domenica 29 luglio 2012

Difesa dello Zoorasta.

  Non è questa la prima volta che viene intrapresa, né sarà l’ultima che fallisce, ma due fatti la distinguono. Uno è la mia ignoranza quasi totale della laboriosa ginnastica; l’altro, il rilevante particolare di non volerne diffondere la dottrina, ma i procedimenti puramente materiali che ad essa conducono. Questi procedimenti, com’è noto, sono svariati e possono essere eccentrici o mostruosi. Sappiamo di avvenenti ovini con le zampe infilate in robusti stivali di gomma, di strani dischi di acciaio che spengono il fragore delle ali, sappiamo di corde che bloccano e di anestetici che stordiscono. Deridere tali operazioni è facile, io preferisco cercare di capirle. È evidente che la loro origine (usare la parola atavica può non essere un fanatismo) è riconducibile alla mera ispirazione meccanica. Il povero Oreste, bastardino di provincia castano nel pelo e negli occhi, ne sa qualcosa. Lo Zoorasta lo avvicina in una notte da alcol e, avvolto in una coperta, lo porta in un parco. Lì, lontano da sguardi indiscreti, avviene lo scempio. Raccontare della notte sarebbe eccessivo, e forse inutile. La meccanica – quella sì! – è notevole. Lo Zoorasta lo svolge dalla coperta, infila le zampe del povero Oreste in una buca, con i palmi si aggrappa al pelo laido, poi, in una posizione simile a quella di una Y rovesciata, fa quel che deve. 
Il sentimento dello Zoorasta (ma anche quello di Oreste) rimane un mistero assoluto. Se i due profaneranno di nuovo il parco non è dato saperlo. Quel che sappiamo è che il loro amore dipende dalla compiacenza dell’uno e dall’arrendevolezza dell’altro.

giovedì 26 luglio 2012

Aperitivo al Campanile.

  Poiché nella mente del Campanilista l’idea dell’aperitivo e quella dello stuzzichino sono indissolubilmente unite, l’oste ordina ad un cameriere di ruolo che sul bancone legnoso vi sia sempre una porzione di vettovaglie. Questo delegato non è sempre lo stesso. Un cittadino di Alloccopolis, che una volta era arruolato in un maestoso centro commerciale, ricoprì questo incarico. Poiché era sincero, parlò al Campanilista da amico. Gli disse che gli stuzzichini, seppur luminosi, nerboruti ed avvenenti, erano la scusa che l’oste usava per tenere alti i prezzi delle bibite. Il Campanilista lo ascoltò come un fratello – il capo reclinato, l’occhio attento, il ghigno compiacente. Poi andò dall’oste e avvelenò l’immagine del povero delegato. Ovviamente, dovettero sostituirlo. Il nuovo delegato è omesso all’occhio degli abitué. Come un verme, porta gli inevitabili stuzzichi, strisciando. Il suo operato è invisibile: sul bancone vi è un piatto vuoto, poi ci si distrae, ed ecco che l’amato salume filiforme appare sul piattino oblungo. Qualcuno parlò di magia, altri di inganno, altri ancora di cinetica sovrannaturale, ma nessuno vedeva mai il delegato, e le congetture del Campanilista erano fiorenti. «Dicono che abbia un occhio di vetro, un braccio in meno, un legno al posto della gamba, un pene mostruoso». Una sera, un forestiero, sprezzante della logica Campanilista, disse: «Credete che basti un cubo di mortadella affinché io paghi tre Euri questo vino insipido?». Il caos nacque torbido. Il Campanilista, con il volto come il palmo di una mano, giaceva all’angolo di tutto, inespressivo. Per sedare i disordini, il delegato venne tirato fuori da sotto il bancone ed esibito. Fu in quell’occasione che lo vidi. Assomigliava agli scheletri senza corpo che non hanno percezione, ed aveva gli occhi cavi. Riuscì ad articolare le parole: «Io sono quello degli stuzzichini» e immediatamente sprofondò nell’abisso.

domenica 22 luglio 2012

I fratelli Pera.

