domenica 4 novembre 2012

L’inferno analcolico.

  Non ce la passavamo bene io e Testa di Gomito, un centone a notte taccheggiando la gente nel metrò e ci lavoravamo anche le borse dei pensionati. Due anni con gli scippi e neanche un soldo era nelle nostre tasche, poiché la notte giocavamo con i dadi e compravamo le bottiglie di GinPiscio da Harry’s, e in quei due anni abbiamo bevuto tanto che un granaio ne sarebbe pieno, sicché la mattina nulla rimaneva della notte e l’uno domandava all’altro cosa fosse quel livido o perché il cavallo dei pantaloni fosse strappato. Come quel giorno, quando Testa di Gomito mi disse: «Hai un occhio nero, devi esserti battuto anche ieri notte. Devi averne prese tante». Io non ci credevo e allora andai allo specchio, ma vidi quel cerchio livido spandere un grigiore triste fin sotto le guance. Era un maledetto occhio gonfio, senza dubbio lo era. Quindi ricalcammo le strade della notte e tutti dicevano che era Testa di Gomito che m’aveva colpito, e venne fuori che io (io che sono la metà di lui) ero svenuto e che Testa di Gomito m’aveva caricato sulle spalle come un sacco fin dentro il letto. «È inverosimile», diceva Testa di Gomito perplesso. «Se ti avessi colpito lo sapresti. Questa storia è davvero inverosimile.» Chiedemmo ad altri tizi, ma tutti confermarono che la notte c’eravamo azzuffati nella polvere come due cani e che io ero svenuto. «Oh, quand’è così ti chiedo scusa», disse Testa di Gomito. «Non fa niente. Era solo una curiosità. Andiamo da Harry’s», dissi io. 
  Comprammo così due galloni di GinPiscio e iniziammo a bere proprio davanti ad Harry’s fino a notte profonda. Ridevamo e lanciavamo i dadi a terra sulla luce allungata che veniva dalla vetrina. Un cane arruffato, con due occhi grigi, ci scrutava arcigno e il vento gonfiava le nostre camice. Presi a vincere in maniera monotona. Tiravo sempre i numeri più alti. Testa di Gomito iniziò ad innervosirsi. «Dadi stronzi, non è possibile che mi giri sempre male, sei un lurido baro», mi diceva tirando lunghe sorsate dalla bottiglia. Aveva la faccia rossa e gli occhi indipendenti come quelli dei camaleonti. Era su di giri e anch’io ci davo dentro con il bere. E allora lanciai di nuovo i dadi e quelli di nuovo mi fecero vincere. La situazione si faceva via via più perniciosa. «Se continua così dovremo litigare», mi disse. «Non è colpa mia, sono i dadi», «Tira dai, e stai zitto, infame», «Io tiro, ma tu non chiamarmi infame», «D’accordo, tira quei dadi, coglione». Non mi andava di litigare e sperai di perdere, sicché quando lanciavo i dadi io non lanciavo i dadi, io scacciavo la fortuna, alzavo gli occhi alle stelle invocando la malasorte; ma questa non arrivò: vinsi tutte le giocate e Testa di Gomito – com’era prevedibile – s’infuriò. «Quei maledetti dadi sono truccati», mi disse. «Non esagerare, e poi sono tuoi i dadi», «Allora sono le tue mani ad essere truccate, coglione». Mi afferrò per il collo e prese a sbattermi il grugno sul marciapiede. Poi iniziò con gli schiaffi. Alzava il braccio e, dopo una traiettoria ad arco, il suo palmo mi rimbombava sulla faccia come una fucilata. I suoi pugni mi raggiungevano in maniera invisibile, come una magia. E allora caddi e rotolai come una palla fino al muro. Mi giudicai sconfitto; chiusi gli occhi e credetti d’esser morto. Nel deliquio, vidi un enorme inferno dove i bar vendono solo succo d’ananas. Fu allora che ripresi coscienza. Alzai le palpebre e scorsi una bottiglia ch’era ancora piena. La presi e la ruppi sullo zigomo di Testa di Gomito. Quello prese a girare come una trottola e diceva parole indecifrabili. Lo colpii di nuovo e perse i sensi. Guardai per un po’ il suo corpo immobile spalmato sull’asfalto lurido. Mi sentivo il più forte; ma sapevo che quando Testa di Gomito si sarebbe svegliato allora davvero avrei raggiunto l’inferno analcolico. Bisognava inventarsi qualcosa. Presi Testa di Gomito e lo caricai in macchina. Lo portai in spalla su per le scale. Alla fine avevo la schiena a pezzi e camminavo curvo. Lo misi a letto e gli rimboccai le coperte dopo aver innaffiato d’alcol le lenzuola. Poi mi sdraiai e venni avvolto da un sonno irrequieto. 
  Il mattino dopo dissi a Testa di Gomito che aveva del sangue raggrumato sulla fronte. Lui andò allo specchio. «Chi diavolo mi ha fatto questo?» Aveva la voce rauca come quella dei travestiti. «Non saprei», risposi. «Anche a me dolgono le ossa, e parecchi lividi mi coprono la schiena.» Allora quello tornò a letto, fiutò l’alcol dalle lenzuola e disse: «Devo aver bevuto assai, senti che puzza che viene». Io annuii con un cenno del capo. Testa di Gomito prese un fazzoletto e s’asciugò il sangue. Ricordo che non riuscivo a stare in piedi e il corpo mi sembrava privo dello scheletro. «Dobbiamo scoprire chi è stato e fargliela pagare», disse austero. «Sì, gliela faremo pagare», risposi. «Lo troveremo e allora sarà la fine, lo assaliremo in due, io e te», «Io e te, sì, la pagherà, oh, se la pagherà». 












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