Chi, sotto gli urti speranzosi di una vulva effimera, non
ha mai provato la vertigine di calarsi nelle braghe del maggiordomo? Chi non ha
mai elargito bevute, cene, gioielli con l’unico pallino dell’accoppiamento?
Tutti, chi più chi meno, hanno passato un periodo del genere, ma Manu Minchia
stava esagerando. La DonnaCapo lo teneva al guinzaglio e lui scodinzolava che
era una bellezza. Al cinismo terreno di lei seguiva il servilismo molle e
sognatore di lui. «Manu, ho sete, prendimi un GastroRum al cedro», «Subito
cara», «Saluta il barista da parte mia, è così carino», «Subito cara», oppure,
«Accompagnami al centro commerciale, voglio fare shopping», «Subito cara»,
rispondeva Manu Minchia menando la sua grossa coda su e giù. La prima volta che
vidi la DonnaCapo fu in un bar del centro. Mi sedeva a fianco e per tutta la
serata non mi rivolse neanche una parola. Manu Minchia indossava una divisa da
cameriere, con tanto di cravatta e calzoni neri. Fu una cosa disgustosa. Lei
ordinava da bere; lui annotava la comanda su di un taccuino; tirava fuori il
portamonete e tornava al nostro tavolo con le bibite poggiate su di un vassoio.
Poi guaiva un po’; abbassava quel suo musetto aristocratico verso il pavimento
e si sdraiava ai piedi della DonnaCapo. «Su, da bravo, stai buono», gli diceva
lei accarezzandogli il cuoio capelluto. Io ero confuso. Quando la DonnaCapo
andò al cesso parlammo a quattr’occhi, da uomo a cane. «Che stai facendo?»,
«Oh, nulla, perché?», chiese Manu tirando fuori dalla tasca una scodella
metallica. «Ma sei impazzito? Non è così che dovresti comportarti», «Così
come?». Manu Minchia versò un’oncia di GinPiscio nella ciotola; prese a leccare
il liquido con dei colpi di lingua costanti e nerboruti. «Sei senza speranza»,
conclusi. La DonnaCapo tornò dal cesso con aria soddisfatta e io la fissai per
un po’. Quello che vedevo – nonostante le vacuità del mio amico – era una
ragazza tutt’altro che affascinante. Inoltre aveva delle strane grinze sulla
pelle che la rendevano più vecchia di quello che era in realtà. Come sei tonto
Manu, pensai, proprio di una con la sindrome di Matusalemme ti sei andato ad
invaghire. Si fece tardi e il bar chiuse. Decidemmo di spostarci. Manu Minchia
ci aveva preceduto ed aspettava fuori con la macchina accesa e lo sportello
aperto. La DonnaCapo mi rivolse la parola per la prima volta. «Sarai tu a
portarmi in macchina». Suonava come un ordine; non volevo ridurmi anch’io a quattro
zampe. «No», risposi conciso. «Non hai posti in macchina?», «Ho la macchina
vuota, ma non ti porto lo stesso». La odiavo per come stava trattando il mio
amico e volli prendere le sue difese. La DonnaCapo si infilò nell’auto di Manu
Minchia; poggiò il suo culo piatto sul sedile; il mio amico gli chiuse lo
sportello con un gesto elegante. Un vero maggiordomo. Io, onde evitare
sproloqui, non li seguii e tornai nella mia stanza singola. Passarono i giorni;
di tanto in tanto mi giungevano all’orecchio notizie orribili sulla situazione
Manu Minchia-DonnaCapo. Ne sentivo di tutti i colori. L’ultimo rapporto di un
nostro amico in comune fu terrificante. «Robin, fai qualcosa tu», «Cosa dovrei
fare? Comprargli una scodella nuova?», «Non ci scherzerei troppo», «Non scherzo»,
dissi serio. Lui continuò. «Ieri sera li ho incontrati. Ho salutato Manu, sai
cosa mi ha risposto?», «Buonasera!», «No, si è voltato è ha fatto Bau», «Bau?»,
«Bau, non parla neanche più come un uomo, devi fare qualcosa». Mi grattai la
fronte. «Senti, ora vai casa, vedrò che si può fare». Pensai al da farsi per
una notte intera; il piano attuabile era molto spiacevole ma, se volevo salvare
il mio amico, era l’unico modo. La sera seguente invitai la coppia-che-scoppia
in un locale. Prima fase del piano: farli bere. Bevemmo di tutto; arrivammo in
poco tempo allo slittamento della mascella. Iniziai a trattare male la
DonnaCapo. Ero sicuro di me. Con una tipa del genere il servilismo giocherebbe
solo a mio sfavore, pensavo a denti stretti. «Robin, dammi una sigaretta», mi
disse. «Non ne ho», risposi io estraendo un pacchetto di Marlboro 100’s pieno
dal taschino. Mi guardava con un certo stupore, devo ammettere. Più la
osservavo e più non mi piaceva, ma ormai era deciso. Salvare Manu Minchia era
la priorità. Col passare del tempo diventavo sempre più arrogante. Lei –
com’era previsto – mi si avvicinava sempre di più. Com’è strano il destino!
