Venne seppellito dopo tre giorni. Fu una faccenda triste e
solitaria, come sono di solito i funerali. I becchini posarono la bara con mio nonno
dentro a pochi metri dall’altare. Ricordo che uno di loro mi disse che – data
la crisi – era costretto ad un secondo impiego. «Appena finito con tuo nonno
devo scappare». Poi aggiunse: «Oh, condoglianze comunque». «Grazie», risposi
triste. Aveva molta fretta e, quando in chiesa un bottone della camicia gli
saltò via lasciando trasparire la maglietta unta che aveva di sotto, fu per
tutti noi un grande imbarazzo leggere a caratteri cubitali “FERRAMENTA DI
GENNARO. DUPLICHIAMO CHIAVI DI TUTTI I TIPI”, cui, in grassetto, seguiva
l’infelice slogan “FATEVI CHIAVARE DA NOI”. Una vera amenità. Mio padre lo
ghiacciò con lo sguardo e lui (Dio ti ringrazio!) si ricompose all’istante. Poi
fui io a farla grossa. Inizio col dire che volevo davvero bene al mio povero
nonno. Passavamo ore e ore insieme. Giocavamo a carte; facevamo delle lunghe
gite in macchina; fumavamo – di nascosto – un pacchetto di MS al giorno
insieme. Non di rado mi portava al bar; lui ingurgitava spine e io buttavo
tutte le monete che avevo in un vecchio flipper. Poi un giorno disse: «Prova
Robin, è fresca». Bevvi la birra e mollai il flipper. Insomma, andavamo d’amore
e d’accordo. L’unica cosa che ci faceva discutere era la chiesa. «Se non vai a
messa, niente più birra e sigarette», mi diceva. «No, questo no», gli
rispondevo. Litigavamo tenendoci il broncio per giorni. Ma quello era il suo
funerale e feci uno strappo alla regola: decisi di prendere l’ostia, alias
comunione, alias come-si-chiama-non-lo-so. Mi misi in fila. Davanti a
me, il prete (un tizio sulla quarantina con i capelli tinti color abete
ungherese) dispensava ostie nelle mani dei fedeli. Questi si voltavano e,
portandosi le mani alla bocca, inghiottivano l’insipido discobolo a capo chino.
«Il corpo di Cristo...», diceva il prete-abete, e avanti un altro. «Il corpo di
Cristo... il corpo di Cristo...». Mi balzò in mente quella barzelletta dove a
prendere l’ostia si presenta una fica da paura e il prete fa: «Cristo, che
corpo!». Risi sotto i baffi. Poi l’occhio mi cadde sul povero nonno e tornai
serio. Stava quasi per arrivare il mio turno; il prete-abete era sempre più
vicino. Formulai un fine ragionamento: «Caro nonno, per farti piacere prenderò
l’ostia. Anzi, sai che ti dico, me la porto a casa. La consumerò recitando un Pater
nostro e dedicandoti un ultimo pensiero». Arrivò il mio momento; il prete-abete
mi porse l’ostia; io la ficcai in tasca dandogli immediatamente le spalle. «Il
corpo di Cri...», fece in tempo a dire. Tornai al mio posto. Ebbene, quella che all’inizio era una funzione
seria e pomposa diventò un qualcosa di vergognoso. Al prete-abete tremava la
voce; tutti noi ci scambiavamo sguardi di stupore; l’atmosfera si fece
innaturale. La funzione fu troncata di colpo. Io – ignaro di tutto – non
riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Ma che gli è preso a quel pisquano,
pensai io. Ma che cazzo fa, pensò mio padre. Insomma: un vero pastrocchio. Ma
il bello viene ora. Una volta fuori, quando la bara stava per essere infornata
nella vettura, ecco che mia sorella mi si avvicina sgomenta. «Il prete vuole
parlarti», «Il prete-abete?», «Il prete, Robin. Ha chiesto di vederti», «Ora
vado», «Ti aspetta nella stanza dietro l’altare». Rientrai in chiesa; bussai
alla porta della stanza. Il curato mi aspettava seduto; prese a guardarmi immobile
come uno stoccafisso. «Mi dica», chiesi. «Ti ho visto. Cosa credi?», «A far
che?», «Tira fuori l’ostia, maledetto satanista». Capii tutto in un attimo.
