giovedì 26 aprile 2012

Il Boss.

  Fu un qualcosa da niente, un qualcosa sul come si prepara il Campari, poi iniziarono a darsele e se le davano di brutto. Mi sentivo in colpa per ciò che stava accadendo. Dopotutto, l’idea di andare in quel bar era stata mia. Il primo schiaffo lo prese il mio amico. Reagì con un fendente al volto che inondò l’aria come una fucilata. Ognuno aveva avuto il suo ed ora erano entrambi tramortiti a terra. Presi un fazzoletto e lo porsi al mio amico. Dopo due minuti riattaccarono a darsele. Il tizio passò dall’altra parte del bancone e iniziò a tirare ogni sorta di bottiglia contro il muro cercando di colpire l’avversario. In breve il pavimento diventò una pozzanghera di Fernet-Borghetti-GranSasso-Ramazzotti-GinPiscio-Limoncello. Nell’aria c’era un odore di distilleria da far svenire. Un vecchio con le vene varicose in faccia scoppiò in lacrime. 
  «Tutta questa grazia di Dio,» diceva. Abbassò la testa come un gatto e leccò il pavimento con la sua lingua livida e porosa. Slap, slap, slap. «Però, non male,» concluse. 
  «Io non mischio mai i superalcolici, fa male,» gli rispose un altro vecchio. 
  I duellanti, nel frattempo, erano più agitati che mai. Ora si rotolavano a terra come due cilindri sbattendo la testa su spigoli, gambe di sedie, gambe di vecchi, slot-machine e flipper. Per una sorta di codice morale, si colpivano uno alla volta chiedendosi il permesso. 
  «Posso?» «Vai», sciaff... «Ora tocca a me, vado?» «Vai», sciaff... 
  Avevano entrambi il viso tumefatto. Distinguevo a malapena chi dei due fosse il mio amico. 
  Ora, sappiamo che ogni bar ha una personalità di spicco, un Boss al quale vengono affidate le decisioni importanti. Il Boss di quel bar stava entrando adesso dalla porta. Si guardò intorno; poggiò i pollici sulla cintola; si ficcò uno stecchino fra i denti; la mascella fece uno scatto metallico e sputò qualcosa di vischioso a terra. 
  «Che cazzo succede qui?», urlò inalberato. «E tu, vecchio, che fai con quella pezza?» 
  Il vecchio dalla faccia varicosa aveva appena finito di passare lo straccio e ora se lo strizzava in bocca. 
  «Niente Boss, niente.» 
  Si girò verso di me con aria interrogativa; io alzai le braccia e dissi: 
  «È per il Campari, ma non ho capito bene Boss.» 
  Il mio amico intervenne: 
  «Questo bastardo è convinto che nel Campari vada l’arancia.» 
  «Insisti ancora? Non ti basta?» disse l’altro. 
  Il vecchio varicoso finì di strizzare lo straccio in un secchio e sparì nel retro leccandosi le labbra. Il Boss si rivolse di nuovo a me. 
  «È vero quello che dicono?» 
  «Sì.» 
  «E vi sembra un buon motivo per distruggere il mio bar?» 
  Rispondemmo tutti e tre all’unisono: 
  «SCUSA BOSS!» 
  Il Boss sputò a terra e accese un sigaro enorme. Rimase a fissarci per un po’ e disse: 
  «Alla fine chi dei due ha ragione?» 
  Accendemmo il computer; consultammo Wikipedia. Digitai “Campari con limone” e non ne venne fuori nulla. Provai con l’arancia e scoprimmo che, alla fine dei conti, il mio amico aveva torto. Il Campari – gusti a parte – va servito con una fetta d’arancia. Il Boss ci bandì dal bar. Bastò il suo sguardo grigio e assente a ghiacciarci il sangue nelle vene. Mentre uscivamo, il vecchio varicoso spuntò barcollante dal retro con lo straccio che gli penzolava dalle mani. 
  «C’è bisogno di una ripassata?» chiese.  
  Una volta fuori portai il mio amico a sciacquarsi quella che una volta era una faccia alla fontanella del parco. Il rospo non gli era andato affatto giù. 
  «Mi vendicherò!» urlava a denti stretti. «Lo distruggo quel bastardo.» 
  «Smettila!» dissi io. «Non hai sentito il Boss? Meglio lasciar perdere.» 
  «Ora la vediamo.» 
  S’alzò di scatto. Uno sguardo fiero di vendetta lo animava mentre – con passo lento ma implacabile – si dirigeva verso casa. Dopo un paio di minuti lo vidi uscire dal portone del palazzo; si diresse di nuovo al bar. Io rimasi lì dov’ero. Non avevo voglia di immischiarmi di nuovo in quella faccenda. Passò un quarto d’ora e il mio amico fece ritorno. Aveva uno strano ghigno. 
  «Ah ah. Gli ho dato il fatto suo.» 
  «Che cazzo hai combinato ancora?» chiesi. 
  «Guarda!» Estrasse dalla tasca un enorme coltello da cucina. Per un attimo pensai al peggio. Poi disse: «Gli ho squarciato le ruote della macchina a quel bastardo, ah ah, ora tornerà a casa a piedi, ah ah.» 
  «Che cosa idiota,» dissi io. 
  «Idiota? È stato fortunato che è venuto il Boss a separarci, altrimenti lo avrei steso.» 
  «Come sai che quella era la sua macchina?» 
  «Era parcheggiata lì davanti.» 
  «Uhm...» 
  «Be’, festeggiamo adesso.» 
  Tirò fuori una bottiglia di grappa e bevemmo a gargarozzo per un’oretta. Il mio amico era davvero felice per la sua impresa. Si sentiva un duro e nulla avrebbe potuto cambiargli l’umore. 
  Nulla, sì, a parte quello che vedemmo sulla strada. 
  Il tizio del Campari ci sfrecciò davanti a 130km/h. Dalla macchina veniva un’orribile musica da discoteca. Quando sparì dietro una curva rimasi basito a guardare la carreggiata vuota. La bottiglia cadde dalle mani del mio amico spargendo vetri tutt’intorno. 
  «Dimmi un po’,» dissi, «com’è che il nostro amico ci è sfrecciato davanti con la macchina?» 
  «ODDIO!» disse lui. 
  «Non avrai mica... no eh?» 
  «Oddio. No, spero di no.» 
  Mi si appoggiò ad una spalla piangendo. Piansi anch’io per la disperazione. Quel coglione aveva sbagliato auto, e quella a cui aveva forato le ruote era – con tutta probabilità – quella del Boss. Il dubbio divenne certezza quando vedemmo il Boss spuntare da un angolo con una grossa mazza seguito dal vecchio varicoso. Veniva verso di noi, senza dubbio era verso di noi che veniva. Agitava la sua mazza in aria e urlava incazzato nero. Di lì a poco avremmo provato la sua ira funesta. Il Boss ci ridusse a poltiglia mentre il vecchio gridava: «Così, così, dai Boss.» Dio, alla fine del trattamento avevamo le facce come due capolavori dadaisti. Da quel giorno bevvi solo Campari lisci.

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