Dopo
una serie di aperitivi interminabili, la sera della vigilia, approdo
al Campanile. Guidato dal Campanilista, mio amico e assiduo
frequentatore del locale, trovo all’inizio difficoltà ad
immergermi nella casta Alloccopolisiana. Decido di prendere da bere e
chiedo una birra al tizio. «Mi fì na brratt fresca, per piacere?»
Devo urlare; la radio copre la mia voce. Il barista si gira e prende
a squadrarmi dalla testa ai piedi (il mio abbigliamento consiste in
una tuta tutta bucata e un paio di Gazzelle gialle), quindi abbassa
la radio e sputa fuori qualcosa come: «Compà, mò t facc pruvà na
birretta artigianale che fa impressione, che dici, mescio?», «Al
dente compà», esclamo ridendo. Bevo la birra ma non mi piace molto;
lascio il bicchiere mezzo vuoto e chiedo il conto. «Dodici euri,
compà», mi dice ridendo. Inizio a sentirmi preso per il culo.
Dodici euro per una birra schifosa. Mi inalbero e grido: «Compà lu
cazz, quanda cazz cost na birr dantr stu cess». (In realtà la frase
non l’ho coniata io. Un irrimediabile alcolizzato della città la
urlò una sera in un bar rivolgendosi, a sua insaputa, alla colonnina
delle patatine.) E così tutti iniziano a fissarmi minacciosi; non
essendo Mike Tyson, decido di capitolare fuori. Il Campanilista
rimane lì a fare da soprammobile.
Mi
accingo quindi verso il Displasia, noto locale Alloccopolisiano, famoso per
la pesante vena Radical’New Age’Eruditus, e ordino due bicchieri
di Pecorino, uno per me e uno per un mio amico appena incontrato.
Quindi prima mi fanno pagare (forse, ma dico forse, la tuta e le
Gazzelle mi danno un aspetto trasandato, di un ladro), poi iniziano a
versare. Anche qui pago quattro Euro a bicchiere. Decido di non
incazzarmi. «Se n’n t va bbone, ngì venire», mi ripeto. A volte
questo non basta. La tipa riempie il primo bicchiere, ma la bottiglia
finisce a metà del secondo. A quel punto si gira con fare furtivo,
si guarda intorno e appiana i due calici versando il vino di quello
pieno dentro l’altro. Vedo la scena benissimo dallo specchio. Mi
incazzo di nuovo e dico: «Ma scusa, n'n pu prì na buttje gnov? Na
buttje cust dic eur allu supermercato, tu mi vinn nu bicchir a
quattr, aprla na cazz d buttje». Lei inizia a giustificarsi dicendo
che, oltre la bevuta, in quei quattro Euro sono compresi anche gli
stuzzichini. «E chi cazzo te l’ha chiesti», rispondo ad alta
voce.
Esco
anche da quel posto e decido di farmi una passeggiata per la via
centrale. Facendomi spazio fra la folla, tutta rivestita per le
feste, incontro l’Ermetico, che mi prega di seguirlo alla sua festa
di laurea presso il Lampàdà. Non ci sono mai stato, ma dentro di me
penso che peggio di così davvero non può andare. (Un pensiero
davvero stupido ed incosciente.) Il Lampàdà è uno dei tanti locali
cult
che va aprendo qua e là un tale che chissà dove prende i soldi. Ci
incamminiamo. Per un tratto di strada ci precedono due ragazze. Il
profumo delle due è talmente forte e si sente ad una tale distanza
che l’Ermetico è costretto ad esclamare: «A cià cascat dentr la
buccett». Arrivo quindi davanti al Lampàdà e mi metto in fila. Già
da fuori si può ascoltare dell’ottima
House’Commercial’Underground’Funkje’Jungle di tipo dieci anni
fa. Quasi vomito e mi porto una mano alla bocca. Arriva il mio turno.
A sbarrarmi la strada trovo un buttafuori enorme alto due metri.
Prende anche lui a squadrarmi malamente. Maledetta tuta, Gazzelle del
cazzo, penso tra me. Alla fine si decide e mi dice: «Tu non puoi
entrare che così fai schifo». Rimango basito e chiedo conferma.
«Come scusi?», «Ho detto, tu qua non puoi entrare che fai schifo».
Inevitabilmente, mi incazzo come una bestia. Essendo in netta
deficienza fisica nei confronti del voluminoso buttafuori, inizio ad
urlagli addosso insulti di stampo razzista. (Era per me l’unico
modo di fargli del male.) Così quello mi sbatte al muro e mi invita
a ripetere dimostrando il mio coraggio. Molti curiosi iniziano a fare
cerchio intorno a noi, qualcuno si lascia scappare delle frasi di
incoraggiamento rivolte al sottoscritto. Allora prendo coraggio e
dico: «Io facc schif ? Sol perché porto la tuta? E tu, allor, cha
fin a ir stiv a pit scaz nella foresta?». Poi, preso
dall’ispirazione, aggiungo: «Io ti brucio la capanna». Il
buttafuori mi sbatte di nuovo al muro ma – causa testimoni, anche
se tutti ubriachi – deve lasciarmi. Quindi vado via, prendo la
Golf, accendo la radio e m’incammino verso casa. Se ne riparlerà
il prossimo Natale.
ollalaòà... che roba
RispondiElimina