  La Storia (l’uso del maiuscolo non è un errore, né un refuso) sa che i più crudeli teppisti di Alloccopolis furono i Fratelli Pera, i quali consegnarono al loro paese le iniquità del terrore e dell’arroganza. Nei loro momenti più alti, ebbero il controllo di gran parte dei quartieri periferici. Uniche armi, la mano svelta e la suola dell’anfibio. L’aspetto era rovinoso, ma ciclopico. Le braccia gonfie, il viso da rissa, due bretelle tenevano alti i calzoni stretti, il naso da pugile. Agli albori della carriera pedalavano con sincronismo da vandalo su di un vecchio tandem, preso alla prima banda che espugnarono. Nell’ascesa, poterono permettersi un motorino, la cui cinetica ingigantì le possibilità di pestaggio. Furono tempi orribili per Alloccopolis. La psicosi prese piede. L’ingaggio di voluminosi gorilla, l’acquisto vertiginoso di proteggi-testicoli, parastinchi e caschi ne sono esempi lucidi. Io stesso ho la disgrazia della testimonianza. In un chiosco, a notte profonda, bastò uno sguardo. «Cosa hai da guardare?», mi urlarono all’unisono. «Niente, ero sovrappensiero». Quando mi svegliai vidi una donna anziana, di un candore sovrumano, due occhi sinceri e tondi. «Angelo mio», dissi. «Chiamami Ursula», rispose lei. «Sono l’infermiera». Confidando nell’arguzia del lettore, è superfluo aggiungere che il lettino su cui premevano i miei lividi era quello del pronto soccorso. La consuetudine al pestaggio dei Fratelli Pera li rendeva inespugnabili. La tecnica era maestosa. Uno bloccava, l’altro menava le mani. Nessuno pareva potesse fermarli; poi, in un’estate fiacca, arrivò ad Alloccopolis un tale. Disse di chiamarsi Testa di Gomito. Beveva litri di GinPiscio e GastroRum senza mai traballare; aveva la voce vetrosa e il suo grido atterriva i passanti. L’incontro con i Fratelli Pera avvenne una mattina languida, che divenne mitologica. Tutti – possiamo dirlo – avevamo sottovalutato Testa di Gomito, ma quando lo vedemmo agitare i gemelli come due bandiere, la sua forza si svelò come uno Tsunami. I due batterono la ritirata; Testa di Gomito bevve gratis per una settimana, notte e giorno. La guerra durò relativamente poco. Testa di Gomito ebbe la meglio e gli odiati Fratelli Pera sparirono dai corridoi di Alloccopolis. Alcuni insinuano che vennero uccisi con la mano o con il piede, ma una morte naturale è più verosimile – visto che li chiamavamo Pera. Ora, Testa di Gomito vigila su Alloccopolis. La notte, a volte, ne si scopre la sagoma dietro una colonna, un muro, su di un tetto, oppure mentre si sporge da un cornicione. Non lo si vede quasi mai, ma sappiamo che è lì.

domenica 15 luglio 2012

L’abietto Stroop.


  Nel Dicembre del 1943, un polacco fuggiva dal ghetto di Varsavia con il rudimentale – ma inespugnabile – trucco del camuffamento. Il suo nome era Stanislaw Jerzy Lec, e fu poeta e scrittore. Cito una delle sue frasi più gagliarde: «I cannibali si lamentano perché l’uomo fa schifo». È lecito pensare che l’aforisma sia nato – tristemente – all’interno della divisa tedesca (punta del travestimento) e, più precisamente, ad altezza di un cuore secco o negletto. Un cuore mosso da un odio, quello verso l’infame Stroop, generale delle SS, che organizzò la “distruzione del ghetto” l’anno successivo, nel 1944. Stroop è uomo duplice. A Deltmond, terra di mani callose e alcol da rissa, un agente di polizia lo chiamò Josef. Tale nome lo accompagnò nella Prima Guerra Mondiale, dove la magia di una pallottola lo sublimò eroe, facendogli ottenere la Croce di Ferro di seconda classe. Negli alti ranghi, ritenne opportuno registrarsi all’anagrafe come Jürgen Stroop, reputando il nome Josef troppo “ebreo”. Dei due, l’abominevole, lo spietato, il puntuale, fu Jürgen. Chi lo conobbe, racconta di un uomo terroso, grigio nella barba e negli occhi, con uno strano accento fuligginoso. Jürgen Stroop fu così severo ed esemplare nella distruzione del ghetto che gli encomi lo sommersero come un mare. A testimonianza dell’orrore, il generale non mancò di compilare un minuzioso resoconto, cui vennero allegate delle foto, alcune terribili. Tale fascicolo venne chiamato – occorre dirlo? – Rapporto Stroop. L’infame tedesco non lo sapeva (non poteva saperlo), ma stava scavandosi la fossa. Nel 1945, Jürgen Stroop fu arrestato dagli alleati, processato, e condannato all’impiccagione. Prova inconfutabile: l’abietto rapporto celato nel doppio fondo di una valigia. Il granitico animo tedesco gli impose l’omissione sinistra della pietà. Neanche di fronte il nodo scorsoio, dove molti uomini poggiano le ginocchia sul legno, si dimostrò pentito o spaventato. Leo Villari, nella sua biografia, ci offre una versione potente e romantica del supplizio: «Sul patibolo, invaso dagli sputi e dagli insulti, mai cambiò l’espressione di eroe, il ghigno da martire. La sua carne poteva aver paura, lui no».

