lunedì 23 gennaio 2012

No al calcio moderno.

  Quella domenica, una domenica piena di sole e con una leggera brezza, si giocava il derby Lokomotiv Ripattoni-San Nicolò. Ero particolarmente emozionato. Rivedere la mia ex-squadra in una partita come quella era per me sempre un piacere. Arrivai al campetto e mi defilai sulle tribune. Mi sedetti sull’erba, aprii uno stravecchio Etichetta Nera Mignon e aspettai il fischio d’inizio. Notai fin da subito un certo nervosismo sulle tribune. Le due tifoserie – in realtà composte da una dozzina di tizi, perlopiù parenti ed amici – si guardavano in cagnesco da una parte all’altra del campo. La tensione salì ulteriormente quando alcuni tifosi del San Nicolò iniziarono a cantare “’Ngul a mammet”, famoso inno preso in prestito dagli Ultras della squadra maggiore. 
Com’era prevedibile, i primi disordini non si fecero attendere. Un giocatore del San Nicolò, avvicinandosi alla rete del campo, iniziò a stirarsi e a fare un po’ di riscaldamento. Dietro di lui, un famoso novantenne autoctono fece passare furtivamente il bastone per camminare attraverso una delle maglie della rete, prese la mira e colpì sui reni il povero giocatore. Questi fece una smorfia di dolore e cadde a terra come un sacco. 
«J’ M’ T’ MAGN’ LU COR’,» urlò il vecchio. 
Il povero terzino svenne. Dovettero portarlo via in barella, sembrava morto. 
«Mj’a cuscì, uno di meno, brav’ vicchiarrò,» disse il tifoso che mi sedeva vicino. 
Si avvicinava così il momento del fischio d’inizio; le squadre entrarono in campo. Tutto sembrava pronto, ma ci fu un altro intoppo. Il San Nicolò, per errore chissà di chi, indossava la divisa casalinga. Ora, siccome lo sponsor (Pizzeria l’Orsetto, pizza al taglio e da asporto) era lo stesso per le due squadre, ebbene, queste si ritrovarono con gli stessi colori sulle magliette. Gli sguardi dei giocatori sembravano persi nel vuoto, ma ormai era troppo tardi per rimediare e l’arbitro diede il via all’importante manifestazione. 
Inevitabilmente, la confusione prese il sopravvento. I calciatori avevano difficoltà a riconoscersi fra loro. La situazione si fece insostenibile quando un difensore del San Nicolò, ingannato dalle divise identiche, passò la palla all’attaccante del Lokomotiv, convinto che fosse un suo compagno di squadra. La punta della squadra di casa mise così la palla nel sacco a porta vuota. L’arbitro segnò il punto sul taccuino. Uno a zero, palla al centro. 
Il capitano del San Nicolò, incazzatissimo, disse: 
«Albitro, Albitro, ma nu vid c’a n’n ciarcunusciam, fa qualcosa, Cristo.» 
L’arbitro si passò la mano nei radi capelli e disse: 
«Compà, aguard c’a j’ facc’ l’albitro, mica lu sarto.» 
Al capitano quelle parole parvero ragionevoli e tornò a piazzarsi nel cerchio di centrocampo. La partita ricominciò, ma gli animi s’erano ormai accesi e le cose non potevano che peggiorare. 
I calciatori continuavano a confondersi. Qualcuno, più furbo, cercò addirittura di sfruttare la situazione. Un giocatore, subdolamente, chiamò il passaggio ad un avversario. 
«QUA, PASSA, STO QUA!» 
Il povero allocco abboccò all’inganno e gli fece un passaggio perfetto sui piedi. Sicché quell’altro stoppò palla, fece rapidamente inversione e gridò: 
«TIÈ, MPAPÌ.» Il tutto arricchito dal famoso gesto dell’ombrello. 
Gli animi erano allo spasimo. La situazione capitolò definitivamente quando un tifoso del San Nicolò, piazzatosi a ridosso del portiere del Lokomotiv, iniziò ad insultarlo. Urlava con le mani ad imbuto sulla bocca e si sentiva solo lui. Preso da un’incredibile vena creativa, vomitò addosso al povero portiere (che bello non era di certo) insulti di una fantasia insuperabile. 