Tirai fuori il dischetto bianco e lo porsi al prete-abete. «Conosco quelli come
te», mi disse infervorato. «Rubi le ostie per le messe nere», «Messe che?»,
«Sei una Bestia di Satana?», «Bestia è tuo padre», «Vai via da qui». Uscii
sbattendomi la porta alle spalle; ebbi un’altra spiacevole sorpresa. Quel
maledetto prete se l’era cantata con mia sorella. «Sister, posso spiegarti». Ma
lei piangeva e rideva in simultanea. «Sei un coglione», mi disse. Si asciugò
una lacrima bifida che gli scendeva sulla guancia. Il funerale finì e noi
tornammo a casa. Decisi di raccontare tutto a mio padre. Ero pronto a farmi
prendere a cintate, ma lui riuscì solo ad alzare le braccia in maniera
desolata. «Sei un coglione», sentenziò. «Ho capito», risposi. Sinceramente mi
sfuggiva il perché di tutto quel casino. Accesi il computer e feci una piccola
ricerca. Quello che scoprii mi fece alzare la pelle di quattro dita. Pare che
rubare l’ostia sia in assoluto il peccato più grave che uno possa commettere;
equivale a violentare personalmente il Cristo. Ora, non ho mai creduto in Dio,
ma se qualcuno avesse violentato mio figlio userei qualsiasi mezzo per farlo
fuori (e Dio non ha certo problemi in tal senso). Nei giorni che seguirono
sprofondai nel terrore. Aspettavo un’orribile vendetta. Ogni volta che aprivo
il frigo credevo di trovarlo vuoto per via della divisione dei pani; vedevo
serpenti con una mela in bocca ovunque; camminavo lontano dalle chiese convinto
che mi crollassero addosso. Una vita d’inferno. Decisi di affrontare la
situazione. Chiesi consiglio a Don Anus, un vecchio prete negro del mio paese.
Volevo alleggerirmi dell’orribile peccato. «Solo quel prete può farlo. Devi
rivolgerti a lui», mi disse sbuffando aria dalle enormi narici africane. «Il
prete-abete?», «Sì, solo lui può fare quello che mi chiedi, figlio mio», «Non
sono tuo figlio». Mi ritrovai per strada con l’arrendevolezza tipica dei vinti.
Quella notte sognai mio nonno. «Nonnino, hai visto quello che mi è successo?
Come faccio ora? Andrò all’inferno?», «Sei un coglione», mi disse tracannando
una spina. Il mattino dopo tornai nella chiesa del funerale. Ora risolvo tutto,
pensai. Il prete-abete faceva colazione. Mangiava come un maiale; c’era di
tutto su quella tavola: affettati, frutta, yogurt, pane, latte, verdure, carne,
pesce... di tutto. «Padre, ma voi non siete quelli dei pasti frugali?». Il
curato sobbalzò; una fetta di salmone australiano gli scese di traverso. «Cosa
vuoi? Ti avevo detto di non tornare», «Voglio l’assoluzione», «Eh eh, mai», «La
avverto padre, non uscirò di qui senza la sua benedizione». Accese una sigaretta;
tirò una boccata; emise un ruttino. Poi disse: «No, no, e poi ancora no»,
«L’hai voluto tu». Lo presi per quella ridicola tunica e lo trascinai come un
morto per metà della chiesa. Lo colpii con un paio di pugni sul naso; iniziò a
sanguinare. «La benedizione padre», «Fottiti». Era un duro, lo ammetto. Lo
colpii allo stomaco lasciandolo senza fiato; iniziai con gli schiaffi. «Ti
decidi?», «No». Passai alle maniere forti. Gli infilai la testa nella bagnarola
dell’acqua santa; lo lasciavo gorgogliare per un po’; poi lo tiravo fuori. «L’assoluzione padre», «Mai». E giù di nuovo;
ogni volta aumentavo il tempo d’immersione. Dopo mezz’ora di quel trattamento
si decise. «Va bene, va bene... hai vinto», disse riprendendo fiato. Lo buttai
a terra; incrociai le mani come il più devoto dei chierichetti. «Vada avanti
padre», «Te benedicum. Sei assolto dal tuo peccato. Sei contento ora
piccolo bastardo?». Feci il segno della croce. «Sì», dissi. Lo colpii di nuovo;
lui rantolò come un treno ingolfato. Quando uscii fuori il mondo mi sorrideva.
Senza quel maledetto fardello mi sentivo incredibilmente leggero. Non avevo paura
di nulla. Quella notte dormii come un bambino. Sognai di nuovo mio nonno.
«Nonno, hai visto? C’è l’ho fatta», «Ho visto, Robin, ho visto. Ora verrai con
me in paradiso», «Be’, senza fretta però», risposi spaventato. «Non
preoccuparti per questo. Sono fiero di te», «Grazie nonno, ti voglio bene». Era
avvolto da una luce rarefatta, corpuscolare; due occhi umidi e sinceri. Mi
poggiò la mano sulla spalla ed estrasse un pacchetto di MS. «Ne vuoi?», mi
chiese. Fumammo seduti senza dirci nulla.
Nella tua cattiveria, sei dolce...
RispondiEliminache figuraccia Roby!
RispondiEliminaSe succedesse a me una cosa del genere, mi impiccherei, da creparsi comunque......????=!!!!!! (-:
RispondiEliminaAhahahah è successo davvero!
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