diceva:
«Mi piaci,
mi piaci,
un'altra
ancora, dai»,

«Non ho più
soldi»,
dissi.

«Non mi piaci
più».

Sotto il suo
tavolo,
un cane
smagrito
leccava
un osso
di pollo.

«È tuo quel
cane?».

«Sì».

«Dovresti
dargli
da mangiare
più spesso».

«È malato»,
disse,
«e mangia
come un
maiale».

«E tu dovresti
mangiare
meno
del tuo
cane».

«Io bevo
solo».

Mi alzai.

«La vuoi
assaggiare?
Venti euro.
Se non hai
la macchina
c'è una stanza
qui sopra».

«È sporca
come
questo posto?»,
chiesi.

Annuì.

Era davvero
grassa.

«Il cane non
viene
però»,
dissi.

Quella camera
era davvero
lurida.