«QUAND’ CAZZ’ SÌ BRUTT’, QUAND’ CAZZ’ FÌ SCHIF, N’N T’ S’ PÒ GUARDÀ, MO T’ SCRITTURO AL CIRCO TOGNI.» 
Poi, alzando il tono della voce, cominciò col ripetere sempre lo stesso insulto, come Sgarbi. 
«COGLIONE, COGLIONE, COGLIONE,» e così all’infinito. 
Il portiere resistette per qualche secondo; poi, inalberato, urlò: 
«SE NA SMITT TI MASSACR.» 
Ma il tifoso non sentiva ragioni e nulla pareva potesse fermarlo, sembrava un vecchio disco rotto. 
«COGLIONE, COGLIONE, COGLIONE.» 
Il portiere prese a rispondergli; urlava anche lui. 
«SMETTILA, TI SO DETTO, SE NO T’ MASSACR.» 
L’arbitro dovette intervenire. Fece una corsa non troppo agile verso il portiere e gli intimò di smetterla. 
«Se nà smitt t’ cacc’ là for,» disse. 
Il portiere di casa, forse intimorito, si ricompose e la partita continuò. 
Al sessantesimo minuto successe che il San Nicolò, grazie ad un’azione piuttosto fluida, si presentò davanti la porta avversaria. L’attaccante, con un bel gesto atletico, riuscì a tirare molto forte. 
«’NGUL CHE CANNATA!» urlò un tifoso strabuzzando gli occhi. 
Il portiere riuscì ad afferrare la palla con le mani. Fiero dell’impresa, rimase qualche secondo fermo in area con la palla sottobraccio. L’implacabile Ultras riattaccò: 
«CA CE LI FATT’ A PARÀ NU PALLON’, O DEFORME, O MENOMATO.» 
Il portiere, con la palla in mano, fece qualche passo verso l’inopportuno soggetto. 
«AGUARD CA MO T’ MASSACR,» urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Ma il tifoso non sentiva ragioni e sembrava sempre più Sgarbi. 
«COGLIONE, COGLIONE, COGLIONE.» 
Preso dal nervosismo, il portiere fece un ulteriore passo avanti, poi un altro e un altro ancora. Finì che, senza accorgersene, uscì dalla propria area di rigore con la palla in mano. Sicché arrivò immancabile il rosso dell’arbitro, che disse: 
«J’ tavè’ avvertit’, mpapì.» 
Il malcapitato portiere, ormai in preda all’esaurimento nervoso, iniziò a correre verso il tifoso. Ma quello riuscì a scappare e a raggiunse la sua Opel. Sparì sgommando. 
La partita venne interrotta. Un giocatore del Lokomotiv disse: 
«J’ lu sacc’ ’nda stà quello, stà allu Planeta, lu bar di Case Molino.» 
Sicché tutti i giocatori del Lokomotiv presero a correre verso il pulmino della società, vi si infilarono dentro e partirono inneggiando “’Ngul a mammet” all’unisono. 
Io, ovviamente, li seguii. Una volta nel locale, quello che vidi fu questo: un tizio chiuso al cesso, undici cristiani con tacchetti e parastinchi che cercavano di sfondare la porta gridando «APR’, PEZZ’ D’ MERD’» e il titolare del Planeta con le mani sul cuoio capelluto, disperato. Andarono avanti così per un po’, la situazione era davvero pericolosa. Poi il barista minacciò di alzare del 30% il prezzo delle spine per un mese, e allora scappammo via alla velocità della luce. I giocatori correvano così forte che i tacchetti gli sbattevano sul culo. 
Quindi tornammo tutti al campo. I due allenatori e l’arbitro complottavano in cerchio. Mi avvicinai e tesi l’orecchio. 
«Che faciam’, adesso?» chiese l’anziano coach del Lokomotiv. 
«Sospendiamo,» disse l’altro allenatore. 
«E J’ che cazz’ c’ scriv’ ’n cim’ al verbale?» disse l’arbitro con tono perplesso. 
«Che è piovuto, compà,» risposero gli altri due all’unisono. 
Mi allontanai. Il cielo era più azzurro dell’azzurro – niente nuvole. Il sole iniziava a scottare. I raggi mi si posavano addosso come la colla. Tolsi il maglioncino, asciugai il sudore dalla fronte e m’incamminai verso casa. La partita era ormai finita. 
Un tifoso gridò: 
«ALMEN’ NOI NU GOL LU SEM FITT.» 






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