La mancanza di genuine effigi della sua – seppur mirabile –
persona non è un fatto casuale. Testa di Gomito non digeriva le foto e, nello
specifico, le pose in genere. Era un uomo solitario, rude, quasi analfabeta e
del tutto scevro di buone maniere. Se un curioso lo minacciava con il suo
obiettivo lui reagiva con vigore. «Toglimi quella macchinetta di dosso», diceva
teso. Più che timido, era previdente. Evitava persino di guardarsi allo
specchio, tanto lo intimoriva l’ansia della propria immagine. L’incontro con le
velleità dell’Erofotomane fu nefasto.
Era un pomeriggio caldo, insulso e sonnolento. Io e Testa di Gomito,
presi da un maniacale senso della solitudine, tentavamo affannosamente di
tenerci compagnia l’un l’altro. «Posso sedermi con voi?», chiese l’Erofotomane.
«Accomodati». Brandiva un’enorme macchinetta fotografica appesa al collo. Non
perse tempo. «Ora vi faccio una foto». Mentre caricava il rullino Testa di
Gomito inarcò leggermente il monociglio. Nonostante il nostro evidente
disappunto, l’Erofotomane non sentì ragioni; alzò quel suo arnese; tolse il
tappo di protezione dall’obbiettivo e ce lo puntò addosso come un’arma.
«Sorridete». Il potente flash ci bruciò la retina rendendoci ciechi per alcuni
secondi. «Che cazzo però», dissi contrariato. «È indispensabile, per una buona
foto occorre una buona luce», disse l’Erofotomane con tono saccente. «Ma chi se
ne frega», urlò Testa di Gomito. Rimanemmo seduti senza dirci nulla. Poi
l’Erofotomane si superò. «Con l’autoscatto possiamo farla tutti e tre insieme.
Che dite?», «No, basta», implorammo noi due all’unisono. Il viso
dell’Erofotomane si piegò in una smorfia di delusione. Trangugiò il suo caffè-ristretto-senza-zucchero;
ripose la protezione sull’obbiettivo; si alzò dalla sedia. Lo vedevamo
allontanarsi mentre ci offriva lo spettacolo delle sue spalle sottili e
fiacche. «Che idiota», disse Testa di Gomito. «Già». Ma l’animo del fotografo
incallito è impermeabile all’arrendevolezza. A distanza di una cinquantina di
metri, l’Erofotomane si girò con uno scatto; ci puntò di nuovo quel suo
indiscreto obbiettivo e scattò una manciata di foto una dietro l’altra. «Sporco
maiale», urlò Testa di Gomito correndogli appresso. «Dammi quel maledetto
rullino». L’Erofotomane – nonostante il peso non trascurabile dell’ingombrante
macchinetta – sparì in un baleno mostrandoci il suo dito medio. Quando tornò al
tavolo Testa di Gomito aveva un fiatone asmatico e sibilante. «Devo avere quel
rullino», disse ansimando. «Lascia stare, è solo una foto», «Devo averlo, ti dico».
Non insistetti. Presi l’automobile; arrivammo sotto casa dell’Erofotomane.
Abitava in un palazzo grigio e periferico. Suonai al citofono; salimmo una
ripida rampa di scale. Ad aprirci la porta trovammo un uomo sulla cinquantina
con due enormi occhiali da saldatore legati sulle orecchie. «Chi cercate?»,
«Vorremmo parlare con l’Erofotomane», disse Testa di Gomito. «Oh, dovrebbe
tornare fra un attimo, io sono il papà, entrate pure». Ci accomodammo su di un
divano in pelle di topo; il tizio andò in cucina e tornò con un paio di birre
alla banana. Il mio amico spiegò il perché della nostra visita. L’uomo abbassò
la nuca con un sospiro. «Non ne posso più», disse. «Questa mania delle foto si
sta facendo pesante. Non siete i primi a lamentarvi». Tirò giù un sorso di
birra. «Vogliamo solo le nostre foto», dissi io. «È come impazzito. Dentro casa
non fa che scattare e scattare. Mi tocca di fargli da modello più di cento
volte al giorno», «Incredibile», esclamò Testa di Gomito. «Incredibile? A cosa
credi che servano questi occhiali? Se non li portassi sarei cieco da un pezzo
con tutti quei flash». La porta si aprì e l’Erofotomane fece la sua apparizione
nella stanza. Testa di Gomito dimostrò di non avere peli sulla lingua. «Dove
sono le mie foto?», «Al sicuro», rispose. «Lontano da qui». Il bastardo aveva
nascosto il rullino chissà dove. La situazione precipitò. «Devi ridarmele»,
«Mai». Testa di Gomito lo colpì con un gancio sul mento; l’Erofotomane rantolò
a terra come un sacco di patate. Suo padre non alzò un dito per aiutarlo.
«Hanno ragione», bisbigliò. «Doveva succedere prima o poi». Nonostante avessimo
iniziato con i calci, la reticenza dell’Erofotomane si faceva via via più
convinta. Decidemmo di portarlo con noi. «Fategli quello che volete», disse il
padre. Lo chiudemmo in uno scantinato buio ed umido. Lo immobilizzammo ad una
sedia con del nastro adesivo. Testa di Gomito cominciò a torchiarlo con una
pinza. «Parla! Dove hai messo quel rullino», «Fottiti», rispose il prigioniero
sputando in faccia al mio amico. «Robin, vai a comprare degli stuzzicadenti»,
«Torno subito», dissi. Gli infilammo stuzzicadenti nelle palle per due giorni e
due notti. Niente di niente. L’Erofotomane se ne stava immobile con il suo
ghigno beffardo. Decidemmo di farla finita. Lo portammo sulla riva renosa di un
fiume e lo buttammo di sotto con la macchinetta appesa al collo. Andò giù come
un sasso. «Ora ha finito di fare foto in giro», disse Testa di Gomito. «Già».
Ma l’Erofotomane era più furbo di quello che pensavamo. Ad una settimana dalla
sua sparizione notammo le nostre foto puntellate sui muri di metà dei bar del
paese. «Ha un socio», concluse il mio amico. «Lasciamo perdere, non voglio
iniziare una guerra», dissi io. «Farò a mio modo». Nei giorni seguenti il
sangue inondò le strade. Le sparizioni in città avvenivano all’ordine del
giorno. Sparirono una ventina di persone, ma quel maledetto rullino non venne
mai fuori. Nessuno spifferò. Io raccolsi tutte le foto nei bar e gli diedi
fuoco. Dopo un mesetto non parlammo più dell’accaduto. Io e Testa di Gomito
tornammo al nostro tran tran quotidiano senza troppi fanatismi. Ma il messaggio
era arrivato. Nessuno si azzardò mai più a puntarci addosso un obiettivo.
Nessuno.
Sei un fanatico robi
RispondiEliminawow!!per un paio di foto?!?!?!?ihihihihih!!ovviamente io ho fatto il tifo e grasse risate con il padre e i suoi occhiali da saldatore!!! Grande Robi!!
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