mercoledì 18 aprile 2012

Racconto criminale.

  Il seminterrato dove vivevamo io e Peppe fu l’epicentro dell’attuale crisi finanziaria. Tutto ebbe inizio una mattina di Marzo. Peppe, come al solito, mi svegliò con la sua musica infernale. Aprì di soppiatto la porta e si avvicinò furtivo al mio letto. Era impossibile sentirlo arrivare, poiché le sue pantofole, modificate per l’occasione, erano munite di un consistente strato di lanetta sotto la suola che rendeva i passi del mio amico impercettibili. Poi, con cautela, mi incollava alle orecchie due enormi cuffie della Sony, premeva Play e mi sparava nei timpani quell’orribile Tecno’Vulgar’Beat ad un volume impressionante. 
  Dopo cinque minuti di convulsioni capii quello che aveva da dirmi. Era arrivata una bolletta-conguaglio. L’importo presentava un insieme vertiginoso di zeri. Un vero dramma. Inoltre, quello era un periodo davvero difficile. Io e Peppe avevamo già contratto dei debiti – debiti onerosi – con un feroce clan di strozzini: Equitalia. Adesso quella bolletta faceva sprofondare definitivamente il P.I.L. della casa. 
  La situazione ci parve disperata. Peppe s’attaccò ad una bottiglia di GinPiscio avanzata dalla sera prima. Camminava frenetico con le sue pantofole silenziate, mentre agitava la bolletta in aria come una bandiera. Bestemmiava in tutte le lingue. Di tanto in tanto pronunciava frasi sconnesse e di difficile comprensione. 
  «E adesso, Robin?... guarda che ci doveva succedere... non ne verremo fuori, adesso... non abbiamo più una lira... lo Spread, lo Spread... è tutto finito Robin... il P.I.L.... è tutto finito... quelli di Equitalia ci faranno la pelle...» 
  «Dai non esagerare Peppe,» dissi io. 
  «Violenteranno le nostre madri... ci tortureranno... è tutto finito Robin...» 
  Maledizione! In una cosa Peppe aveva ragione: la situazione era disperata. Sicché bevvi anch’io e piangemmo insieme per delle ore interminabili. 
  Dopo la sbronza decidemmo di affrontare la situazione. Abbozzammo un piano. Tutto era affidato all’accattonaggio, il riutilizzo e, ovviamente, al rubare ovunque tutto ciò che era possibile rubare. Ne venne fuori un’interessante manovra economica. Prima di buttare un tubetto di dentifricio, lo si strizzava con il matterello. Il Corriere, una volta letto, veniva adibito a carta igienica (io, personalmente, preferivo le pagine politiche, Peppe lo sport. «Il Milan mi fa cagare,» diceva uscendo dal bagno). I piatti non venivano lavati per evitare il consumo dei detersivi. Scaricavamo l’acqua del cesso una volta a settimana. Facevamo – con un certo imbarazzo – la doccia insieme. Ci scambiavamo lo spazzolino. Frequentavamo a turno la stessa ragazza e riducemmo drasticamente le derrate alimentari. 
  «Per i carboidrati basta la birra,» ci dicevamo. 
  Solo nei giorni festivi Peppe preparava uno stufato di patate e fagioli. Dopo un mese di quella vita eravamo secchi come degli ossi, con delle barbe incolte che ci rendevano irriconoscibili, gli occhi fuori dalle orbite. 
  Passarono altri magri giorni e venne il momento di fare i conti. Be’, nonostante i nostri sforzi, lo Spread continuava a salire ed eravamo sommersi dai debiti. Insomma, eravamo punto a capo. Decidemmo così di passare ai furti nei supermercati. È vero che le nostre coscienze ci mordevano il collo, ma non avevamo scelta. 
  «Robin, solo le cose indispensabili alla sopravvivenza però,» disse Peppe. 
  «Mi sembra giusto,» risposi. 
  Il primo furto fu una cassa di birra. La feci scivolare a terra di nascosto spingendola con i piedi, mentre porgevo alla cassiera un pacchetto di Vigorsol. Un colpaccio. Mi scoprii davvero abile in quella nobile arte. Viceversa, Peppe, aveva qualche sfortuna. Fu lui ad organizzare il colpo al negozio di liquori. 
