mercoledì 8 agosto 2012

Io sono Atos.

  L’arroganza della calura incollava la camicia all’epidermide; ad Alloccopolis il mercurio stazionava impietosamente intorno ai trentotto gradi. Ero indeciso se ingurgitare un GinPiscio (saporito, ma acido e tiepido) o un GastroRum alla banana (ghiacciato, ma insipido). Il barista attendeva ticchettando il polpastrello del pollice sul gomito e ci scambiavamo sguardi da scimmia. Ero in quella magia quando l’Animalista mi salutò mostrando il palmo inespressivo. Lo guardai; aveva un aspetto quasi antico, e il fisico dava la sgradevole sensazione di essere privo dello scheletro. Mentre ci accarezzavamo con vani convenevoli m’accorsi del cane che teneva al guinzaglio. Debbo l’incolpevole svista all’unione di un grumo sinistro di coincidenze: l’occhio grigio e ipnotico dell’Animalista, l’indomata barba rettangolare, l’indecisione della bibita, il caldo afoso, una macchia di sugo a forma di stella sulla camicia, gli occhiali da saldatore che indossavo. Inoltre: la stazza microscopica dell’animale. (Il fatto che si chiamasse Atos mi pareva un abuso ludico dell’arte combinatoria.) L’Animalista – ad un certo punto era inevitabile – iniziò a tessere le lodi di Atos. Lo dipinse con tratti di inestricabile maestosità. In quei minuti un’enorme ragnatela di aggettivi mi avvolse, affliggendomi. Calmo, educato, ubbidiente, amorevole, quasi umano ne sono solo alcuni esempi. Poi il cane si voltò con uno scatto verso la vetrina; fu in quel momento che lo scoprii eunuco. L’Animalista, in un impeto d’amore, aveva privato Atos della prole segreta del futuro. Ebbi un principio di febbre; ordinai una gassosa; pagai con una banconota ed ebbi in cambio pochi centesimi (i bar di Alloccopolis sono ingiustificatamente dispendiosi, il povero Robin cercò di dipanarne il mistero con la stesura di diversi saggi [N. d. E.].) Salutai l’Animalista con una tenace distrazione, simile allo sdegno. Oltrepassato l’uscio provai la strada che conduce alla biblioteca, ma un’onda di calore mi naufragò nell’unico quadrato d’ombra che vidi. Lì, sotto la frescura, il vento mi gonfiò la camicia come una vela. Atos, pensai, non è calmo, né educato, e nemmeno ubbidiente; Atos mi somiglia: è un depresso.

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