sabato 14 aprile 2012

Una festa anni 70.

Quando il mio coinquilino lasciò l’università furono guai. Abbandonò casa una sera d’inverno. Le ultime sue parole furono: «Robin, mollo l’università.» 
«Sei sicuro?» chiesi. 
Studiava fisica, ma lui non la chiamava mai così. «Sicurissimo Robin. Con una laurea in Astrofica spaziale non si va più da nessuna parte al giorno d’oggi. Bisogna che faccia qualcosa ora, finché sono giovane. Vado a fare un corso di Jambé. Ti consiglio di fare la stessa cosa se non vuoi trovarti a piedi, un domani.» 
«Grazie. Ci penserò,» risposi pensoso. 
Quindi prese un enorme tamburo, lo percosse con la mano e accennò un sorriso languido salutando con la mano libera. Lo spiai dalla finestra mentre si allontanava con quel coso enorme a tracolla. Salì su di un autobus inscenando una strana danza tribale. Fu l’ultima volta che lo vidi. 
Io tornai sui miei passi e aprii la porta della sua stanza ormai vuota. Un sentimento di angoscia mi pervase. Bisognava trovare un nuovo coinquilino, e questo, credetemi, è un passo delicato. Non sono ammessi errori. Mettersi un coglione in casa può voler dire una vita d’inferno. Preparai i volantini e ne feci varie fotocopie che puntellai sulle bacheche di tutte le università. Fui molto chiaro: 
“AFFITTASI CAMERA SINGOLA. AMPIA E LUMINOSA. SIA UOMINI CHE DONNE. NO CANI. NO GATTI. NO CRICETI. NO SERPENTI E, PER L’AMOR DI DIO, NO COPPIETTE. GRADITI FUMATORI, BEVITORI, AMANTI DELLA MUSICA AD ALTO VOLUME”. 
Più chiaro di così! 
All’annuncio risposero in molti. Veniva gente di tutti i tipi: fighetti, punk, froci, uomini banali, un impiegato di banca, un divorziato, uno sputafuoco, un muratore albanese, due siamesi, un tizio che diceva di chiamarsi Cristo, un ventriloquo, eccetera eccetera. 
Alla fine, stremato, optai per una ragazza composta, sulla venticinque, né bella né bona, con una margherita sull’orecchio e i calzoni a zampa di elefante. 
Patti, disse di chiamarsi Patti, come la cantante. 
«È il tuo vero nome?» chiesi dubbioso. 
«È il mio nome d’arte. Pace, amico mio.» Alzò due dita formando una V. 
“Speriamo bene,” pensai. 
Dopo una settimana Patti invitò un paio di suoi amici a cena. Un’ora prima l’arrivo degli ospiti aveva già dato fuoco ad una ventina di stecche d’incenso – fragranza opium. Una roba disgustosa. 
«Non possiamo fare a meno dell’incenso?» obiettai. 
«Scherzi? Aiuta la meditazione. Inoltre è un forte empatogeno.» 
«Ma non era una cena?» 
«Appunto!» 
“Bah,” pensai, “speriamo bene.” 
Poco dopo suonarono alla porta e andai ad aprire. Vidi questi due tizi, anche loro con le zampe d’elefante, due camicioni a fiori con dei colletti enormi. 
«Pace, fratello,» dissero all’unisono. 
«Pace,» risposi. 
«Io sono Jim. E questo è il mio amico Iggy.» Iggy annuì con un cenno del capo. 
“Benissimo,” pensai, “manca Santana e siamo al completo.” 
Sedemmo tutti a tavola e a me venne da starnutire. Jim colse la palla al balzo. 
«Raffreddore?» chiese. 
«No, solo uno starnuto.» 
«Ho qui qualcosa che ti farà bene.» 
«Non ho il raffreddore, ti dico.» 
«Non bisogna lasciarlo fare il raffreddore. Prendi questo.» 
Estrasse una sacchetta di cuoio, la capovolse e ne venne fuori uno strano ammasso di foglie secche. 
«È una tisana per il raffreddore,» disse Jim. 
«Non ho il raffreddore,» risposi alzando un po’ la voce. 
«Vai tranquillo, è omeopatica.» 
«Ah, beh, allora.» 
Presi l’infuso e, dopo dieci minuti, iniziai a sentirmi male sul serio, ma per educazione non dissi nulla. La cena ebbe inizio. A tavola mancava l’acqua, sicché presi una bottiglia di Coca vuota e la riempii al rubinetto, poi tornai in sala poggiandola sulla tovaglia. Jim aggrottò la fronte. 
«Che c’è?» chiesi. 
«Come puoi far questo?» disse Jim. 
«Cosa?» 
«La Coca a tavola.» 
«È acqua,» dissi interdetto. 
«La bottiglia è della Coca Cola, ed è una multinazionale la Coca Cola, e le multinazionali sono male.» 