  Andò così: entrammo e chiedemmo al tizio di riempirci una bottiglia di vino sfuso, e quando questo sparì nel retro, Peppe afferrò un fusto di birra, lo posò fuori il negozio a pochi metri dalla porta e rientrò fischiettando. Il tizio fece ritorno con il vino. 
  «Fanno due Euri,» disse. 
  Peppe si sentiva sicuro e disse: «Dovresti abbassare i prezzi, tatì. Due Euri per stà sporcizia?» 
  «Aò,» rispose lui, «lo voi o no sto vino.» 
  «Solo per questa volta, nonnetto.» rispose Peppe. Poi, mentre uscivamo, aggiunse: «Ti tengo d’occhio, tatì.» 
  «Ma vattela a pià ’nder culo va,» urlò il vecchio. 
  Quindi uscimmo. Eravamo felici per il colpo, ma all’uscita ecco la sorpresa: un tizio stava scappando con il fusto di Peppe sottobraccio. Gli corremmo appresso e riuscimmo ad acciuffarlo dopo un inseguimento sfrenato. Peppe lo placò buttandoglisi addosso. Ci fu una violenta colluttazione e noi avemmo la meglio. Lo picchiammo all’americana. Peppe lo teneva e io lo colpivo. 
  «In faccia, Robin, in faccia, sfregialo,» diceva. «Ti piace bello? Eh, con chi cazzo credevi di avere a che fare. Non abbiamo niente da perdere noi... Equitalia, ti dice nulla?» 
  A quelle parole, com’è naturale, il tizio svenne per la paura. 
  Noi lo prendemmo a calci ancora un po’ e portammo la refurtiva in casa. Quella sera fu festa, grande festa. Ci sentivamo dei duri e, gasati di brutto, iniziammo a rubare di tutto. Sicché lo spread scendeva pian piano e il P.I.L. fece una buona impennata. Ma i debiti erano sempre lì, purtroppo. Bisognava fare di più. 
  «Dobbiamo crescere,» ci ripetevamo la sera controllando la refurtiva. 
  L’idea di passare alle truffe fu mia. Una in particolare riuscì benissimo. Comprammo due giacche di plastica al mercato (pagate due Euri l’una) ed entrammo nel ristorante più costoso della città. Ci sedemmo poggiando le giacche sulle sedie. Ordinammo così i piatti più gustosi e costosi che trovammo nel menù. Avevamo un cameriere tutto per noi che ci versava dell’ottimo vino. Sicuri del fatto nostro, elargivamo complimenti a tutto lo staff. 
  «Però! Carino questo posto,» «Sì, e che servizio poi,» «Ottimi questi ravioli ai funghi porcini con panna delle Dolomiti,» «Oh, che delizia questa bistecca di bue muschiato,» «Complimenti allo chef. Questo involtino di ostriche del Pacifico è a dir poco incantevole,» e così via. Insomma, fummo serviti e riveriti. Mangiammo fino a scoppiare. 
  Poi Peppe disse: 
  «Scusi cameriere, ci porta un posacenere?» 
  «Spiacente,» rispose quello, «ma qui non si fuma, signori.» 
  «Scandaloso!» urlò Peppe alzandosi con uno scatto. «Che razza di posto è mai questo.» 
  Il cameriere inarcò le sopracciglia e disse: 
  «Spiacente signori. Se volete fumare dovete farlo fuori.» 
  Con aria interdetta ci alzammo dalle sedie. Mentre uscivamo Peppe si rivolse al cameriere dicendo: 
  «Tienici d’occhio le giacche, tatì.» 
  «Scherza? Qui nessuno tocca niente, è un posto per bene questo,» disse il cameriere. 
  Peppe lo squadrò dall’alto in basso e disse: 
  «Lo spero per te. Comunque ti tengo d’occhio, tatì.» 
  Il cameriere abbasso lo sguardo senza replicare.
  Una volta fuori iniziammo a correre più veloce della luce. Nonostante tutte le cibarie ingurgitate, raggiungemmo una velocità vorticosa in pochi secondi. Ridevamo di gusto e ci davamo delle forti pacche sulle spalle. Eravamo al culmine del successo malavitoso. 
  «Tiè, è l’economia che riparte con noi, ah ah,» urlò Peppe facendo il gesto dell’ombrello. 
  «Non ci fermeremo più,» dissi io. «Dobbiamo prenderci tutta Roma.» 
  «Sì, Roma intera, prima che lo faccia qualcun altro.»

4 commenti:

  1. aahahahha!!questa mi piace un sacco...cmq se in futuro vi servirà una coiquilina non contate su di me!!! ;D !! COMPLIMENTI ROBY!!

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