domenica 9 dicembre 2012

L’idraulico senza laurea.

  Quando mi chinai vidi che la ruggine s’era lavorata per bene il tubo di scarico del cesso. Nell’acciaio s’apriva una falla grande come l’oliva del Martini. Un’acqua nera e torbida aveva inondato per intero il pavimento del bagno e gran parte del salotto. Senza esitazione, sfogliai le pagine gialle in cerca di un idraulico. Sapevo che tale manovra avrebbe prosciugato impietosamente le mie tasche, ma non volevo affogare in un mare di merda a vent’anni. Sicché alzai la cornetta e composi il numero del pronto intervento. Una voce vetrosa, senza emozione, mi assicurò l’arrivo dell’addetto entro un’ora. Io tornai in bagno e infilai il pollice nella falla dello scarico, impedendo così la fuoriuscita copiosa dell’orribile fiumiciattolo nero. Mi sedetti sul bidet e aspettai. 
  Il tizio arrivò con un paio d’ore di ritardo. Era vestito di un bell’abito scuro, in giacca e cravatta, con le scarpe in pelle d’istrice. La sciarpa che gli cingeva il collo era un furetto sotto morfina. Nelle mani, un’elegante cassetta degli attrezzi tutta laccata d’oro, con delle iniziali diamantate in altorilievo. «Mi mostri la perdita», disse con fare frettoloso. Lo condussi in bagno e gli indicai il cesso con un gesto della mano. Lui si tolse il cappotto in pelle di elefantino, estrasse tenaglie e cacciaviti (anch’essi laccati d’oro) dalla cassetta e iniziò a manovrare frenetico il tubo di scarico. Mentre svitava o sostituiva questo con quello, io lo guardavo con inquietudine, e anche con spavento, poiché pensavo all’onerosa parcella che, di lì a poco, inevitabilmente, quel signore col vestito da sera mi avrebbe mostrato. 
  Dopo un primo momento senza parole, l’intimità del bagno ci portò alla conversazione. «Lei deve essere un universitario», mi disse. «Ha la tavoletta del cesso alzata e il sapone liquido di sottomarca». Io annuii, quasi vergognoso, con un cenno del capo. L’idraulico, ch’era evidentemente privo di tatto, continuò: «Scommetto che anche il frigo è vuoto, e che se aprissi la dispensa troverei solo scatolette», «È così», risposi triste, «ma è per questo che studio. Con la laurea sarà tutto diverso», «Se lo dice lei, sarà così, mi offra qualcosa da bere». 
  Andai in cucina per accontentarlo, ma l’unico liquido che trovai fu quello che vegetava in una polverosa bottiglia senza etichetta, da chissà quanto tempo. E allora dissi all’idraulico che non avevo nulla per placare la sua sete, senza il rischio evidente di un’intossicazione acuta. 
  Lui mi guardò compassionevolmente, con gli occhi del papà. Ficcò la mano in tasca e tirò fuori una monumentale pila di contanti. Quindi mi allungò una banconota di grosso taglio e disse: «Vai da Harry’s e compra un fiasco di champagne». Io appallottolai il potente foglio filigranato nel palmo; poi dissi: «Non so se potrò mai restituirle questo danaro», «Oh, non deve preoccuparsi», mi rispose l’idraulico mentre s’infilava un guanto di cachemire da lavoro, «me li restituirà dopo essersi laureato, quando sarà ricco e berrà lo champagne tutti i giorni». Non so perché, ma da quel momento un sorriso sinistro apparve sul viso di quello, e non andò più via. 








domenica 2 dicembre 2012

Il FacSimile.

  Anch’io andai al concerto di Capa’e’minchia. Anch’io, con in mano il potente biglietto prepagato, presi posto nella scoraggiante fila all’entrata. Un enorme serpente di persone partiva dai miei piedi per poi sparire, ininterrotto, dietro un pilone dello stadio. Un vero esodo. Proseguivo con la velocità del morto; quando raggiunsi le transenne era già buio. 
  Avanti a me, ad un paio di metri, scorsi un tizio che era uguale a Capa’e’minchia. Aveva gli stessi capelli, erti e gonfi sino allo spasimo. Gli chiesi se lui e il famoso cantante fossero, come mi pareva, la stessa persona. «No», rispose quello, «ma anch’io canto in una band, e suono benissimo la chitarra», «Impressionante», risposi con tono spento. 
  Il concerto ebbe inizio. I musicisti fecero la loro apparizione sul palco, sommersi da imponenti luci di circostanza. Il FacSimile estrasse l’IPhone dalla giacca e pigiò con il polpastrello dell’indice un quadratino luminoso. L’inconcepibile apparecchio emise un bip discreto, quasi intimo. Poi quello alzò le braccia verso il cielo, disegnando un ampio e immobile cerchio muscoloso. In alto, i palmi stringevano l’IPhone come in una morsa. Rimase non so per quanto tempo in quella posizione. Uno sforzo sovrumano, intollerabile anche solo alla vista. Di tanto in tanto si voltava verso di me, con un certo sorriso smargiasso, e diceva: «Guarda come registra bene». 
  Lo show si protraeva blandamente. Capa’e’minchia (quello vero, suppongo) si esibì in numerosi cambi d’abito, credo con l’intenzione di distrarre i fan dall’insipida voce. Si travestì da califfo, da papa, da re. Indossò la divisa dei poliziotti e quella del Ku klux klan. Correva su e giù per il palco come un demonio, incastonato in una coreografia oscena di negri snodabili e forzuti. Il FacSimile registrava, come imbalsamato, ogni secondo. «Dovresti seguirlo mentre corre, così rischi di perderlo», gli dissi. Lui, quasi con affetto, dichiarò l’infondatezza delle mie preoccupazioni. «Sono in modalità grandangolo», rispose fiero. 
  Il concerto si chiuse con Capa’e’minchia che imitava un certo santo, di cui non seppi mai il nome. Le luci s’abbassarono d’intensità. Qualcuno mise un vecchio disco, anch’esso di circostanza. Il monumentale evento era quindi finito, e già sapeva di anacronismo triste. Il FacSimile spense l’IPhone, lo nascose in una tasca e sparì nella folla.