martedì 24 gennaio 2012

Caffè Sport Borghetti 2000.

  Non berrò mai più il Caffè Sport Borghetti Duemila, liquore di vero caffè espresso. Oltre la scimmia, infatti, la saporita bibita genera in me uno stato profondo di agitazione, un’ansia incontrollabile. Peggio ricordo solo il VOV, liquore al tuorlo d’uovo (ne bevvi una bottiglia intera e vomitai i pulcini). Se solo provo ad avvicinare il Borghetti alle narici vengo preso dalla nausea, cui segue il ricordo di un capodanno. 
Eravamo a festeggiare in un casolare di campagna. C’eravamo tutti. Mandingo ballava e rideva; Cicco suonava il basso e rideva anche lui. Poi c’eravamo io e Testa di Gomito che, in maniera rumorosa, ci contendevamo il Borghetti giocando alla morra. «DUE, SEI, SETTEMBRE, TREMA DI ME» e giù a bere fiumi di Caffè Sport. Finì una bottiglia, poi un’altra. 
Ed ecco: l’ansia. 
La caffeina iniziò a circolarmi nelle vene unendosi all’alcol. Tutto ciò provocò in me uno stato di ansia schizofrenica. Mi sentii male e volli andarmene. Testa di Gomito, anche lui esaurito dal liquore, si offrì di accompagnarmi con la macchina. Partì sgommando a 200 km/h. (Non di rado la sera, prima di coricarmi, sono solito stendere dei ceci a terra, inginocchiarmi, quindi pregare Dio-Nostro-Signore per non esserci schiantati come due polpette). 
Arrivammo quindi davanti casa. L’ansia della caffeina lavorava frenetica il mio sistema nervoso centrale. Percorsi il vialetto, arrivai dinanzi l’uscio, presi le chiavi e inavvertitamente schiacciai il pulsante che azionava l’allarme. La potente sirena finì per disintegrare l’ultimo barlume di calma nel mio animo. Preso dal panico, attanagliato dalla paura dei ladri (ovviamente immaginari), ruppi il vetro che dà sulla sala. Entrai dalla finestra rotta, caddi sull’albero di Natale, l’albero di Natale cadde sulla cristalliera di mio padre, la cristalliera franò e finì per rompere il tavolo, anch’esso di un bel cristallo di Murano. A terra, un numero incalcolabile di Swarowsky rotti. 
Sicché mi ritrovai con casa distrutta senza capirci una mazza. Tutto era successo in trenta secondi. Notai che perdevo sangue. Ammirai il mio capolavoro. Testa di Gomito scuoteva la testa come un ebete. 
«E mo?» chiesi. «’Ngulo che casino!» 
«Cazza tu,» rispose Testa di Gomito. E andò via. Ero in bel guaio, e adesso ero anche solo. 
Decisi di giocare d’anticipo: alzai la cornetta e chiamai il Babbo. 
«Dimm’ Robin, auguri.» 
«O pa’, sint’, ecc’ cià stat’ li ladri, ma n’n t’ preoccupare, ca li sò cacciat’ j’.» 
«Ma tà fatt’ mal’, ti fatt’ dol?» chiese premuroso. 
Ero alle corde; attingevo le ultime forze. 
«O pa’, ca i sò dat’ ’na frac di botte, statt’ tranquillo.» 
«ARRIVO SUBITO!» urlò il Babbo. E riattaccò il ricevitore. 
“MERDA!” pensai. 
Caddi nella disperazione più nera. Mio padre si sarebbe accorto sicuramente della sbornia. Che fare? Mi sedetti sulle scale. Le mani insanguinate coprivano il volto sfatto. Cercai un rimedio aspettando l’arrivo dei miei. Pensa che ti pensa, m’addormentai così, in quella posa plastica, sdraiato sulle scale come un clochard
Quando mio padre mi svegliò, lo guardai e le uniche parole che mi vennero fuori furono: 
«CAFFÈ SPORT BORGHETTI DUEMILA, LI SÒ CIS LI LADR’ PAPÀ.» 
Com’era prevedibile, mio padre mi massacrò con i calci e con i pugni. Alla fine usò anche la cinta. Fu una notte terribile. 
Il mattino seguente, dopo una nauseante colazione e quattro o cinque cazzotti avanzati dalla sera prima, mi venne presentato il conto: un milione del vecchio conio. L’estate seguente andai a fare il carpentiere per ripagare i danni. Rimborsai fino all’ultimo centesimo. Il Borghetti mi uccide.

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