sabato 14 luglio 2012

L’infame Campanilista inverosimile.



  L’immagine dei bar di Alloccopolis, prima di qualsiasi altra immagine: l’immagine dei bar di Alloccopolis e dei loro frigoriferi, banconi, bariste avvenenti. In quei bar un’altra immagine, quella del Campanilista, l’uomo dall’ampio portamonete, inchiodato al patrimonio dei genitori, il dispensatore di vini che affogano le fauci amiche e di amari che ubriacano in maniera invisibile, come una magia. I bar caldi con la radio puntata sul totocalcio (la musica – quando c’è – è quella polverosa delle soffitte), con i prezzi dettati dall’ostinata omertà concorrenziale. Su questo sfondo si erge, verso un cielo nitido a tinta unica, l’obelisco di una ermetica esclusività. Come nello stagno (dove il ricambio d’acqua è trascurabile), così gli avventori, ancorati all’immobilità delle correnti, fissano immobili il bancone perfezionando le proprie imprese. Quello che all’inizio era «Un Ramazzotti, per cortesia, con ghiaccio», muta, sotto gli influssi di un eterno ritorno, in un gesto impercettibile della mano. Sicché si arriva a non avere più argomenti. L’avventore occasionale – cosa rara – è visto con occhio obliquo, ostile. Il Campanilista non manca di pugnalarlo alle spalle. «Cosa bevi, amico mio? Sei nel mio bar (campanile [N. d. A.]), offro io», «Grazie infinite», risponde l’avventore inconsapevole. Non appena costui varca la soglia del tempio-bar, ecco l’incalzare del Campanilista. «Hai visto che tipo? E com’era vestito poi. Bisogna lasciarlo stare uno così, ora vi dico cosa ha fatto in passato», e inizia la demolizione dell’intruso. La Storia (che, come in certe pellicole di Hollywood, procede per fatti discontinui, in apparenza sconnessi fra loro) ci offre adesso l’immagine di un bar piccolo, con pochi tavoli, pieno di elegantoni, ragazze allo Chanel e vini sconosciuti, ma di una certa fattura (nel senso di scontrino – mi si perdoni il gioco fanatico di parole). Il momento: una languida notte di festa ad Alloccopolis. Sulla terra, lo scheletro di un drink, un abbaiare di cani, una nebbia di passi e la luce allungata del bar. Dentro, appoggiati all’unico bancone, uomini inguainati in abiti luminosi bevono un alcol rissoso e sbattono i loro Euri sul legno. Il Campanilista, imperturbabile, ubriaco, affatto felice, canta l’inno del bar. Un avventore arrogante, con dei capelli rossi posticci, è tra i bevitori di quel tugurio chic. Il Campanilista gli porge il bicchiere; lui beve e pensa di ordinarne un altro, forse perché non ha più un soldo in tasca. Poi il dramma. «Fa schifo questo bar», dice l’avventore. D’improvviso cala un silenzio di tomba. Gli sguardi degli abitué lo trafiggono come delle lance. «Ho detto qualcosa di sbagliato?». Quale ostinata mancanza di responsabilità! Viene catapultato fuori come un macigno; batte la testa e muore. Quella notte il Campanilista stende una coperta accanto al cadavere e dorme fino all’aurora – con gusto e fiducia in se stesso. Il mattino dopo lo rasano, gli infilano un abito confezionato e lo espongono all’orrore e alle beffe nella vetrina lucida del bar. Il terzo giorno lo truccano. Il quarto lo seppelliscono. 

giovedì 12 luglio 2012

Zoo film.