Dopo un po’ iniziò lei a scodinzolare come un cagnolino nei miei confronti.
Feci una rapida ascesa verso la volgarità. Manu Minchia assisteva immobile.
«Passami quel posacenere, mignotta», «Sì Robin». Ogni volta che improntava un
discorso, la fermavo con un «Ma non dire puttanate, troia» convinto e deciso. A
fine sera scattò la seconda fase del mio piano. La DonnaCapo inventò una scusa
con Manu Minchia e mi seguì fino a casa. In macchina mi toccò con le sue mani
da vecchia. Per poco non vomitai. Una volta in camera prese a spogliarsi. Dio,
vedere mia nonna in costume mi avrebbe eccitato molto di più. Il suo corpo,
partendo da due piedi minuti e biancastri, si slanciava verso l’alto
chiudendosi in una testa a forma di fiasco. Aveva due mammelle che penzolavano
come due enormi biberon. Fortuna che mi ero preparato; presi una bottiglia di
Vodka al prosciutto acquistata per l’infausto evento e ne scolai metà in un
sorso. Accessi una telecamera. «Cosa devi farci con quell’affare?», mi chiese.
«Zitta, puttana». Poi mi spogliai; mi misi a letto; chiusi gli occhi. «Avanti»,
dissi. «Facciamola finita». Feci l’uomo oggetto per una notte intera. Un
supplizio oltremodo gravoso. Lo faccio per te amico mio, pensavo, mentre lei mi
leccava con la sua lingua violacea. Il mattino mi ci vollero tre docce per lavare
via quell’infame disgusto. Spedii la videocassetta a Manu Minchia con la posta
celere. Debbo dire che riuscii nell’impresa. Dopo un periodo di rabbia nei miei
confronti, Manu ritornò ad essere uomo. Fu un piacere bere con lui senza quella
maledetta vecchia nei paraggi. Dopo un paio di settimane squillò il telefono.
«Pronto?», «Robin?», «Chi parla?», «Robin, sono io, quando possiamo
rivederci?». Era la DonnaCapo. Quella voce rantolante mi fece risalire tutto il
disgusto della nostra notte amorosa. «Non devi chiamarmi più», «Robin ascolta...»,
«Sei solo una cagna», «Bau». Lasciai la cornetta alzata e andai in cucina; lei
continuò ad abbaiare per un po’. Che razza di gente, pensai.
Dio Santo, quanta verità in una volta sola....
RispondiEliminaCredevo avessero debbellato da qualche millennio la sindrome di Matusalemme...
RispondiEliminaNe hai, fidati. Ho letto molte cose, e tu ne hai.
RispondiEliminaE fidati anche di questo... hai un lessico davvero originale.
RispondiEliminabella storia mi ricorda qualcuno che conosco.....
RispondiEliminaAhahahah è proprio tutto vero....
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