Presi la bottiglia e strappai l’etichetta. 
«Così va meglio?» chiesi. 
«Il tappo,» disse Jim. 
Svitai il tappo ficcandomelo in tasca. 
“Ora capisco perché questi tizi vanno in giro in coppia,” pensai fra me. 
«Possiamo mangiare, ora?» chiesi. 
Jim, Iggy e Patti annuirono. Mangiammo. Patti aveva preparato una cena stile macrobiotico, di quelle che non sanno di niente e men che meno ti saziano. Quando i tizi andarono via, mangiai di nascosto un panino con la porchetta avanzato dal pomeriggio. Stappai anche una lattina di Coca e la bevvi in un sorso. 
Passarono alcuni giorni e venni invitato da Patti ad una festa “frikettona”. Convinto che non tutti gli amici di Patti fossero come quei due coglioni della cena accettai l’invito. Ovviamente, mi sbagliavo. La festa era all’aperto, su di un terrazzo privato. Tutti – e dico tutti – erano vestiti con zampe d’elefante e camicie a fiori. Ero l’unico con felpa e jeans. Iniziai col sentirmi a disagio. Tutti mi guardavano in cagnesco, chiedendosi chi mai fosse quel “multinazionalista” e cosa ci faceva in un posto come quello. Jim e Iggy erano seduti a terra con una stecca d’incenso che gli fumava davanti. Decisi di stare buono in un angolo. Ma il destino, come sappiamo, sa essere beffardo e non manca di senso comico. Successe questo: alla festa c’erano molti cani liberi, uno di questi, preso non so da cosa, iniziò a mordermi il cavallo dei pantaloni. Ora, io non sono un grande scopatore, ma al mio pisello ci tengo lo stesso. Quindi, preso dallo spavento, iniziai a dar calci al cane, che emise qualche sbuffo di dolore e scappò via. Quando alzai lo sguardo notai che tutti gli occhi erano puntati su di me. Un tizio, abbastanza in forze, mi si avvicinò e disse: 
«Che cazzo fai? Come ti permetti?» 
«E tu chi sei?» chiesi. 
«Sono Freddy, e quello che hai preso a calci è il mio cane, sporco anti-animalista.» 
«Cosa? No, no. Ti sbagli. Il tuo cane voleva ridurmi ad eunuco.» 
«Sei un anti-animalista. Tu odi gli animali,» ricalcò. 
«Senti, o Freddy Mercury, o come cazzo ti chiami, vedi dove devi andare,» urlai inalberato. 
Mi ritrovai tutti contro. Non sentivano ragioni. Una frangia di quei coglioni minacciava addirittura di picchiarmi. 
“È così?” pensai, “ora vediamo.” 
Attaccai a bere di brutto. Uno alla volta, mi passai tutti gli invitati dicendo sproloqui e, se possibile, ruttandogli in faccia – a qualcuno è andata anche peggio. Insomma, misi tutto me stesso nel rovinare la festa. Ma il tocco di classe fu quando, al cesso, vidi una ragazza, evidentemente ubriaca, spalmata a terra. 
«Stai bene?» chiesi. 
«Acqua, ti prego, portami un po’ d’acqua,» diceva quella in tono supplichevole. 
Ed ecco il genio: presi un bicchiere, lo riempii di grappa assoluta e lo porsi alla povera inferma. Questa, senza alzare le palpebre, tirò giù un’enorme sorsata. La tizia fece una smorfia di dolore, raggiunse la finestra e vomitò pure l’anima sulla strada. In quel mentre, entrarono Jim e Iggy. 
«Come stai?» chiese Jim. 
«È stato lui» disse la tizia gorgogliando come un lavandino tappato. «Lui mi ha fatto bere.» E risvenne sul pavimento. 
Jim, incazzato nero, disse: 
«Ora vai via.» 
«Ma andate a cagare, va,» dissi io. 
Scesi le scale. La puzza d’incenso arrivava fin lì. Accesi una sigaretta e vidi il contatore della luce. Fu un attimo: tirai giù l’interruttore, estrassi un coltello che avevo in tasca e tagliai i fili. Le urla che venivano dal terrazzo mi fecero godere come un caimano. 
“Merda per me, merda per tutti,” pensai. 
Aprii il portone mentre una gloriosa soddisfazione mi scivolava nelle vene. Ma – come dicevamo – il destino non manca di senso dell’umorismo. Dopo pochi passi, inciampai nel vomito della tizia cadendoci sopra. Era una poltiglia rossastra e puzzolente. Fui costretto a farmi mezza Roma in quelle condizioni. 
“Domani,” pensai, “vado ad iscrivermi al corso di Jambé.”

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