  Scrivo la mia opinione su un film uscito di recente: Uomini come cavalli (Deep Pussy Film Recchionis Production). Il regista (Gregor Erotomanisch) ha eluso senza apparente disagio gli acclamati e consueti errori della produzione inglese – i seni cascanti, la prolissità di certe posizioni, le oscenità di talune vulve non adeguatamente depilate, l’erosatanismo, i cunnilingus poco convinti – senza tuttavia incappare in quelli ancora meno splendenti della scuola italiana: l’omissione assoluta della mescolanza razziale, la mera e prevedibile antologia del rapporto (preliminare-copulazione-godimento feroce), e le rozze seduzioni che anticipano tutto ciò. Dei giapponesi non parlo: finora la loro unica preoccupazione è di non sembrare adeguati al caso, diciamo, corti di pene (un rischio del tutto palpabile, dopotutto). Da ciò la fastidiosa nebbia di pixel che censura i membri nelle produzioni nipponiche. Non conosco il vasto romanzo da cui è tratto questo film: gaia colpa, che mi ha permesso di godermelo, senza la diabolica tentazione di sostituire lo spettacolo reale al ricordo della lettura per vedere se coincidono. Infelice manovra che avrebbe complicato di molto il concentrato movimento della mano. Così, eludendo gli inganni di una – seppur irrilevante – trama, questo film è davvero magnifico. L’ottimo attore senegalese ne aumenta il valore. Il suo strumento, anche se puramente allucinatorio, non è meno dilagante di un fiume in piena. La sua patta, una diga pronta alla frattura dei propri argini. Il confronto genuino, che avviene in un pagliaio, fra il membro umano e quello animale (una donna ne ride con gusto ansioso seduta su di un cumulo di fieno), è uno dei suoi momenti più alti. Le immagini – quella del potente prepuzio roseo, quella delle monumentali palle che aspettano l’impatto, quella della mano impagliata della donna, che muove l’aria vorticosamente – sono eccellenti, sia per interpretazione che per realizzazione tecnica. Complimenti vivi a tutto lo staff. Attendo con ansia la prossima uscita di quest’ottima e tenace produzione.

domenica 8 luglio 2012

Probabilità sconosciute.


  Le possibilità dell’arte combinatoria non sono infinite, ma possono essere spaventose e bizzarre. Nella discrezione delle mura, uomini copulano con altri uomini, donne con donne, animali con animali, uomini e donne con animali. È lecito pensare che la chimera (mostro bifido che inventarono i Greci) non sia un atto di pura fantasia. Difatti, lo Zoorasta già cavalcava le strade dell’antica Atene. Cosa avrebbe dovuto pensare il filosofo ellenico di fronte a tale – combinatorio – spettacolo? La nascita (quantomeno su carta) di mostri con testa di leone, di drago, di capra è un evento del tutto naturale. Anche in Cina non mancava tale ginnastica. Gli zoologi formularono l’esistenza del ti-yiang, uccello di sei zampe e quattro ali. Che porcheria, doveva pensare lo zoologo cinese, mentre il bruco saliva in groppa al volatile. Disgustato, buttava ciotola e bacchette, e il riso rimasto a terra sfamò un formicaio per sei mesi. Coloro che difendono la pratica zoorasta, argomenteranno (con tutta probabilità) che le critiche che gli si possono muovere si possono muovere, anche, a qualsiasi altro atto copulativo. Viene qui sminuito il difetto centrale: l’arbitrario innesto di un pene non-umano in un corpo umano. Anche la Sacra Scrittura (dove l’animale è cibo, o, tuttalpiù, un sacrificio su una vetta infuocata) condanna ciò. Dopotutto, se così non fosse, l’evento dell’Arca sarebbe stato impraticabile – o quantomeno più arduo. Dall’Arca, dopo anni (alcuni mitologici) di diluvio, sarebbero venuti fuori ogni sorta di mostri, la cui mostruosità maggiore sarebbe stata la casualità. Pinguini con testa di elefante (Elepinguifantini), tacchini con sembianze di cagna (Taccagna), per non parlare del Norangoé – il solo pensiero mi alza la pelle di quattro dita. Ai tempi nostri, questa improbabile arte ha preso strade sconosciute e misteriose. Basta leggere poche righe del languido poeta Brodskij, il quale, alla domanda sul cosa trovi di tanto speciale nei nebbiosi e solitari inverni veneziani, risponde: «È qualcosa come Greta Garbo, al bagno» (Fondamenta degli incurabili). Dobbiamo dunque aspettarci un qualcosa di diverso? La pratica zoorasta, nel corso dei secoli, sta forse subendo una radicale metamorfosi? Dio, di nuovo rabbrividisco all’idea di un uomo che infila il pene nella marmitta della propria auto.

venerdì 6 luglio 2012

Un autoscatto per la vita.


