Faccio barba e
capelli due volte l’anno, sono un pigro; due volte l’anno apro la
porta di Marietto, il mio barbiere di fiducia, quello di sempre. Con
i capelli a fungo lo saluto mentre i peli della barba m’intasano la
bocca. Lui mi accoglie amichevolmente, le mani che strapazzano una
lozione. Quando non ha clienti Marietto appende un cartello
indecifrabile sulla porta a vetro. Poi si reca al bar e aspetta
l’avventore. Non raramente sbaglia un colpo di forbici o una
limatina. Se gli capita di tagliare qualcuno semplicemente fa lo
sconto. «La stanchezza», si scusa. Con la mano tremolante, decine
di volte, il rasoio sbaglia andatura e taglia la pelle dei clienti.
Uno è lì che legge l’ultimo articolo di Vogue, e
all’improvviso, inavvertitamente, sobbalza all’urlo di dolore del
pover’uomo pagante. Marietto chiede ovviamente scusa, e dice: «Devo
esser diventato vecchio; è solo mezzogiorno eppur son già stanco».
Il cliente viene preso dai sensi di colpa e non aggiunge altro. (In
fondo è avanti con gli anni e dargli corda è quasi un dovere
civico.)
Anche alla mia
povera faccia toccò di passare sotto il rasoio imperfetto. Come
tutti urlai, come tutti venni preso dai rimorsi. Ero sul punto di
chiedere scusa, quando quello disse: «Son stanco, certo che son
stanco, tutto quel tempo seduto al bar». Capii che Marietto chiama
le sambuche stanchezza.
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