lunedì 23 gennaio 2012

Inadeguatezza del Natale.


  Dopo una serie di aperitivi interminabili, la sera della vigilia, approdo al Campanile. Guidato dal Campanilista, mio amico e assiduo frequentatore del locale, trovo all’inizio difficoltà ad immergermi nella casta Alloccopolisiana. Decido di prendere da bere e chiedo una birra al tizio. «Mi fì na brratt fresca, per piacere?» Devo urlare; la radio copre la mia voce. Il barista si gira e prende a squadrarmi dalla testa ai piedi (il mio abbigliamento consiste in una tuta tutta bucata e un paio di Gazzelle gialle), quindi abbassa la radio e sputa fuori qualcosa come: «Compà, mò t facc pruvà na birretta artigianale che fa impressione, che dici, mescio?», «Al dente compà», esclamo ridendo. Bevo la birra ma non mi piace molto; lascio il bicchiere mezzo vuoto e chiedo il conto. «Dodici euri, compà», mi dice ridendo. Inizio a sentirmi preso per il culo. Dodici euro per una birra schifosa. Mi inalbero e grido: «Compà lu cazz, quanda cazz cost na birr dantr stu cess». (In realtà la frase non l’ho coniata io. Un irrimediabile alcolizzato della città la urlò una sera in un bar rivolgendosi, a sua insaputa, alla colonnina delle patatine.) E così tutti iniziano a fissarmi minacciosi; non essendo Mike Tyson, decido di capitolare fuori. Il Campanilista rimane lì a fare da soprammobile.
  Mi accingo quindi verso il Displasia, noto locale Alloccopolisiano, famoso per la pesante vena Radical’New Age’Eruditus, e ordino due bicchieri di Pecorino, uno per me e uno per un mio amico appena incontrato. Quindi prima mi fanno pagare (forse, ma dico forse, la tuta e le Gazzelle mi danno un aspetto trasandato, di un ladro), poi iniziano a versare. Anche qui pago quattro Euro a bicchiere. Decido di non incazzarmi. «Se n’n t va bbone, ngì venire», mi ripeto. A volte questo non basta. La tipa riempie il primo bicchiere, ma la bottiglia finisce a metà del secondo. A quel punto si gira con fare furtivo, si guarda intorno e appiana i due calici versando il vino di quello pieno dentro l’altro. Vedo la scena benissimo dallo specchio. Mi incazzo di nuovo e dico: «Ma scusa, n'n pu prì na buttje gnov? Na buttje cust dic eur allu supermercato, tu mi vinn nu bicchir a quattr, aprla na cazz d buttje». Lei inizia a giustificarsi dicendo che, oltre la bevuta, in quei quattro Euro sono compresi anche gli stuzzichini. «E chi cazzo te l’ha chiesti», rispondo ad alta voce.
  Esco anche da quel posto e decido di farmi una passeggiata per la via centrale. Facendomi spazio fra la folla, tutta rivestita per le feste, incontro l’Ermetico, che mi prega di seguirlo alla sua festa di laurea presso il Lampàdà. Non ci sono mai stato, ma dentro di me penso che peggio di così davvero non può andare. (Un pensiero davvero stupido ed incosciente.) Il Lampàdà è uno dei tanti locali cult che va aprendo qua e là un tale che chissà dove prende i soldi. Ci incamminiamo. Per un tratto di strada ci precedono due ragazze. Il profumo delle due è talmente forte e si sente ad una tale distanza che l’Ermetico è costretto ad esclamare: «A cià cascat dentr la buccett». Arrivo quindi davanti al Lampàdà e mi metto in fila. Già da fuori si può ascoltare dell’ottima House’Commercial’Underground’Funkje’Jungle di tipo dieci anni fa. Quasi vomito e mi porto una mano alla bocca. Arriva il mio turno. A sbarrarmi la strada trovo un buttafuori enorme alto due metri. Prende anche lui a squadrarmi malamente. Maledetta tuta, Gazzelle del cazzo, penso tra me. Alla fine si decide e mi dice: «Tu non puoi entrare che così fai schifo». Rimango basito e chiedo conferma. «Come scusi?», «Ho detto, tu qua non puoi entrare che fai schifo». Inevitabilmente, mi incazzo come una bestia. Essendo in netta deficienza fisica nei confronti del voluminoso buttafuori, inizio ad urlagli addosso insulti di stampo razzista. (Era per me l’unico modo di fargli del male.) Così quello mi sbatte al muro e mi invita a ripetere dimostrando il mio coraggio. Molti curiosi iniziano a fare cerchio intorno a noi, qualcuno si lascia scappare delle frasi di incoraggiamento rivolte al sottoscritto. Allora prendo coraggio e dico: «Io facc schif ? Sol perché porto la tuta? E tu, allor, cha fin a ir stiv a pit scaz nella foresta?». Poi, preso dall’ispirazione, aggiungo: «Io ti brucio la capanna». Il buttafuori mi sbatte di nuovo al muro ma – causa testimoni, anche se tutti ubriachi – deve lasciarmi. Quindi vado via, prendo la Golf, accendo la radio e m’incammino verso casa. Se ne riparlerà il prossimo Natale. 

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