domenica 23 settembre 2012

La setta degli invalidi.

  L’orrore metafisico del vuoto è superato da quello più reale e incombente del parcheggio. In una notte da vagabondo, nell’ora che precede l’arrivo del sole, ne constatai l’enorme difficoltà. Vagavo con disordine logico nei labirinti grigi di Alloccopolis. Feci (senza gloria) una dozzina di volte il giro dell’isolato in cerca dello spazio indispensabile. Abbassai lo sguardo e vidi che la lancetta della benzina segnava impietosamente la riserva. Il tempo mi remava contro. Fermai l’automobile; accesi la radio e tirai giù una sorsata di GinPiscio, che rimpolpò le mie speranze. Ero in situazione di stress. Riavviai il motore e feci un altro paio di circumnavigazioni del palazzo. Niente. Decisi di andare oltre, ad est. Trovai un parcheggio per i disabili e vi infilai la macchina. Stremato, abbassai il sedile e presi sonno, ma sognai d’essere l’ultimo arrivato nei cento metri para olimpici. A svegliarmi furono le nocche vetrose di un vigile. Scesi dall’automobile e mi stropicciai gli occhi. «Devo farle la multa», mi disse. «Sono d’accordo.» Compilò il verbale e me lo stese; io, meccanicamente, lo firmai. Dopo un paio di settimane, ero poggiato ad un muro e tiravo boccate da un sigaro alla fragola. Un invalido scese dalla propria vettura lasciando lo sportello aperto. Come dice Monicelli: «Il genio è intuito e velocità di esecuzione». E io fui geniale. Mi catapultai all’interno della vettura; strappai il cartellino per il parcheggio dal vetro anteriore e corsi via disperdendomi nelle vie del quartiere. Una volta a casa, guardavo con emozione il potente foglio plastificato. Da ora, mi dissi, niente più multe e niente più vagabondaggi notturni; troverò parcheggio ovunque. Provavo un senso di potere. Per rendere più verosimile il tutto acquistai da un pensionato in bolletta un paio di stampelle cromate. Furono tempi di maestosa comodità: parcheggiavo in qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualsiasi luogo. Quando scendevo, una cinquantina di metri con le stampelle eliminavano ogni sospetto. Insomma, ero felice. Ma non durò molto. («Stolto è l’uomo che si crede l’unico furbo», disse il filosofo, e io incappai – stoltamente – nell’errore di crederlo.) Una mattina, quando le macchine erano ancora avvolte di brina, mi apprestai ad occupare il solito spazio per i disabili, ma una vettura fu più lesta di me nell’infilarsi. Presi le stampelle e scesi dalla macchina. «Quello è il parcheggio per i disabili», urlai. Quando il tizio fece la sua apparizione vidi che un enorme collare ortopedico gli cingeva il collo come una sciarpa. «E io che sarei?», disse lui. Feci qualche passo in avanti e notai che anche lui aveva il permesso. Teneva nastrato al vetro quel maledetto foglio e quello rifletteva la luce del sole e mi accecava, come uno specchio. La discussione montò in un attimo. «Sono più disabile di te», dissi. «Ah sì? E chi lo dice?», «Non ho l’uso della gamba destra; credi che porti le stampelle per bellezza?», «Io ho ricevuto il colpo di frusta, e la mia gamba è di legno». Si batté il palmo sulla coscia e ne venne fuori un rumore metallico. Non rimaneva molto da fare; lo colpii alla testa con la stampella. Lui rantolò a terra come un cilindro. Gli montai sopra; strappai via quel ridicolo collare e iniziai a strozzarlo. Aveva il viso paonazzo e un moncone di lingua veniva fuori dalle labbra. Poi quello mise la mano nei pantaloni; estrasse una lastra metallica e mi colpì alla tempia. Svenni. Quando mi svegliai ero legato ad una sedia; ai polsi, delle corde spesse che mi laceravano la pelle. Il finto disabile mi tirò una secchiata d’acqua. «Hai finito di rubare parcheggi», mi disse. Tutt’intorno vidi carrozzelle, stampelle, collari, occhiali da cieco e una decina di permessi per il parcheggio. «Anche tu sei un falso», intercalai. «Sì, da anni, credi di poter venire nel mio quartiere e fare come ti pare?», mi ammonì seccamente. Capii di essere nei guai. Di lì a poco arrivò una folla di gente adibita al pestaggio. Entravano con le loro carrozzine e stampelle, e appena la porta veniva chiusa si libravano agilmente sulle proprie gambe. Era una maledetta setta di pseudo invalidi; una volta avevo letto di loro su una rivista metropolitana, ma credevo si trattasse di una leggenda. Non so per quanto tempo rimasi legato. Mi picchiarono per giorni e giorni; per non stancarsi si davano il cambio ogni ora. Quando decisero che era abbastanza mi scaricarono da una macchina in corsa a pochi metri dal pronto soccorso. Ero ridotto male e il corpo mi dava la sgradevole sensazione di essere privo delle ossa; non sentivo più né gambe né braccia. A distanza di qualche anno dall’accaduto, ho davvero bisogno delle stampelle; alla fine, il destino dell’invalido reale mi ha raggiunto. Ciò, tuttavia, non mi dispiace; ora ho il mio permesso per il parcheggio, quello vero, quello che mi spetta di diritto, e la notte ancora posso stare tranquillo quando mi appresto all’inestricabile ricerca dell’agognato spazio. Ancora una volta devo considerarmi felice, e forse quella maledetta setta non era poi così cattiva; forse hanno voluto aiutarmi in qualche modo; forse un giorno avrò modo di ringraziarli. Ad oggi, quando scendo dalla macchina e poggio i palmi sui braccetti delle stampelle, ebbene, mi sento invincibile.

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