martedì 24 gennaio 2012

Io e Peppe.

  Pomeriggio tardi. Roma. Peppe aprì l’angusto frigo di casa. Uno spicchio di cipolla ormai verde traballava solitario. Negli stipi, vicino le uova atomiche, due dita di prosecco lo scrutavano da una bottiglia tappata con il cucchiaino. Tirò giù un sorso, un altro, e sputò all’istante l’orribile liquido sul pavimento. Guardò preoccupato l’orologio. Ormai si avvicinava sera e bisognava organizzarsi per il week end romano. 
«ROBIN,» urlò svegliandomi, «N’N C’ STÀ NU CAZZ’ DA BEV’, ALLARME ROSSO COMPÀ.» 
«CODICE BLU, PEPPE,» risposi alzando anch’io la voce. 
Sicché andammo al supermercato vicino casa, dritti dritti al settore alcolici. Non avevo voglia di sfondarmi e provai qualche scusa. Peppe era però incontenibile. 
«Peppe, che dici, un fragolino?» 
«Mmmh, bah.» 
«’Na birretta allora, ’na bella biretta fresca. Non ci sta male.» 
«E che ci fai?» 
Aveva lo sguardo puntato sui mocassini rossi. Tirò via la mano dalla tasca e s’accarezzò i radi capelli bruni, perfezionando così l’ottimo riporto. Si vedeva che era concentrato. 
«Robin, qua c’ vò la Vodka, no li chiachr’,» sentenziò. 
E vodka fu. 
Prendemmo due bocce e tornammo nel nostro seminterrato stretto e muffoso (non a caso Peppe era solito chiamarlo bat caverna). I recipienti vennero vuotati a velocità record. Ci dilettammo poi un’oretta al gioco dello Striscia. Io presi l’Uniposca e tracciai una spessa linea nera a terra, sul linoleum azzurro del pavimento. Facemmo la conta e a Peppe uscì di fare il poliziotto. Toccò a me camminare sulla striscia. Peppe minacciava il ritiro della patente. Era tutto molto ludico e spassoso. Alla fine, in questura (che poi era il cesso) firmai un documento e m’allontanai. Decidemmo che s’era fatto tardi e uscimmo. 
Peppe prese lo scooter e partimmo alla volta della Prenestina, dritti verso lo Strike, famoso localino techno della capitale. Arrivammo quindi davanti i cancelli, ma non trovammo nessuno ad aprirci. Lo sconforto quasi ci divorava. Stavamo quasi per andare via, poi una coppietta s’avvicinò all’entrata. La tizia prese il cellulare e chiamò qualcuno. Subito dopo arrivò un signore alto ad aprire i cancelli. Ci imbucammo anche noi. 
«Una festa privata Robin, e vai!» mi sussurrò Peppe vicino l’orecchio. 
La prima piacevole sorpresa fu l’Open Bar, che tradotto vuol dire bicchieri gratis. Ci ritrovammo così in breve tempo dall’altra parte del bancone, a preparare cocktail improbabili per noi e per tutti. Ci divertimmo molto a fingerci barman. Fummo impeccabili. Il tempo passava veloce e la musica assordante m’induriva i timpani. Insomma, tutto andava per il meglio. Poi s’avvicinò questo tizio, aveva i peli fuori la camicia e gli occhi dispari. Il mio amico gli chiese gentilmente l’ordinazione. 
«’Na spina pe’ favore, a zì.»  
Preparò la bibita con zelo e gliela porse davanti. Fu in quell’attimo che successe l’imprevedibile. 
«Quant’è?» chiese il tizio tirando via il borsello dalla giacca. 
Peppe mi guardò dritto negli occhi, poi guardò quello e poi di nuovo me. Si vedeva che era concentrato. 
«Quattro euri per te compà.» 
Il tizio sborsò il denaro e sparì nella calca. Quello divenne il nuovo sport. 
«Un whiskey, a zì.» 
«Arriva.» 
«Vodka tonic, bello.» 
«Pronti!» 
Facemmo un bel gruzzolo in poco tempo, qualcosa però andò storto. Si avvicinarono tre tizi con l’aria minacciosa. Uno di quelli gonfiò il petto e ci raggiunse dietro il bancone. 
«CHI SIETE?» urlò. 
«Lui è il festeggiato,» rispose Peppe indicandomi. 
«IO SÓ ER FESTEGGIATO,» fece il più grosso e incazzato dei tre. 
I minuti che seguirono furono terribili. Ci massacrarono con i pugni e con i calci. Sputavano anche. Ricordo un unico groviglio di dolore e umiliazione. Sembrava di volare con tutti quei calci in culo. Non so per quanto tempo andammo avanti in quel modo. Quel che è certo è che ci svuotarono le tasche e i sudati guadagni andarono in fumo. Alla fine ci lanciarono fuori lo Strike su un’enorme una pozzanghera di piscio. Non era più il caso di andare in giro e ci avviammo verso lo scooter. Camminavamo a fatica. Il corpo sembrava privo delle ossa e puzzavamo di vomito. Siccome non bastava, iniziammo a litigare fra noi. 
«Guido io Peppe, che tu stai mozzo.» 
«No, il motorino è mio, guido io.» 
«Tu ci fai schiantare, smettila, guido io.» 
«Lu muturin’ aè lu mì, se t va bone se no arvattn a pit,» disse incazzato. 
Lo mandai a fare in culo e mi diressi verso la fermata del notturno. Mi sedetti sulla panchina e aspettai l’autobus. Faceva anche molto freddo. “’Ngul a mammete Giusè,” pensai. Dopo 10 minuti vidi un’ombra correre verso di me. Lo riconobbi, era uno dei tre dei calci in culo. Si avvicinò ansimando. 
«Aò, viettè a ripjà l’amico tuo.» 
Tornai indietro. Quel che vidi fu assurdo. Circondato da una folla ben vestita, ad una decina di metri dalla partenza, Peppe s’era spalmato a terra e, col motorino ancora acceso, continuava ad accelerare imperterrito. La ruota girava vorticosamente a vuoto; dalla marmitta veniva un fumo bianco che sapeva di bruciato. Toccai Peppe con la suola della scarpa. Luì azionò il freno e disse: «Sali Robin, sali, dai guidi tu.» Non rimaneva molto da fare. Alzai lo scooter da terra, caricai il corpo del mio amico sullo scooter e partii. Nel tragitto Peppe dormiva poggiando il casco sulla mia spalla poggiata. Dovetti portarlo come un sacco fino alla bat caverna. Lo accomodai nel letto e gli rimboccai le coperte. Lui si svegliò di soprassalto. 
«Robin, la festa? Coma à it a finì?» chiese. 
«Ci hanno cacciato a calci in culo Peppe.» 
«BASTARDI MALEDUCATI!» 
Poi collassò per sempre sul cuscino. Anch’io ero provato, mi sdraiai sul divano, chiusi gli occhi e presi sonno.

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