domenica 14 ottobre 2012

Spumante al Night Club.

  Ci fu un tempo in cui lavoravo in un Night Club. Uno degli avvenimenti di quel periodo è inverosimile e non m’aspetto d’essere creduto, poiché l’unico scopo di questa nota è quello vano e leggero della chiacchiera, pour parler. Ai tempi ero poco più di un ragazzo e il sesso era quello bidimensionale delle foto sulle riviste per adulti che tenevo segrete nell’armadio. Molti anni sono passati da allora, ma ancora mi è dato ricordare, e forse narrare, l’accaduto. D’estate avevo appreso l’arte magistrale del barman presso un bar del lido. La mia conoscenza dei cocktail era precisa e vasta. Decisi, altresì, di sfruttare tale – meritata – qualità. Fu così che mi feci assumere in un night club come barista. Non sapevo cosa avvenisse in tali luoghi oscuri, ma ero elettrizzato dal sapermi vicino a tante puttane. (Le riviste, anche se numerose, non bastavano più, e sentivo il bisogno di passare all’atto pratico.) Ricordo il momento della vestizione che precedette la prima notte di lavoro. Ero in giacca e cravatta e con i capelli impomatati; misi anche un dopobarba al melone, credo per sentirmi uomo. Nonna Gilda, che assistette all’intera preparazione, mi ammoniva e predicava di stare lontano dalle prostitute e dai tizi che le circondano. «La gente che gira di notte non è quella che gira di giorno», sentenziò mentre mi stringeva il nodo alla cravatta. È chiaro, pensai fra me, e quand’è che uno dovrebbe dormire. Non lo sapevo (non potevo saperlo), ma quelle parole racchiudevano, neanche troppo velatamente, la profezia. Già la prima notte, difatti, fui vittima del nonnismo illogico del titolare. Il locale era diviso in due aree; una di queste, la più scura e intima, era delimitata da sottili mura di cartongesso. La storia andava così: con l’acquisto di una bottiglia (dal prezzo vertiginoso) si aveva diritto a quarantacinque minuti d’intimità con la ragazza. Passati i quarantacinque minuti, un’altra bottiglia veniva recapitata al tavolo in maniera automatica, con il conseguente raddoppio dell’importo. Tale meccanismo prosciugava il cliente distratto dai suoi averi. Ovviamente, il delegato per l’operazione infame era il sottoscritto. Quindi arrivò questo tizio; aveva la giacca di velluto a frange larghe e si vedeva che era quella della domenica. Il viso era rosso come il Campari e, nonostante già barcollasse, ingurgitò sei o sette GastroRum d’un fiato. Poi scelse una puttana brasiliana e sparì nell’area privata. Quando il tempo della bottiglia ebbe fine, il titolare mi disse: «Vai e portargliene un’altra, fila», «Sì, capo». Supino al comando, presi vassoio, bicchieri e spumante e mi diressi verso la coppia appartata. Quel che il titolare non mi disse è che nel raggiungere la coppia avrei dovuto battere i bicchieri sul metallo del cestello. Il tintinnio del vetro avrebbe avvertito il mio inopportuno arrivo. Corsi così al tavolo di quelli e in un attimo ero da loro. C’era il tizio in velluto che, seduto sul divanetto laido, quasi dormiva, mentre la brasiliana se lo lavorava in ginocchio. Non si accorsero di me e io credetti d’essere negli agi della normalità. Poggiai il vassoio e i bicchieri sul tavolo; la puttana (che aveva la postura del cane) ci dava dentro. Tirai via la linguetta e il tappo di sughero esplose nell’aria come una fucilata. Lei si piegò in uno scatto di terrore; il tizio rimase immobile ad occhi chiusi. «Ma che succede?» disse lei asciugandosi le labbra con il fazzoletto. «Niente, perché?», «Ti presenti così, all’improvviso?», «E allora?», «Vai via, idiota», «Va bene, ma la bottiglia ve la lascio», «Via, ho detto». Quando tornai al bar il titolare rideva come una scimmia e sembrava stesse per soffocare. «Piaciuto?» mi diceva. «Sì, capo, piaciuto.» Passò una mezz’oretta e la prostituta fece ritorno. Andò a lamentarsi direttamente dal boss. «Ma chi hai preso a lavorare?» Il titolare, impassibile, l’ascoltò per un po’; poi disse: «Zitta, puttana», «Sì, capo», rispose lei docile. Subito dopo, il tizio in velluto venne ad ordinarmi da bere. Non riusciva a tenere aperti gli occhi e per un attimo ho pensato che stesse per svenire. «Senti», gli dissi. «Mi spiace per poco fa.» Quello alzò leggermente la testa e riuscì a dire: «Non ti preoccupare ragazzo, anche tu un giorno farai lo stesso». Bevemmo insieme un liquore ai pinoli e lui mi elargiva grandi pacche sulle spalle. Io non farò mai la figura di merda che hai fatto tu, pensavo. Il mattino, alla chiusura, la puttana brasiliana mi chiese un passaggio; acconsentii, poiché era di strada. Durante il tragitto ripensai alle parole del tizio. Anch’io farò lo stesso, un giorno, mi dicevo. Decisi di abbreviare i tempi. Fermai l’automobile inchiodando sul ciglio della strada. Presi l’argomento alla larga. Gli chiesi com’era finita a fare la puttana e se la cosa le dispiaceva. Mi rispose con un secco no; disse che la vita in Brasile è dura e che lei lavorava tutto il giorno nelle piantagioni come una schiava, per una paga da fame. «Qual’era la tua mansione?» gli chiesi non troppo interessato. «Raddrizzavo le banane ch’erano troppo curve con le mani, e la sera mi dolevano le dita», «E adesso?», «Adesso faccio lo stesso, ma mi becco un mucchio di quattrini». Capii che, pur volendo, non avevamo nulla da dirci. E allora le chiesi di farmi lo stesso lavoretto che aveva fatto a giacca-di-velluto. «Gratis?» chiese sospettosa. «Sì, dopotutto siamo colleghi, e ne ho una gran voglia», «Sei troppo piccolo, ragazzino». Deluso, la riaccompagnai fin sotto casa. Nei tempi che seguirono sfogliai infinite riviste, ma niente era più lo stesso. L’immagine reale si sovrapponeva, dominandola, a quella più banale delle foto. Avevo conosciuto, seppur impersonalmente, il sesso.

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