  La mancanza di genuine effigi della sua – seppur mirabile – persona non è un fatto casuale. Testa di Gomito non digeriva le foto e, nello specifico, le pose in genere. Era un uomo solitario, rude, quasi analfabeta e del tutto scevro di buone maniere. Se un curioso lo minacciava con il suo obiettivo lui reagiva con vigore. «Toglimi quella macchinetta di dosso», diceva teso. Più che timido, era previdente. Evitava persino di guardarsi allo specchio, tanto lo intimoriva l’ansia della propria immagine. L’incontro con le velleità dell’Erofotomane fu nefasto.  Era un pomeriggio caldo, insulso e sonnolento. Io e Testa di Gomito, presi da un maniacale senso della solitudine, tentavamo affannosamente di tenerci compagnia l’un l’altro. «Posso sedermi con voi?», chiese l’Erofotomane. «Accomodati». Brandiva un’enorme macchinetta fotografica appesa al collo. Non perse tempo. «Ora vi faccio una foto». Mentre caricava il rullino Testa di Gomito inarcò leggermente il monociglio. Nonostante il nostro evidente disappunto, l’Erofotomane non sentì ragioni; alzò quel suo arnese; tolse il tappo di protezione dall’obbiettivo e ce lo puntò addosso come un’arma. «Sorridete». Il potente flash ci bruciò la retina rendendoci ciechi per alcuni secondi. «Che cazzo però», dissi contrariato. «È indispensabile, per una buona foto occorre una buona luce», disse l’Erofotomane con tono saccente. «Ma chi se ne frega», urlò Testa di Gomito. Rimanemmo seduti senza dirci nulla. Poi l’Erofotomane si superò. «Con l’autoscatto possiamo farla tutti e tre insieme. Che dite?», «No, basta», implorammo noi due all’unisono. Il viso dell’Erofotomane si piegò in una smorfia di delusione. Trangugiò il suo caffè-ristretto-senza-zucchero; ripose la protezione sull’obbiettivo; si alzò dalla sedia. Lo vedevamo allontanarsi mentre ci offriva lo spettacolo delle sue spalle sottili e fiacche. «Che idiota», disse Testa di Gomito. «Già». Ma l’animo del fotografo incallito è impermeabile all’arrendevolezza. A distanza di una cinquantina di metri, l’Erofotomane si girò con uno scatto; ci puntò di nuovo quel suo indiscreto obbiettivo e scattò una manciata di foto una dietro l’altra. «Sporco maiale», urlò Testa di Gomito correndogli appresso. «Dammi quel maledetto rullino». L’Erofotomane – nonostante il peso non trascurabile dell’ingombrante macchinetta – sparì in un baleno mostrandoci il suo dito medio. Quando tornò al tavolo Testa di Gomito aveva un fiatone asmatico e sibilante. «Devo avere quel rullino», disse ansimando. «Lascia stare, è solo una foto», «Devo averlo, ti dico». Non insistetti. Presi l’automobile; arrivammo sotto casa dell’Erofotomane. Abitava in un palazzo grigio e periferico. Suonai al citofono; salimmo una ripida rampa di scale. Ad aprirci la porta trovammo un uomo sulla cinquantina con due enormi occhiali da saldatore legati sulle orecchie. «Chi cercate?», «Vorremmo parlare con l’Erofotomane», disse Testa di Gomito. «Oh, dovrebbe tornare fra un attimo, io sono il papà, entrate pure». Ci accomodammo su di un divano in pelle di topo; il tizio andò in cucina e tornò con un paio di birre alla banana. Il mio amico spiegò il perché della nostra visita. L’uomo abbassò la nuca con un sospiro. «Non ne posso più», disse. «Questa mania delle foto si sta facendo pesante. Non siete i primi a lamentarvi». Tirò giù un sorso di birra. «Vogliamo solo le nostre foto», dissi io. «È come impazzito. Dentro casa non fa che scattare e scattare. Mi tocca di fargli da modello più di cento volte al giorno», «Incredibile», esclamò Testa di Gomito. «Incredibile? A cosa credi che servano questi occhiali? Se non li portassi sarei cieco da un pezzo con tutti quei flash». La porta si aprì e l’Erofotomane fece la sua apparizione nella stanza. Testa di Gomito dimostrò di non avere peli sulla lingua. «Dove sono le mie foto?», «Al sicuro», rispose. «Lontano da qui». Il bastardo aveva nascosto il rullino chissà dove. La situazione precipitò. «Devi ridarmele», «Mai». Testa di Gomito lo colpì con un gancio sul mento; l’Erofotomane rantolò a terra come un sacco di patate. Suo padre non alzò un dito per aiutarlo. «Hanno ragione», bisbigliò. «Doveva succedere prima o poi». Nonostante avessimo iniziato con i calci, la reticenza dell’Erofotomane si faceva via via più convinta. Decidemmo di portarlo con noi. «Fategli quello che volete», disse il padre. Lo chiudemmo in uno scantinato buio ed umido. Lo immobilizzammo ad una sedia con del nastro adesivo. Testa di Gomito cominciò a torchiarlo con una pinza. «Parla! Dove hai messo quel rullino», «Fottiti», rispose il prigioniero sputando in faccia al mio amico. «Robin, vai a comprare degli stuzzicadenti», «Torno subito», dissi. Gli infilammo stuzzicadenti nelle palle per due giorni e due notti. Niente di niente. L’Erofotomane se ne stava immobile con il suo ghigno beffardo. Decidemmo di farla finita. Lo portammo sulla riva renosa di un fiume e lo buttammo di sotto con la macchinetta appesa al collo. Andò giù come un sasso. «Ora ha finito di fare foto in giro», disse Testa di Gomito. «Già». Ma l’Erofotomane era più furbo di quello che pensavamo. Ad una settimana dalla sua sparizione notammo le nostre foto puntellate sui muri di metà dei bar del paese. «Ha un socio», concluse il mio amico. «Lasciamo perdere, non voglio iniziare una guerra», dissi io. «Farò a mio modo». Nei giorni seguenti il sangue inondò le strade. Le sparizioni in città avvenivano all’ordine del giorno. Sparirono una ventina di persone, ma quel maledetto rullino non venne mai fuori. Nessuno spifferò. Io raccolsi tutte le foto nei bar e gli diedi fuoco. Dopo un mesetto non parlammo più dell’accaduto. Io e Testa di Gomito tornammo al nostro tran tran quotidiano senza troppi fanatismi. Ma il messaggio era arrivato. Nessuno si azzardò mai più a puntarci addosso un obiettivo. Nessuno.     

