domenica 18 novembre 2012

Il Campanilista ha appeso le foto.

  Quando feci la mia apparizione nel tugurio il Campanilista poggiava i gomiti su di un tavolo. Era vestito in gran pompa, di un ricco abito di velluto a coste larghe, e portava sulla testa un cappello da pittore, di quelli con la visiera quadrata che impedisce lo sguardo. Al collo aveva una sciarpa del colore della merda, increspata e avvolta in una vertigine di nodi. Fu lui ad accogliermi. «Robin, che piacere averti qui nel mio bar», mi disse. «Vieni al bancone, ti offro da bere». Senza entusiasmo, mi vidi costretto ad accettare la consumazione. Ci dirigemmo verso il delegato delle bibite e bastò un gesto del Campanilista affinché quello ci servisse da bere. Tirai una sorsata dal bicchiere alto e presi a guardarmi intorno. Uno strano fremito animava quel tugurio. Un tizio s’appese con gli arti alle spalle decadenti del Campanilista e disse: «Davvero un buon lavoro, la tua arte è insuperabile, complimenti di nuovo». M’accorsi, quindi, che sul muro, incorniciati con il legno, v’erano esposte due foto enormi. Erano immagini in bianco e nero. In una di queste figuravano i labirinti di una scala a chiocciola vista dal basso; in un’altra ecco che spuntava un balcone. In un abbeveratoio come quello, le foto mi parvero di cattivo gusto, e lo sfondo lilla del muro che le sosteneva mi sembrò un abuso dell’arte combinatoria. Arrivò quindi un altro tizio; anche questo sommerse di elogi il Campanilista e le sue opere; poi un altro e un altro ancora, tutti supini alla logica Campanilista. Giudicai costoro come una sorta di cerchia chiusa, composta da tante comari che si danno ragione l’un l’altro su tutto. Non so perché, ma pensai alla masturbazione. 
  Io non dicevo nulla, poiché le illusioni del Campanilismo non hanno fine e possono distorcere o inventare dal nulla. Fichte diceva che essere coraggiosi e essere tedeschi è, evidentemente, la stessa cosa. Così, credo, le comari elogiavano adesso le opere insignificanti del Campanilista. Ma quello era il suo bar, il suo Campanile, e a me stava bene così. (Dopotutto avevo la mia consumazione gratis). 
  Presi allora anch’io a tessere le lodi delle orribili foto, e più parlavo più quelli mi offrivano da bere. «Sono splendide queste immagini», dicevo ad alta voce. «Così cariche di significato, così glamour». E tutti che chinavano il capo consenzienti e offrivano le consumazioni. Sicché, preso come in un sogno, bevvi di tutto, bevevo e poi elogiavo. E lo feci con una foga tale che loro – come mi parve di capire – mi considerarono pari al rango di comari. 
  Quando mi giudicai ubriaco e neanche un bicchierino entrava più nel mio stomaco, allora salutai e dissi: «Questo bar fa schifo, ed anche quelle foto fanno schifo». Calò un silenzio da cimitero. Tutti mi guardarono ebeti. La SciarpaMerda del Campanilista teneva segrete le vene gonfie del collo. Le comari mi accerchiarono minacciose e il barista ritrasse la consumazione che stava per pormi con uno scatto olimpionico. «Andate tutti a cagare», dissi. E sparii sciogliendomi nella notte.

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