domenica 16 settembre 2012

La truffa.

  Attendevo l’arrivo del treno senza troppi fanatismi. Di tanto in tanto estraevo l’orologio dal taschino; le lancette, impietose, indicavano che la tizia sarebbe arrivata non prima di un’ora. Se qualcosa si muoveva dentro quell’orologio, be’, lo faceva con molta calma. Mi sedetti e il marmo varicoso della panchina prese ad irrigidirmi le cosce. Fu allora che lo vidi. Aveva l’aria distinta del gentleman e l’abito elegante. I capelli erano impomatati a dovere ed emanava un gradevole profumo di tasso. «Buongiorno», mi disse. Notai che il suo accento non tradiva alcun dialetto. «Buongiorno», risposi gentile. Si sedette al mio fianco; lo immaginai come una persona affabile, educata. «Aspetta qualcuno?», «Una ragazza», «Oh, è in anticipo?», «Un’oretta, su per giù», «Anch’io aspetto qualcuno, potremmo aspettare insieme, non trova?», «Sì». Mi disse di essere un importante manager; lavorava per una delle aziende che andavano per la maggiore; io, silenziosamente, lo ascoltavo. «Ho anche una barca», aggiunse. «L’ho acquistata un mese fa», «Complimenti». Raccontò di banche, speculazioni, somme enormi di denaro che migravano segrete da un continente all’altro. Insomma, ostentava – seppur dignitosamente – la sua ricchezza. Poi ebbe inizio quella che solo in un secondo momento capii essere una manovra complessa e premeditata. «Lei è un bravo giovanotto», disse elemosinandomi un buffetto sulla guancia. «Venga, mi accompagni al bar, le offro da bere.» Accettai con entusiasmo. Qualcosa di fresco è quello che ci vuole, pensai, e poi è gratis. Ci avvicinammo al bancone e un barista affabile ci chiese l’ordinazione. Io ordinai un Vodka’Gold’DeLuxe alle ghiande e il tizio fece lo stesso. Sapevo che quella era la bibita più costosa, ma non mi sentii in colpa. Dopotutto, mi dicevo, questo è milionario. Facemmo un rapido brindisi e il riccone scolò la sua bibita in un sorso. Poi disse di dover andare in bagno. Lo vedevo mentre, con fare pigro, si chiudeva la porta alle spalle. Sfogliai la gazzetta un po’ annoiato. Il tizio non faceva ritorno. Guardai l’orologio; era un quarto d’ora che era sparito al cesso. Iniziai a preoccuparmi. Forse si sente male, pensai, forse è svenuto. Passai all’azione. Mi diressi verso il bagno e bussai. Niente. Feci un secondo tentativo. Niente di niente. Chiamai il barista e gli spiegai la faccenda. Quello prese la chiave di riserva e aprì la porta. Il bagno era vuoto; sopra la tazza sventolavano le tendine di una finestra aperta. Sul muro, le impronte laide dei mocassini. La verità si svelò colpendomi come un maglio: il tizio era fuggito e ora toccava a me pagare quei maledetti Vodka’Gold’DeLuxe. Quello del miliardario era solo un camuffamento per scroccare la costosa bibita. Io e il barista tornammo al bancone. Lo guardai e gli dissi: «Doveva pagare lui», «Io non vedo nessuno, amico», «Quel tizio che era con me, il miliardario», «Qui ci sei tu», «Già», «E paghi tu», «Già, ho capito». Misi la mano in tasca; estrassi il portamonete e, anche se controvoglia, pagai la somma vertiginosa. Ero arrabbiato; ero arrabbiato per aver fatto la figura del fesso ed ero arrabbiato per non avere più un soldo in tasca. Tornai ai binari e vidi il treno che attendevo sbuffare all’orizzonte. Dopo pochissimo sentii lo scricchiolio dei freni e la mia amica scese dalla vettura. Gentilmente, mi offrii di portargli le valigie. «Robin, come stai?», mi chiese. «Benissimo», «E il lavoro, come procede?», «Alla grande. Guadagno tantissimo. Ho anche una barca», «Complimenti». Era una bella ragazza, con i capelli spessi e il viso aristocratico. «Sei carina», gli dissi. «Stai proprio bene oggi. Hai sete? Vuoi qualcosa da bere?», «Volentieri», «Bene, seguimi. Il bar è di là». Di nuovo poggiai il gomito sul bancone e misi le valigie a terra. «Cosa bevete?», chiese il barista. «Un Vodka’Gold’DeLuxe alle ghiande per me, grazie.» La mia amica prese un ponce alla banana. Scolai d’un sorso la bevanda e chiesi le chiavi del bagno. Il barista mi guardò supplichevole; lo trafissi con lo sguardo prima che potesse aprir bocca. Chiusi la porta; m’arrampicai sul cesso e uscii anch’io dalla finestrella. Non so per quanto tempo corsi, ma alla fine ero sudato come un obeso ad agosto. Come si capisce, non rividi (né volli rivedere) la mia bella amica: avevo perso una ragazza, è vero, ma quel barista non mi avrebbe mai più visto come un idiota. Fu una questione di dignità.

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