lunedì 2 luglio 2012

Oltre i propri limiti.


  Pronunziando la parola “finocchio” il rischio è quello di suscitare un ricordo vagamente increscioso: quello di una pomposa sceneggiata,  con l’occhio che cade su uomini glabri in petto foderati in un mare di lenzuola sgualcite. Tuttavia, il finocchio esiste nelle nostre strade: uomini esperti nell’occultazione maniacale, con in tasca inviti di feste oscene. Uno di questi fu Giacculo, il quale dichiarò una volta che l’essere finocchi non è alla portata di tutti, e che bisogna essere delle vere donne, come lui. L’alba della sua metamorfosi – quando ancora godeva dei benefici indefiniti della mescolanza – fu rude. Il suo amante si batté con le sole mani, secondo un’antica usanza. Giacculo (menefreghista di natura), ostentava il suo cannone sulla destra, un dildo in lattice nell’altra. Il cannone fallì, ma il dildo, una volta strappatogli di mano dal voluminoso amante, gli fece urlare: «Ohi, ma che dolore». Poi, sotto il peso della consuetudine, andò sempre meglio. La carriera – breve ma luminosa – di Giacculo si interruppe una notte umida e tenace, quando perse il senno per il suo stesso corpo. Morì con il collo spezzato, mentre cercava di avvicinare le labbra al prepuzio. E questo è quanto.