lunedì 23 gennaio 2012

Maradona per un giorno.

  Grazie alle mani amorevoli di nonna Gilda, sono cresciuto a suon di timballi, fettuccine, polpette e quant’altro. E ingurgitavo tutti quei manicaretti con una foga impressionante, poiché il non farlo veniva puntualmente scambiato per un sintomo di una malattia cronica e gravissima. Così, con un raviolo dolce in una mano e un pezzo di pizza nell’altra, arrivai all’età adolescenziale con svariati chili in più. 
Ero confuso e disorientato. Quando guardavo una ragazza ricordo che la desideravo, la volevo vicino, anche se non ne capivo bene il perché. Invidiavo i miei coetanei che limonavano all’impazzata, adoperandosi nella misteriosa arte del petting. Spinto da un suicida spirito emulativo, avvicinai una ragazza al bar, tutto imbarzottito. 
«Pomiciamo?» le chiesi. 
«Vattene, lu cicciò,» rispose lei con fare smorfioso. 
Capii che sarei dovuto dimagrire. Decisi così di iscrivermi all’ormai mitologica – nonché unica! – squadra di calcio del paese: il Lokomotiv Ripattoni. Al primo allenamento conobbi il Mister, un omone di 140 KG con uno strano asma bronchiale, sibilante. Fumava MultiFilter una dietro l’altra ad una velocità vorticosa. Le accendeva, le aspirava in un unico tiro e poi lanciava le cicche con le dita sul campo di gioco. Impossibile non vederlo fumare. 
Fu il Mister a presentarmi gli altri compagni di squadra. La punta era un tizio enorme, voluminosissimo, detto Testa di Gomito, famoso perché picchiava tutti in campo, anche i suoi compagni di squadra. L’esterno sinistro era Astolfi Adelchi, cui nessuno ha mai capito quale fosse il nome e quale il cognome. I fratelli Gazzi, che già ai tempi avevano dato chiare prove di omosessualità, formavano la coppia centrale di difesa, e sembrano ballerini di danza classica più che calciatori. Davvero disgustoso. Ma andiamo avanti. Il ruolo di mediano era ricoperto da Renato detto Cococcione (che nel dialetto locale sta a significare una grossa zucchina). Ebbene, costui era solito misurarsi il pene nelle docce, sotto gli occhi di tutti, con un vecchio righello preso in prestito al padre geometra. 
E poi c’ero io: impedito a qualsiasi movimento, grasso, gonfio e con pochi secondi di autonomia. Durante le presentazioni tutti mi guardavano in cagnesco. Capii che non avrei mai toccato un pallone, ma non m’importava: ero lì solo per dimagrire. 
Passarono i mesi e arrivammo così a metà campionato senza che io entrassi in campo per un minuto. A metà febbraio, però, data la scarsa importanza del match, al minuto 84, il Mister mi disse di entrare. Indossai la divisa per la prima volta. Era di svariate taglie più piccole e mi sentivo come la ricotta nel cannolo siciliano. Va beh... sia come sia entrai in campo con una gran voglia di fare. Ero davvero carico, e l’entusiasmo di fare bene mi portava a chiamare ripetutamente palla. 
«QUA, QUA, O STO QUA, PASSA, QUA, QUA,» urlavo sbracciandomi all’impazzata. 
Il Mister, innervosito dal mio atteggiamento, quasi entrò in campo e, sotto gli occhi di tutti, gridò: 
«QUA, QUA, QUA, ’NA PAPERA MI SIMBR.» 
In un attimo il viso mi diventò rosso come un pomodoro e rimasi immobile in mezzo al campo fino alla fine della partita. Uscii fra gli insulti dei compagni per la pessima performance. 
Passarono altri mesi e il campionato volgeva al termine. Una domenica di Maggio, ci si apprestava a giocare il match più importante della storia, quello che vale un campionato: il mega derby Lokomotiv Ripattoni-S.Nicolò. Per colpa di una strana influenza la panchina era presidiata solo da Renato Cococcione e me, che, pieno di super-grassimega-idrogenati-a-nafta ingurgitati con l’imbuto la sera prima, non ero certo nella migliore delle forme. 
Il Mister fumava a nastro e la tensione addensava l’aria. 
La partita prese subito una brutta piega per il Lokomotiv: Astolfi Adelchi, al minuto 14, inciampò su un cumulo di MultiFilter. Cadde con una capriola plastica e lo dovettero portare fuori in barella. Dentro Cococcione, quindi. Finì il primo tempo. Tornammo negli spogliatoi sullo zero a zero. 
Ad inizio ripresa, però, ecco un’altra tragedia: Testa di Gomito, lanciato a porta, inciampa da solo con il pallone e finisce per sbattere il grugno sull’erba. Quindi s’alza, si guarda intorno, prende il primo che gli capita (la distanza era dell’ordine dei dieci metri) e lo picchia selvaggiamente rimediando così un bel rosso. Il Mister, preoccupato, iniziò a tirare sguardi d’ansia nella mia direzione. 
I guai non arrivano mai soli. Al minuto 90 succede l’incredibile: un altro infortunio costringe alla resa l’ala sinistra. Sicché il Mister, con la disperazione negli occhi, mi guarda e dice: 
«Intr, lu cicciò.» 
Senza troppa convinzione, misi la divisa per la seconda volta e mi piazzai pochi metri più in là del centrocampo. Al minuto 94 succede questo: uno dei fratelli Gazzi spazza in avanti la palla esibendosi in un ottimo arabesque. Io inizio a correre, mi giro e, calcolando la traiettoria, chiudo gli occhi e calcio di piena punta. Sentii un boato. Quando aprii gli occhi vidi che la palla era dentro, in fondo al sacco. Subito l’arbitro decretò la fine della partita. I compagni di squadra si fiondarono nella mia direzione a braccia aperte. Fu in quel momento che realizzai: avevo fatto gol, un gol che valeva il campionato. 
Sicché mi tolsi l’angusta maglietta e iniziai a girare in tondo senza meta. Ruppi tutte le bandierine. Bestemmiavo ad alta voce come un ossesso. Alla fine venni portato in spalla negli spogliatoi. Mi sentivo un Dio, invincibile ed inimitabile. Ero davvero euforico. 
Nell’estasi del godimento decisi di togliermi uno sfizio che mi aveva tormentato per tutta la stagione: strappai il righello dalle mani di Cococcione, lo tirai fuori e me lo misurai davanti i suoi occhi attoniti. Il povero Cococcione svenne mentre faceva la doccia. Pochi giorni dopo impazzì definitivamente. 
Ma io ero davvero alle stelle e mi sentii Maradona per un giorno.

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